Mondo
Serbia, la svolta interrotta
Purtroppo l'assassinio politico sembra fare e disfare la storia della ex-Jugoslavia. E non solo per l'arcinoto attentato di Sarajevo che scatenò la catastrofe della prima guerra mondiale. Nel 1928 anche Pavle Radic, il primo presidente eletto della neonata Jugoslavia, fu assassinato in pieno parlamento da un deputato montenegrino. Sei anni dopo il re Alessandro di Jugoslavia fu assassinato a Marsiglia dai sicari di Ante Pavelic. Si dice che il primo sovrano della Jugoslavia abbia detto morendo: "Proteggete il mio Paese per me". Altrettanto bisogno di provvidenza e di fortuna ha bisogno la Serbia di oggi all'indomani dell'assassinio del suo primo ministro Zoran Djindjic (nella foto). DI ROMANELLO CANTINI
Altrettanto bisogno di provvidenza e di fortuna ha bisogno la Serbia di oggi all’indomani dell’assassinio del suo primo ministro Zoran Djindjic (nella foto). La vittima aveva molti nemici: nella criminalità organizzata che da dieci anni imperversa nel mondo ex-comunista; negli ultimi seguaci del generale-boia Ratko Mladic che riesce ancora a sfuggire alla caccia del tribunale dell’Aia; nel residuo nazionalismo che ancora non perdona la rinuncia al sogno sanguinoso della Grande Serbia. Zoran Djindjic, nonostante la sua storia personale molto controversa, aveva vinto le elezioni di tre anni fa e aveva riportato la Serbia nel solco di una democrazia di tipo occidentale dopo la sbornia delle rivendicazioni nazionalistiche e dopo gli orrori della pulizia etnica praticata da Milosevic in Bosnia e nel Kosovo. Djindjic aveva abolito le leggi repressive imposte da Milosevic a cominciare dalla famigerata legge sulla stampa. Aveva permesso che gli imputati di crimini di guerra fossero consegnati al tribunale dell’Aia a cominciare da Milosevic, arrestato tre anni orsono nonostante le minacciose manifestazioni di piazza a favore del vecchio dittatore, per finire con la consegna venti giorni fa allo stesso tribunale del leader ultranazionalista Vojislav Seseli, che pure nelle elezioni presidenziali dell’anno scorso aveva ancora raccolto il voto di un serbo su quattro.
La svolta democratica e pacifista di Djindjic ha permesso di far rientrare la minacciata secessione del Montenegro e ha messo una pietra sopra sull’ambiziosa e revanscista denominazione di Federazione Serba del tempo di Milosevic per sostituirla con il più modesto appellativo di Unione di Serbia e Montenegro. La nomina di Djindjic a Primo ministro aveva provocato la fine delle sanzioni, la riammissione del Paese all’Onu e aveva aperto una economia al collasso dopo tre guerre agli aiuti internazionali oltre agli investimenti stranieri e alla ripresa degli scambi commerciali con l’Europa. Ora questo lento e faticoso ritorno alla normalità è violentemente rimesso in discussione da una di quelle vampate di furore che scuotono periodicamente la convulsa e sempre imprevedibile storia dei Balcani. Sulla scena non si vedono leader capaci di sostituire un leader in fondo così atipico, anche per storia e per cultura personale, rispetto al suo Paese.
Il numero di coloro che in Serbia considerano il processo ai propri capi di ieri come una intollerabile umiliazione nazionale è ancora vasto mentre nel Kosovo la convivenza tra musulmani e serbi è tutt’altro che accettata, nonostante la presenza delle forze di pace internazionali e il Montenegro tornerà a domandarsi se vale di nuovo la pena di convivere in un unico Stato con vicini così inaffidabili. Così, mentre il resto del mondo è tutto rivolto verso la vicenda dell’Iraq, le due pallottole che ieri hanno tolto di scena un leader come Djindjic ci rammentano bruscamente che il terrorismo non ha né una sola culla né un solo colore e che dietro le minacce della violenza non c’è un unico grande vecchio né un solo nodo gordiano da sciogliere una volta per tutte.