Cet Notizie
Discorsi nel viaggio in Thailandia e Giappone
Giovedì, 21 novembre 2019
– Incontro con le Autorità, con la Società Civile e il Corpo Diplomatico nella Sala «Inner Santi Maitri» della Government House di Bangkok
Sono grato per l’opportunità di essere tra voi e di poter visitare questa terra, ricca di tante meraviglie naturali, e splendidamente custode di tradizioni spirituali e culturali ancestrali come quella dell’ospitalità, che oggi sperimento in prima persona e della quale desidererei farmi carico per propagare e accrescere legami di più grande amicizia tra i popoli.
Molte grazie, Signor Primo Ministro, della sua accoglienza, per le sue parole di benvenuto e del suo gesto di umiltà responsabile. Grazie, perché questo pomeriggio avrò la possibilità di compiere una visita di cortesia a Sua Maestà il Re Rama X e alla famiglia reale. Rinnovo il mio ringraziamento a Sua Maestà per il suo gentile invito a visitare la Tailandia, come pure i miei migliori auspici per il suo regno accompagnandoli con un sincero omaggio alla memoria del suo defunto padre.
Sono lieto di potervi salutare e di incontrarmi con voi, autorità governative, religiose e della società civile, nelle cui persone rivolgo il mio saluto specialmente a tutto il popolo tailandese. I miei ossequi anche al Corpo Diplomatico. In questa occasione non posso mancare di manifestare i miei migliori auguri dopo le recenti elezioni, che hanno rappresentato un ritorno al normale processo democratico.
Grazie a tutti coloro che hanno lavorato per la realizzazione di questa visita.
Sappiamo che oggi i problemi che il nostro mondo affronta sono, di fatto, problemi globali; coinvolgono tutta la famiglia umana ed esigono di sviluppare un deciso sforzo per la giustizia internazionale e la solidarietà tra i popoli. Ritengo rilevante sottolineare che, in questi giorni, la Tailandia concluderà il suo periodo di presidenza dell’ASEAN, espressione del suo impegno storico sui problemi più ampi che riguardano i popoli di tutta l’area del sudest asiatico e anche del suo costante interessamento per favorire la cooperazione politica, economica e culturale nella regione.
Come nazione multiculturale e caratterizzata dalla diversità, la Tailandia riconosce, già da tempo, l’importanza di costruire l’armonia e la coesistenza pacifica tra i suoi numerosi gruppi etnici, mostrando rispetto e apprezzamento per le diverse culture, i gruppi religiosi, le filosofie e le idee. L’epoca attuale è segnata dalla globalizzazione, considerata troppo spesso in termini strettamente economico-finanziari ed incline a cancellare le note essenziali che configurano e generano la bellezza e l’anima dei nostri popoli; invece l’esperienza concreta di un’unità che rispetti e ospiti le differenze serve di ispirazione e di stimolo a tutti coloro che hanno a cuore il mondo così come desideriamo lasciarlo alle generazioni future.
Mi congratulo per l’iniziativa di creare una “Commissione Etico-Sociale”, nella quale avete invitato a partecipare le religioni tradizionali del Paese, al fine di accogliere i loro contributi e di mantenere viva la memoria spirituale del vostro popolo. In questo senso, avrò l’opportunità di incontrarmi con il Supremo Patriarca Buddista, come segno dell’importanza e dell’urgenza di promuovere l’amicizia e il dialogo interreligioso e inoltre come servizio all’armonia sociale e alla costruzione di società giuste, sensibili e inclusive. Desidero assicurare personalmente tutti gli sforzi della piccola ma vivace comunità cattolica, per mantenere e promuovere le caratteristiche tanto peculiari dei Thai, evocate nel vostro inno nazionale: pacifici e affettuosi, ma non codardi; e col fermo proposito di affrontare tutto ciò che ignori il grido di tanti nostri fratelli e sorelle, i quali anelano ad essere liberati dal giogo della povertà, della violenza e dell’ingiustizia. Questa terra ha per nome “libertà”. Sappiamo che questa è possibile solo se siamo capaci di sentirci corresponsabili gli uni degli altri e di superare qualsiasi forma di disuguaglianza. Occorre dunque lavorare perché le persone e le comunità possano avere accesso all’educazione, al lavoro degno, all’assistenza sanitaria, e in tal modo raggiungere i livelli minimi indispensabili di sostenibilità che rendano possibile uno sviluppo umano integrale.
