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Tunisia, pane e libertà: la protesta corre su twitter
di Riccardo Moro
Questo è stato il mese più bello della mia vita!». Uno dei tanti post lasciato sul sito di France24, la rete satellitare francese che ha trasmesso in diretta la crisi tunisina di queste settimane, sintetizza bene i sentimenti di molti tunisini, che stanno vivendo un passaggio per molti aspetti storico.
Ma che sta accadendo esattamente in Tunisia in questi giorni? È qualcosa che ci riguarda? Sì, gli avvenimenti nel Maghreb ci riguardano. Con quell’area abbiamo legami storici, culturali ed economici, con noi vivono migliaia di persone provenienti da quelle zone e quei paesi hanno un ruolo importante per determinare la posizione del mondo arabo negli equilibri geopolitici internazionali. Come ricordava La Pira, il Mediterraneo è un mare comune, nel quale i destini dei popoli che vi si affacciano sono reciprocamente legati. Dell’area nordafricana, però, forse non abbiamo un’idea davvero precisa. Un paese come la Tunisia è conosciuto da tanti italiani probabilmente più per i villaggi vacanza nell’isola di Djerba che per la sua realtà storica e politica. Né la politica ha aiutato a guardare con verità a questo paese. Da moltissimi leader francesi e italiani la Tunisia è stata identificata col suo presidente Ben Ali, considerato come un partner affidabile e un amico. Un ex premier italiano, addirittura, scelse di scappare in Tunisia, per farsi proteggere dalle ostinazioni della irriconoscente democrazia italiana e della sua famelica magistratura.
UN DITTATORE DURO. Ben Ali arriva al potere nel 1987 con un colpo di stato incruento, favorito dai servizi segreti italiani, col quale depone Habib Bourghiba, padre della Tunisia moderna. In questi ventitré anni si è dimostrato un dittatore duro, che usa il potere in modo spregiudicato. Concentra nelle sue mani e in quelle della famiglia della moglie tutto il potere economico, creando imprese intestate a familiari che monopolizzano l’export e il commercio interno. Usa la politica per farle crescere, con leggi che le proteggono e accordi commerciali internazionali che le favoriscono. Inibisce l’opposizione, che può partecipare alle elezioni solo con l’autorizzazione del governo, rilasciata, naturalmente, solo ai partiti minori. In questo modo può presentare una facciata democratica, ma toglie la voce ai veri oppositori. Imbavaglia la stampa, ritirando i permessi di pubblicazione alle testate che lo contestano e arrestando i giornalisti più indipendenti. Favorisce i media compiacenti, soprattutto i canali tv che drogano la popolazione con programmi narcotizzanti comprati sull’altra riva del Mediterraneo e compra il consenso distribuendo denaro e prebende in un sistema di collusione che coinvolge un grande numero di persone.
È contro questo sistema che la popolazione ha protestato in questi giorni. Ed è la caduta di questo sistema che i tunisini riconoscono nella fuga di Ben Ali. Per questo hanno vissuto il mese più bello della loro vita: stanno dando vita ad una liberazione.
TROPPE DISUGUAGLIANZE. Torniamo alla domanda iniziale. Che sta succedendo in Tunisia? Da circa un mese il sindacato ha organizzato manifestazioni contro il caro vita e la disoccupazione. Sui giornali italiani si è parlato di «guerra del pane». In effetti a livello internazionale stiamo assistendo a un nuovo surriscaldamento dei prezzi alimentari, che hanno raggiunto i livelli elevatissimi del 2008, influenzati ancora una volta dalle speculazioni, più che dalla riduzione della produzione. Ma i tunisini non protestavano contro la mancanza di governance internazionale. La protesta riguardava la tassazione eccessiva sui beni di prima necessità e la ineguale distribuzione di un prodotto interno in notevole crescita negli ultimi anni, ma concentrato in poche mani. La crisi internazionale degli ultimi due anni, infatti, in Tunisia si è tradotta in disoccupazione diffusa tra la popolazione più povera, mentre l’elite ha continuato a mantenere, anche grazie alle finanze pubbliche, i propri privilegi. Da subito la protesta è stata del tutto politica.
