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Cristiani nell’esercito israeliano, si riaccende la polemica

Un incontro tenutosi a Nazaret Illit, in vista del reclutamento di cristiani nell'esercito israeliano ha fatto riesplodere le polemiche. Particolarmente duro il commento del patriarca emerito di Gerusalemme, Michel Sabbah.

E’ di questi giorni in Israele la polemica scoppiata in seguito ad una riunione tenuta dalle autorità israeliane a Nazaret Illit, vicino a Nazaret, avente come scopo il reclutamento dei cristiani nell’esercito israeliano e nelle funzioni pubbliche. All’incontro, secondo quanto riportano diversi media, avrebbero partecipato anche membri del clero cristiano e ciò avrebbe provocato vive reazioni, in modo particolare sui social network, perché questa presenza costituirebbe un’eccezione rispetto alla posizione comune degli arabi in Israele che prevede il rifiuto di servire nell’esercito di occupazione.Stop all’occupazione. Particolarmente dura la reazione del patriarca emerito di Gerusalemme, Michel Sabbah, intervistato dal giornale “Kull el-Arab” (Tutti gli Arabi) e diffusa anche dal Patriarcato stesso: “si tratta di un esercito d’occupazione, occupazione imposta ai Palestinesi. Il ‘fucile’ israeliano è puntato contro i palestinesi. Non è dunque logico che un Palestinese si faccia arruolare in questo esercito. Si tratta di una questione di coscienza e di dignità. Il cristiano palestinese israeliano è un elemento che partecipa alla costruzione della sua società israeliana, ma non può costruirla attraverso il sangue versato dal suo fratello palestinese sotto occupazione israeliana”. Per Sabbah “Israele ha innanzi tutto il dovere di mettere fine a questo statuto di occupazione e di risolvere in modo giusto ed equo la questione palestinese il cui destino è completamente nelle sue mani”. “Un cristiano palestinese in Israele fa parte della società israeliana e deve contribuire al suo benessere come ogni cittadino di qualsiasi paese, ma – ribadisce il patriarca emerito – non lo può fare in un esercito che opprime i suoi fratelli. Inoltre deve prendere coscienza che fa parte di uno Stato che non cessa di promulgare leggi razziste che lo rifiutano esplicitamente. Come dunque gettarsi tra le braccia di entità che vi rifiutano?”. Non meno critico Sabbah si rivela nei confronti dei cristiani palestinesi che si arruolano nell’esercito israeliano: “sono liberi di farlo sul piano individuale” afferma, aggiungendo subito dopo una stoccatina,”forse non vedono in questo nessuna questione di coscienza o di dignità. Vi vedono piuttosto l’occasione di ottenere certi privilegi accordati a coloro che servono nell’esercito (priorità nell’accedere all’Università, o nelle opportunità di lavoro) Ma ciò non gli darà l’uguaglianza a cui ha diritto e che non otterrà poiché resterà sempre ‘arabo’ agli occhi dello Stato ebraico. Il valore di un individuo risiede nella sua umanità e nella sua dignità. La dignità in questa questione significa rispondere alla seguente domanda: ‘Può un fratello puntare la propria arma contro suo fratello?”. Questione etica. La polemica sul reclutamento dei cristiani da parte di Israele nelle forze armate non è, tuttavia, nuova, spiega al SIR il Custode di Terra Santa, padre Pierbattista Pizzaballa: “le polemiche sono scoppiate per la presenza all’incontro di due sacerdoti, rivelatasi poi a titolo puramente personale. Le Chiese cristiane, melkita e latina in particolare, hanno diffuso delle dichiarazioni in cui, infatti, prendevano le distanze”. Non ci sono, quindi, cambiamenti nella posizione delle Chiese in merito alla questione del reclutamento dei cristiani, posizione in qualche modo espressa dal patriarca Sabbah. “Da vent’anni a questa parte – annota tuttavia il Custode – sono sempre di più gli arabi cristiani in Israele che si arruolano nelle Forze armate. Ne deriva una questione, quella dei cristiani in Israele e del loro rapporto con lo Stato, che deve essere affrontata non in modo semplicistico. C’è un problema, è vero, ma io non mi sento di accusare tradimento chi si arruola, chi lo fa opera una scelta che può essere discutibile come anche rispettabile. Ciò non elimina – conclude – la valenza etica e morale di tale scelta che implica che un soldato vada armato nei Territori sotto occupazione. Ripeto, si tratta di una questione che non può essere liquidata con una certa facilità”.