A tale proposito, voglio soffermarmi brevemente sui movimenti migratori, che costituiscono uno dei segni caratteristici del nostro tempo. Non tanto per la mobilità in sé, quanto per le condizioni in cui questa si svolge, fenomeno che rappresenta uno dei principali problemi morali da affrontare per nostra generazione. La crisi migratoria mondiale non può essere ignorata. La stessa Tailandia, nota per l’accoglienza che ha concesso ai migranti e ai rifugiati, si è trovata di fronte a questa crisi dovuta alla tragica fuga di rifugiati dai Paesi vicini. Auspico, ancora una volta, che la comunità internazionale agisca con responsabilità e lungimiranza, possa risolvere i problemi che portano a questo tragico esodo e promuova una migrazione sicura, ordinata e regolata. Possa ogni nazione approntare dispositivi efficaci allo scopo di proteggere la dignità e i diritti dei migranti e dei rifugiati, i quali affrontano pericoli, incertezze e sfruttamento nella ricerca della libertà e di una vita degna per le proprie famiglie. Non si tratta solo di migranti, si tratta anche del volto che vogliamo dare alle nostre società.
E, in questo senso, penso a quelle donne e a quei bambini del nostro tempo che sono particolarmente feriti, violentati ed esposti ad ogni forma di sfruttamento, schiavitù, violenza e abuso. Esprimo la mia riconoscenza al governo tailandese per i suoi sforzi volti ad estirpare questo flagello, come pure a tutte le persone e le organizzazioni che lavorano instancabilmente per sradicare questo male e offrire un percorso di dignità. Quest’anno, in cui si celebra il 30° anniversario della Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza, siamo invitati a riflettere e a operare con decisione, costanza e celerità sulla necessità di proteggere il benessere dei nostri bambini, sul loro sviluppo sociale e intellettuale, sull’accesso all’educazione, così come sulla loro crescita fisica, psicologica e spirituale[1]. Il futuro dei nostri popoli è legato, in larga misura, al modo in cui garantiremo ai nostri figli un futuro nella dignità.
Signore e Signori, oggi più che mai le nostre società hanno bisogno di “artigiani dell’ospitalità”, uomini e donne che si prendano cura dello sviluppo integrale di tutti i popoli, in seno a una famiglia umana che si impegni a vivere nella giustizia, nella solidarietà e nell’armonia fraterna. Voi, ognuno dalla propria posizione, dedicate la vita per contribuire a che il servizio al bene comune possa raggiungere tutti gli angoli di questa Nazione: questo è uno dei compiti più nobili di una persona. Con tali sentimenti, e augurandovi che possiate portare avanti la missione affidatavi, invoco l’abbondanza delle benedizioni divine su questa Nazione, sulle sue autorità e i suoi abitanti. E chiedo al Signore che guidi ognuno di voi e le vostre famiglie sui sentieri della sapienza, della giustizia e della pace. Grazie!
[1] Cfr Discorso al Corpo Diplomatico, 7 gennaio 2019.
– Visita al Patriarca Supremo dei Buddisti al Wat Ratchabophit Sathit Maha Simaram Temple di Bangkok
Vostra Santità:
La ringrazio per le Sue amabili parole di benvenuto. All’inizio della mia visita in questa Nazione, sono lieto di recarmi in questo Tempio Reale, simbolo dei valori e degli insegnamenti che caratterizzano questo amato popolo. Alle fonti del buddismo la maggioranza dei tailandesi si sono abbeverati e hanno permeato la loro maniera di venerare la vita e i propri anziani, di condurre uno stile di vita sobrio, basato sulla contemplazione, sul distacco, sul lavoro duro e sulla disciplina (cfr. Esort. ap. postsin. Ecclesia in Asia, 6); caratteristiche che alimentano quel vostro tratto distintivo così peculiare: essere considerati come il popolo del sorriso.
