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Il difficile dopo guerra
Anche se la guerra è ancora in corso, si comincia già a intravedere il possibile futuro politico dell'Iraq. Molti sono gli scenari attualmente in ballo. Bush, subito dopo il «vertice di guerra» con Blair in Irlanda del Nord, ha parlato dell'«instaurazione di una'autorità provvisoria irachena» il più presto possibile. Ma sotto l'ala protettiva di chi? Delle potenze impegnate sul campo nella rimozione del regime di Saddam Hussein oppure dell'Onu e quindi anche delle altri attori internazionali quali Francia e Russia sempre contrari all'intervento armato? Di questo abbiamo parlato con Barbara Henry, docente di filosofia politica e reponsabile del master in diritti umani e gestione dei conflitti alla Scuola superiore Sant'Anna di Pisa.DI SIMONE PITOSSI
Professoressa Henry, quali sono le prospettive per il dopo guerra in Iraq?
«Rispondo come filosofa politica e non come politologa e quindi non posso proporre ricette. A partire dalle prospettive che si presentano, credo sia palese la necessità di una soluzione multilaterale in cui gli organismi internazionali e macroregionali quali Onu e Unione Europea possano avere voce in capitolo. Se questo sarà effettivamente possibile, dipenderà tuttavia e in gran parte dalla risposta costruttiva che verrà dalla potenza attualmente in crisi di egemonia, ovvero dagli Stati Uniti».
Che cosa significa in «crisi di egemonia»?
«È la situazione in cui c’è solo il dominio ma non c’è più il consenso. Gli Stati Uniti vivono un momento di perdita quasi totale di consenso internazionale. E credo sia nel loro interesse ricucire il rapporto con gli organismi di carattere multilaterale che finora hanno reso possibile una soluzione complessivamente ordinata dei conflitti di carattere internazionale».
Quale potrebbe essere il ruolo dell’Onu nell’Iraq post-bellico?
«Innanzitutto dovrebbe esercitare un controllo degli standards relativi sia ai livelli di democrazia sia di tutela dei diritti umani che devono essere salvaguardati in questo periodo di transizione. E soprattutto sarebbe importante che l’Onu avesse il ruolo di garante delle capacità di mediazione che i singoli attori in gioco dovrebbero mettere in atto».
Un esempio…
«Negli organismi collaterali chiamati a mantenere l’ordine, come la polizia, sarebbe necessario che ci fosse un rispetto delle varie componenti della popolazione irachena. Sarebbe importante che questa sensibiltà per le differenze venisse messa in atto attraverso il controllo dell’Onu: essere governati da persone che si reputano neutrali o, per lo meno, non nemiche, è questione di grande importanza».
Una volta ancora, soprattutto nella fase pre-bellica, l’Onu ha mostrato di essere inadeguato. Qual è il futuro prossimo di questa organizzazione?
«Le discussioni sulla riforma dell’Onu sono molto più antiche di quest’ultima crisi. Si parla da molto tempo della necessità di democratizzare soprattutto il Consiglio di sicurezza. Ma nel breve periodo, l’Onu deve riconquistare la credibilità senza cercare grandi voli in avanti per evitare un’ulteriore situazione di destabilizzazione. Poi, nel medio periodo l’Onu dovrà prendere atto della necessità dell’allargamento della sua base di consenso».
Come si potrebbe configurare un intervento dell’Europa nel dopo conflitto, soprattutto alla luce delle spaccature emerse tra Francia e Germania da una parte e Gran Bretagna e Spagna dall’altra?
«Dati i rapporti molto complicati soprattutto con Gran Bretagna e Usa credo che sia molto difficile che si possa parlare a brevissimo termine di un intervento politico risolutivo. Ciò che l’Unione Europea può fare è invece lavorare moltissimo a livello di coordinamento delle forze vive emergenti dalla società civile europea che produce Ong, associazioni di consumatori, gruppi di controllo per favorire un’autonoma ristrutturazione della società irachena».
In particolare?
«Dovrà immediatamente lavorare sul campo per il ripristino di livelli soddisfacenti rispetto alla sicurezza e al benessere, all’istruzione, all’educazione, alla sanità, alla libera espressione di opinioni, ovvero collaborare con gli iracheni per ricostruire il tessuto di fondo della società civile nella fase post-bellica, nel momento più delicato perché anche banco di prova di un futuro governo provvisorio».
Anche l’Unione Europea comunque è in un momento di grave crisi politica…
«Sì. E le prospettive a breve termine non sono positive. L’auspicio è che l’Europa si rafforzi proprio a partire da questa grande sconfitta. Se così non sarà, le sue chances di profilarsi quale attore politico internazionale nella risoluzione dei conflitti saranno molto ridotte. Il primo passo da compiere sarà quello di stabilire quale debba essere l’unica voce che decida per l’Unione Europea in politica estera. E quindi proporsi in futuro come potenza civile che abbia un modello di risoluzione dei conflitti alternativo a quello di soluzione violenta applicato oggi da Stati Uniti e Gran Bretagna».
I diritti umani sono i grandi assenti nella recente storia dell’Iraq guidato da un feroce dittatore. E, probabilmente, sono messi in secondo piano anche nell’attuale conflitto bellico…
«Certamente Saddam Hussein non ha mai tutelato i diritti umani degli iracheni. Il problema della guerra è che non possiamo permetterci di mettere in conflitto o in secondo piano il diritto umanitario cioè il diritto primario della popolazione ad avere acqua, cibo e medicinali rispetto ai diritti umani. Il problema concreto è tuttavia che in una situazione di belligeranza attiva è quasi impossibile monitorare l’effettiva tutela dei diritti umani perché gli stessi inviati internazionali preposti al controllo sono sottoposti al rischio di essere uccisi o mutilati. Come si sa, le bombe non hanno occhi. E il diritto alla vita è precario per tutti».