Non era la prima volta che si protestava in Tunisia. Perché questa volta il presidente è caduto? In molti ritengono che una novità determinante sia stato l’uso delle nuove tecnologie di comunicazione. I manifestanti hanno comunicato ragioni e risultati delle proteste attraverso telefonini, twitter e social network come facebook. La Tunisia è il paese meglio connesso del Maghreb e l’uso di questi strumenti ha alimentato il consenso e la partecipazione, cementati definitivamente dal fatto che il governo prima ha ordinato alla polizia di sparare, che ha fatto 78 morti, e poi ha tentato di impedire alla stampa di parlarne, lasciando alla rete il ruolo di vero informatore.
SITUAZIONE INCERTA. Durante l’ultima settimana le proteste sono dilagate e Ben Ali è scappato con la moglie e i familiari. È atterrato in Sardegna immaginando di essere accolto da amico, ma nessuno si ricordava di lui, mentre dalla Francia un governo imbarazzatissimo annunciava che non lo avrebbe considerato un ospite gradito. Solo tre giorni prima il ministro degli esteri francese aveva offerto aiuto alla polizia tunisina per insegnare a contenere le proteste con il «savoir faire francese riconosciuto in tutto il mondo». Allora i morti erano 50.
Ora la situazione è ancora molto incerta. È stato formato un governo che comprende rappresentanti dell’opposizione, ma i posti chiave sono nelle mani del partito di Ben Ali. La gente non ha gradito ed è tornata in piazza. I cinque ministri vicini al sindacato hanno allora dato le dimissioni e tutto è rimasto sospeso. Il partito di governo, dopo essere stato catalizzatore di favori e ricchezza, è ora considerato come un luogo di peste. Il suo direttivo ha radiato Ben Ali e poi gli stessi membri, fra cui il premier Gannouchi, hanno annunciato di essere usciti dal partito. È presto per dire se si tratti di tattica per rimanere al potere, per consentire ancora un ruolo all’ex leader in esilio o se sia il naturale percorso di chi finalmente vede possibile scrollarsi di dosso il peso del sistema di potere del passato. Intanto è tornato a Tunisi, dopo un esilio di venticinque anni, Moncef Marzouki, la personalità più rilevante dell’opposizione, che aveva dato giudizi molto severi sulla prima composizione del governo di transizione.
Il futuro rimane ancora confuso. Se si formerà un nuovo governo il futuro potrebbe essere facile. Ma se l’opposizione dovesse dividersi e non trovare un’intesa di governo è forte il rischio di un colpo di stato militare o di una fiammata degli estremisti che sinora sono stati emarginati dalle proteste. Rachid al Ghammoudi, leader di Ennahda, il movimento fondamentalista vicino ai Fratelli musulmani, è all’estero e conta sul perdurare della confusione per organizzare un ritorno da salvatore della patria, sullo stile di Khomeini. È uno scenario poco probabile, ma da non sottovalutare.
INCENDIO CONTAGIOSO. Nella regione intanto si sta guardando alla Tunisia con grande speranza. Molti vorrebbero un contagio democratico in Algeria, Libia ed Egitto, dove il regime è formalmente democratico, ma i leader da molti anni non hanno ricambio. La Libia è il paese più simile alla Tunisia di Ben Ali. In Algeria la stampa è sostanzialmente libera. In Egitto il potere non è cosi chiuso. In Libia viceversa il leader tiene personalmente nelle mani il potere economico e dell’informazione, usandolo a proprio piacimento. Ma nonostante le proteste che si sono registrate in Algeria e in Egitto non sembra probabile una evoluzione veloce come quella tunisina. Piuttosto un governo tunisino democratico sarà nel tempo di stimolo perché anche gli altri grandi paesi nordafricani diventino autentiche democrazie. È proprio in questo che potrebbe giocare un ruolo di rilievo l’Europa e un paese come il nostro. Peccato che sinora si siano privilegiati gli accordi commerciali poco trasparenti e ignorati i raggiri della democrazia. Forse è accaduto perché l’uso spregiudicato del potere e dell’informazione è qualcosa che conosciamo, con disagio, anche in Italia. Forse i cittadini tunisini possono insegnare un riscatto morale anche a noi.