Il nostro incontro si inscrive entro il cammino di stima e di mutuo riconoscimento iniziato dai nostri predecessori. Sulle loro orme vorrei porre questa visita, per accrescere non solo il rispetto ma anche l’amicizia tra le nostre comunità. Sono passati quasi cinquant’anni da quando il 17° Patriarca Supremo, Somdej Phra Wanarat (Pun Punnasiri), insieme ad un gruppo di importanti monaci buddisti, fece visita al Papa Paolo VI in Vaticano, ciò che rappresentò una svolta assai rilevante nello sviluppo del dialogo tra le nostre tradizioni religiose; dialogo coltivato che, successivamente, permise al Papa Giovanni Paolo II di realizzare una visita in questo Tempio al Patriarca Supremo Sua Santità Somdej Phra Ariyavongsagatanana (Vasana Vasano). In seguito ho avuto l’onore di accogliere di recente una delegazione di monaci del tempio di Wat Pho, con il dono di una traduzione di un antico manoscritto buddista in lingua pali, ora conservato nella Biblioteca Vaticana. Sono piccoli passi che aiutano a testimoniare non solo nelle nostre comunità, ma anche nel nostro mondo, tanto sollecitato a propagare e generare divisioni e esclusioni, testimoniare che la cultura dell’incontro è possibile. Quando abbiamo l’opportunità di riconoscerci e di apprezzarci, anche nelle nostre differenze (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 250), offriamo al mondo una parola di speranza capace di incoraggiare e sostenere quanti si trovano sempre maggiormente danneggiati dalla divisione. Possibilità come queste ci ricordano quanto sia importante che le religioni si manifestino sempre più quali fari di speranza, in quanto promotrici e garanti di fraternità.
In tal senso ringrazio questo popolo, perché, fin dall’arrivo del Cristianesimo in Tailandia, circa quattro secoli e mezzo fa, i cattolici, pur essendo un gruppo minoritario, hanno goduto della libertà nella pratica religiosa e per molti anni hanno vissuto in armonia con i loro fratelli e sorelle buddisti.
Su questa strada di reciproca fiducia e fraternità, desidero ribadire il mio personale impegno e quello di tutta la Chiesa per il rafforzamento di un dialogo aperto e rispettoso al servizio della pace e del benessere di questo popolo. Grazie agli scambi accademici, che permettono una maggiore comprensione reciproca, come pure all’esercizio della contemplazione, della misericordia e del discernimento – tanto comuni alle nostre tradizioni –, potremo credere in uno stile di buona “vicinanza” e crescere in esso. Potremo promuovere tra i fedeli delle nostre religioni lo sviluppo di nuovi progetti di carità, capaci di generare e incrementare iniziative concrete sulla via della fraternità, specialmente con i più poveri, e riguardo alla nostra tanto maltrattata casa comune. In questo modo contribuiremo alla formazione di una cultura di compassione, di fraternità e di incontro, tanto qui come in altre parti del mondo (cfr ibid.). Sono certo, Santità, che questo cammino continuerà a dare frutti e in abbondanza.
Ancora una volta ringrazio Vostra Santità per questo incontro. Prego perché Ella sia colmato di ogni benedizione divina per la Sua salute e il Suo benessere personale, e per la Sua alta responsabilità di guidare i fedeli buddisti sulle strade della pace e della concordia. Grazie.
– Incontro con il Personale Medico del St. Louis Hospital
Cari amici,
sono lieto di avere l’opportunità di incontrarmi con voi, personale medico, sanitario e ausiliario dell’Ospedale St. Louis e di altri ospedali cattolici e centri caritativi. Ringrazio il Direttore per le sue gentili parole di presentazione. Per me è una benedizione assistere, in prima persona, a questo prezioso servizio che la Chiesa offre al popolo thailandese, specialmente ai più bisognosi. Saluto con affetto le Suore di San Paolo di Chartres, come pure le altre religiose qui presenti, e vi ringrazio per la silenziosa e gioiosa dedizione a questo apostolato. Voi ci permettete di contemplare il volto materno del Signore che si china a ungere e sollevare i suoi figli: grazie.
Mi ha fatto piacere sentire le parole del Direttore sul principio che anima questo Ospedale: “Ubi caritas, Deus ibi est”, “Dove c’è carità, lì c’è Dio”. Infatti è proprio nell’esercizio della carità che noi cristiani siamo chiamati non solo a manifestare che siamo discepoli missionari, ma anche a verificare la fedeltà della nostra sequela e quella delle nostre Istituzioni: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40), dice il Signore. Discepoli missionari sanitari che si aprono a «una fraternità mistica, contemplativa, che sa guardare alla grandezza sacra del prossimo, che sa scoprire Dio in ogni essere umano, […] per cercare la felicità degli altri come la cerca il loro Padre buono» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 92).
Da questo punto di vista, voi compite una delle più grandi opere di misericordia, poiché il vostro impegno sanitario va ben oltre una semplice e lodevole pratica della medicina. Tale impegno non può ridursi solo a realizzare alcune azioni o determinati programmi, ma dovete andare al di là, aperti all’imprevisto. Accogliere e abbracciare la vita come arriva al Pronto Soccorso dell’ospedale per essere trattata con una pietà speciale, che nasce dal rispetto e dall’amore per la dignità di tutti gli esseri umani. Anche i processi di guarigione richiedono e rivendicano la forza di un’unzione capace di restituire, in tutte le situazioni che si devono attraversare, uno sguardo che dà dignità e che sostiene.
Tutti voi, membri di questa comunità sanitaria, siete discepoli missionari quando, guardando un paziente, imparate a chiamarlo per nome. So che a volte il vostro servizio può essere pesante e stancante; vivete in mezzo a situazioni estreme, e ciò richiede che possiate essere accompagnati e assistiti nel vostro lavoro. Da qui l’importanza di sviluppare una pastorale della salute in cui, non solo i pazienti, ma tutti i membri di questa comunità possano sentirsi accompagnati e sostenuti nella loro missione. Sappiate anche che i vostri sforzi e il lavoro delle tante istituzioni che rappresentate sono la testimonianza viva della cura e dell’attenzione che siamo chiamati a dimostrare per tutte le persone, in particolare per gli anziani, i giovani e i più vulnerabili.
Quest’anno, l’Ospedale St. Louis celebra il 120° anniversario della sua fondazione. Quante persone hanno ricevuto sollievo nel loro dolore, sono state consolate nelle loro oppressioni e accompagnate nella loro solitudine! Nel rendere grazie Dio per il dono della vostra presenza nel corso di questi anni, vi chiedo di far sì che questo apostolato, e altri simili, siano sempre più segno ed emblema di una Chiesa in uscita che, volendo vivere la propria missione, trova il coraggio di portare l’amore risanante di Cristo a tutti coloro che soffrono.
Al termine di questo incontro visiterò i malati, i disabili, e così potrò accompagnarli, almeno un poco, nel loro dolore.
Tutti sappiamo che la malattia porta sempre con sé grandi interrogativi. La nostra prima reazione può essere quella di ribellarci e persino di avere momenti di sconcerto e desolazione. È il grido di dolore, ed è bene che sia così: Gesù stesso lo ha patito e lo ha fatto suo. Con la preghiera anche noi vogliamo unirci al suo grido.
Unendoci a Gesù nella sua passione scopriamo la forza della sua vicinanza alla nostra fragilità e alle nostre ferite. È un invito ad aggrapparci alla sua vita e al suo sacrificio. Se a volte sentiamo dentro “il pane dell’afflizione e l’acqua della tribolazione”, preghiamo di poter anche trovare, in una mano tesa, l’aiuto necessario per scoprire il conforto che viene dal Signore che “non si tiene nascosto” (cfr Is 30,20) ma che ci sta vicino e ci accompagna.
Poniamo questo incontro e la nostra vita sotto la protezione di Maria, sotto il suo manto. Che lei volga i suoi occhi pieni di misericordia verso di voi, specialmente nel momento del dolore, della malattia e di ogni forme di vulnerabilità. Lei vi aiuti con la grazia di incontrare il suo Figlio nella carne ferita delle persone che servite.
Benedico tutti voi e le vostre famiglie. E vi chiedo, per favore, di non dimenticarvi di pregare per me. Grazie!
– Santa Messa nello Stadio Nazionale
«Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?» (Mt 12,48). Con questa domanda Gesù provocò tutta quella folla che lo ascoltava a interrogarsi su qualcosa che potrebbe sembrare tanto ovvio quanto certo: chi sono i membri della nostra famiglia, quelli che ci appartengono e ai quali noi apparteniamo? Lasciando che la domanda risuonasse in loro in modo chiaro e nuovo, risponde: «Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre» (Mt 12,50). In questo modo rompe non solo i determinismi religiosi e legali dell’epoca, ma anche ogni pretesa eccessiva di chi ritenesse di poter vantare diritti preferenziali su di Lui. Il Vangelo è un invito e un diritto gratuito per tutti quelli che vogliono ascoltare.
È sorprendente notare come il Vangelo sia intessuto di domande che cercano di mettere in crisi, di scuotere e di invitare i discepoli a mettersi in cammino, per scoprire quella verità capace di dare e di generare vitaEvangelii gaudium, 11).
Così è successo ai primi missionari che si misero in cammino e arrivarono in queste terre; ascoltando la Parola del Signore, cercando di rispondere alle sue richieste, poterono vedere che appartenevano a una famiglia molto più grande di quella generata dai legami di sangue, di cultura, di regione o di appartenenza a un determinato gruppo. Spinti dalla forza dello Spirito e riempite le loro sacche con la speranza che nasce dalla buona novella del Vangelo, si misero in cammino per cercare i membri di questa loro famiglia che ancora non conoscevano. Uscirono a cercare i loro volti. Era necessario aprire il cuore a una nuova misura, capace di superare tutti gli aggettivi che sempre dividono, per scoprire tante madri e fratelli thai che mancavano alla loro mensa domenicale. Non solo per quanto avrebbero potuto offrire ad essi, ma anche per tutto ciò che da loro avevano bisogno di ricevere per crescere nella fede e nella comprensione delle Scritture (cfr Conc. Vat. II, Cost. Dei Verbum, 8).
Senza quell’incontro, al Cristianesimo sarebbe mancato il vostro volto; sarebbero mancati i canti, le danze che rappresentano il sorriso thai, così tipico in queste terre. Così hanno intravisto meglio il disegno amorevole del Padre, che è molto più grande di tutti i nostri calcoli e previsioni e non si riduce ad un pugno di persone o a un determinato contesto culturale. Il discepolo missionario non è un mercenario della fede né un procacciatore di proseliti, ma un mendicante che riconosce che gli mancano i fratelli, le sorelle e le madri, con cui celebrare e festeggiare il dono irrevocabile della riconciliazione che Gesù dona a tutti noi: il banchetto è pronto, uscite a cercare tutti quelli che incontrate per la strada (cfr Mt 22,4.9). Questo invio è fonte di gioia, gratitudine e felicità piena, perché «permettiamo a Dio di condurci al di là di noi stessi perché raggiungiamo il nostro essere più vero. Lì sta la sorgente dell’azione evangelizzatrice» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 8).
Sono passati 350 anni dalla creazione del Vicariato Apostolico del Siam (1669-2019), segno dell’abbraccio familiare prodotto in queste terre. Due soli missionari seppero trovare il coraggio di gettare i semi che, fin da quel tempo lontano, stanno crescendo e germogliando in una varietà di iniziative apostoliche, che hanno contribuito alla vita della nazione. Questo anniversario non significa nostalgia del passato, ma fuoco di speranza perché, nel presente, anche noi possiamo rispondere con la stessa determinazione, forza e fiducia. È memoria festosa e grata, che ci aiuta ad uscire con gioia per condividere la vita nuova che viene dal Vangelo con tutti i membri della nostra famiglia che ancora non conosciamo.
Tutti siamo discepoli missionari quando ci decidiamo ad essere parte viva della famiglia del Signore e lo facciamo condividendo come Lui lo ha fatto: non ha avuto paura di sedersi alla tavola dei peccatori, per assicurare loro che alla tavola del Padre e del creato c’era un posto riservato anche per loro; ha toccato coloro che si consideravano impuri e, lasciandosi toccare da loro, li ha aiutati a comprendere la vicinanza di Dio, anzi, a comprendere che loro erano i beati (cfr S. Giovanni Paolo II, Esort. ap. postsin. Ecclesia in Asia, 11).
Penso in particolar modo a quei bambini, bambine e donne esposti alla prostituzione e alla tratta, sfigurati nella loro dignità più autentica; penso a quei giovani schiavi della droga e del non-senso che finisce per oscurare il loro sguardo e bruciare i loro sogni; penso ai migranti spogliati delle loro case e delle loro famiglie, come pure tanti altri che, come loro, possono sentirsi dimenticati, orfani, abbandonati, «senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita» (Esort. ap. Evangelii Gaudium, 49). Penso ai pescatori sfruttati, ai mendicanti ignorati.
Essi fanno parte della nostra famiglia, sono nostre madri e nostri fratelli; non priviamo le nostre comunità dei loro volti, delle loro piaghe, dei loro sorrisi, delle loro vite; e non priviamo le loro piaghe e le loro ferite dell’unzione misericordiosa dell’amore di Dio. Il discepolo missionario sa che l’evangelizzazione non è accumulare adesioni né apparire potenti, ma aprire porte per vivere e condividere l’abbraccio misericordioso e risanante di Dio Padre che ci rende famiglia.
Cara comunità tailandese: andiamo avanti nel cammino, sulle orme dei primi missionari, per incontrare, scoprire e riconoscere con gioia tutti i volti di madri, padri e fratelli che il Signore ci vuole regalare e mancano al nostro banchetto domenicale.
Venerdì, 22 novembre 2019
– Incontro con i Sacerdoti, Religiosi/e, Seminaristi e Catechisti nella Parrocchia di San Pietro di Bangkok
Grazie a Mons. Joseph Pradhan Sridarunsil per le sue parole di benvenuto a nome di tutti voi. Sono contento di potervi vedere, di ascoltarvi, partecipare della vostra gioia e percepire come lo Spirito realizza la sua opera in mezzo a noi. Grazie a tutti voi catechisti, sacerdoti, consacrati e consacrate, seminaristi, per questo tempo che mi regalate.
Grazie anche a Benedetta per aver condiviso la sua vita e la sua testimonianza. Mentre la ascoltavo cresceva in me un sentimento di gratitudine per la vita di tanti missionari e missionarie che hanno segnato la vostra vita e hanno lasciato la loro impronta. Benedetta, ci hai parlato delle Figlie della Carità. Desidero che le mie prime parole con voi siano un ringraziamento a tutti i consacrati che con il silenzioso martirio della fedeltà e della dedizione quotidiana sono stati fecondi. Non so se sono arrivati a poter contemplare o a gustare il frutto dei loro sacrifici, ma senza dubbio sono state esistenze capaci di generare. Sono state promessa di speranza. Per questo, all’inizio del nostro incontro vorrei invitarvi ad avere particolarmente presenti tutti i catechisti, i consacrati anziani che ci hanno generato nell’amore e nell’amicizia con Gesù. Rendiamo grazie per loro e per gli anziani delle nostre comunità che oggi non hanno potuto essere qui presenti. Dite agli anziani che non hanno potuto essere presenti che il Papa li benedice, li ringrazia, e chiede anche la loro benedizione.
Penso che la storia vocazionale di ognuno di noi è segnata da quelle presenze che hanno aiutato a scoprire e discernere il fuoco dello Spirito. È così bello e importante saper ringraziare. «La gratitudine è sempre un’“arma potente”. Solo se siamo in grado di contemplare e ringraziare concretamente per tutti i gesti di amore, generosità, solidarietà e fiducia, così come per i gesti di perdono, pazienza, sopportazione e compassione con cui siamo stati trattati, lasceremo che lo Spirito ci doni quell’aria fresca in grado di rinnovare (e non rattoppare) la nostra vita e missione» (Lettera ai sacerdoti, 4 agosto 2019). Pensiamo a loro, siamo grati e, sulle loro spalle, sentiamoci anche noi chiamati a essere uomini e donne che aiutano a generare la vita nuova che il Signore ci dona. Chiamati alla fecondità apostolica, chiamati a essere agguerriti lottatori per le cose che il Signore ama e per le quali ha dato la vita; chiediamo la grazia che i nostri sentimenti e i nostri sguardi possano palpitare al ritmo del suo Cuore e, oserei dirvi, fino a piagarsi per lo stesso amore; possano essere appassionati per Gesù e per il Suo Regno.
In questo senso, possiamo domandarci tutti: come coltivare la fecondità apostolica? È una bella domanda, che possiamo farci tutti, e ognuno rispondere nel proprio cuore. – La sorella traduce quello che non c’è nel testo – Perché per me non è facile comunicare con voi attraverso un apparecchio, non è facile. Ma voi avete buona volontà. Grazie.
Benedetta, tu ci hai parlato di come il Signore ti ha attratto per mezzo della bellezza. È stata la bellezza di un’immagine della Vergine che, con il suo sguardo speciale, è entrata nel tuo cuore e ha suscitato il desiderio di conoscerla di più: Chi è questa donna? Non sono state le parole, o le idee astratte o i freddi ragionamenti. Tutto è iniziato da uno sguardo, uno sguardo bello che ti ha affascinato. Quanta sapienza nascondono le tue parole! Ridestare alla bellezza, ridestare alla meraviglia, allo stupore capace di aprire nuovi orizzonti e di suscitare nuovi interrogativi. Una vita consacrata che non è in grado di aprirsi alla sorpresa è una vita che è rimasta a metà strada. Questo lo voglio ripetere. Una vita consacrata che non è capace di sorprendersi ogni giorno, di gioire o di piangere, ma di sorprendersi, è una vita consacrata che rimane a metà strada. Il Signore non ci ha chiamati per mandarci nel mondo a imporre obblighi alle persone, o carichi più pesanti di quelli che già hanno, e sono molti, ma a condividere una gioia, un orizzonte bello, nuovo e sorprendente. Mi piace molto quell’espressione di Benedetto XVI, che considero paradigmatica e persino profetica in questi tempi: la chiesa non cresce per proselitismo, ma per attrazione (cfr Esort. ap. Evagelii gaudium, 14). «Annunciare Cristo significa mostrare che credere in Lui e seguirlo non è solamente cosa vera e giusta, ma anche bella, capace di colmare la vita di un nuovo splendore e di una gioia profonda, anche in mezzo alle prove» (ibid., 167).
E questo ci spinge a non aver paura di cercare nuovi simboli e immagini, una musica particolare che aiuti i tailandesi a risvegliare la meraviglia che il Signore ci vuole donare. Non abbiamo paura di voler inculturare il Vangelo sempre di più. Bisogna cercare le forme nuove per trasmettere la Parola capace di scuotere e ridestare il desiderio di conoscere il Signore: Chi è quest’uomo? Chi sono queste persone che seguono un crocifisso?
Preparando questo incontro ho potuto leggere, con una certa pena, che per molti la fede cristiana è una fede straniera, è la religione degli stranieri. Questa realtà ci spinge a cercare con coraggio i modi per confessare la fede “in dialetto”, alla maniera in cui una madre canta la ninna nanna al suo bambino. Con tale fiducia darle volto e “carne” tailandese, che è molto di più che fare delle traduzioni. È lasciare che il Vangelo si svesta di vestiti buoni ma stranieri, per risuonare con la musica che a voi è propria in questa terra e far vibrare l’anima dei nostri fratelli con la stessa bellezza che ha incendiato il nostro cuore. Vi invito a pregare la Vergine, che per prima ha affascinato Benedetta con la bellezza del suo sguardo, e le diciamo con fiducia di figli: «Ottienici ora un nuovo ardore di risorti per portare a tutti il Vangelo della vita che vince la morte. Dacci la santa audacia di cercare nuove strade perché giunga a tutti il dono della bellezza che non si spegne» (ibid., 288).
Lo sguardo di Maria ci spinge a guardare nella sua stessa direzione, verso quell’altro sguardo, per fare tutto quello che Lui ci dirà (cfr Gv 2,1-12). Occhi che affascinano perché sono capaci di andare al di là delle apparenze e di raggiungere e celebrare la bellezza più autentica che vive in ogni persona. Uno sguardo che, come ci insegna il Vangelo, rompe tutti i determinismi, i fatalismi e gli schemi. Dove molti vedevano solo un peccatore, un blasfemo, un esattore delle tasse, un malfattore, perfino un traditore, Gesù è stato capace di vedere apostoli. E questa è la bellezza che il suo sguardo ci invita ad annunciare, uno sguardo che entra dentro, trasforma e che fa emergere il meglio degli altri.
Pensando all’inizio della vostra vocazione, tanti, nella vostra giovinezza, avete partecipato alle attività di giovani che volevano vivere il Vangelo e andavano a visitare i più bisognosi, emarginati e disprezzati della città, orfani e anziani. Sicuramente allora in molti siete stati visitato dal Signore che vi ha fatto sentire la chiamata a donare tutto. Si tratta di uscire da sé stessi e, in quello stesso movimento di uscita, siamo stati incontrati. Nel volto delle persone che incontriamo per la strada possiamo scoprire la bellezza di trattare l’altro come un fratello. Non è più l’orfano, l’abbandonato, l’emarginato o il disprezzato. Adesso ha un volto di fratello, il «fratello redento da Cristo. Questo è essere cristiani! O si può forse intendere la santità prescindendo da questo riconoscimento vivo della dignità di ogni essere umano?» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 98). Desidero sostenere e incoraggiare tanti di voi che, quotidianamente, spendono la propria vita servendo Gesù nei fratelli, come evidenziava il Vescovo nel presentarvi – lo si vedeva orgoglioso –; a tanti di voi che riescono a vedere la bellezza dove altri solo vedono disprezzo, abbandono o un oggetto sessuale da sfruttare. Così, voi siete segno concreto della misericordia viva e operante del Signore. Segno dell’unzione del Santo in queste terre.
Tale unzione esige la preghiera. La fecondità apostolica richiede e si sostiene grazie alla coltivazione dell’intimità della preghiera. Un’intimità come quella di quei nonni, che pregano assiduamente il Rosario. Quanti di noi abbiamo ricevuto la fede dai nostri nonni! E li abbiamo visti così, tra le faccende di casa, con la corona in mano consacrare tutta la giornata. La contemplazione nell’azione, permettendo a Dio di entrare in tutte le piccole cose di ogni giorno. È essenziale che oggi la Chiesa annunci il Vangelo a tutti, in ogni luogo, in ogni occasione, senza indugi e senza paura (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 23), come persone che ogni mattina, in un incontro personale col Signore, vengono nuovamente inviate. Senza la preghiera, tutta la nostra vita e la nostra missione perdono senso, forza e fervore. Se a voi manca la preghiera, qualunque lavoro che fate non ha senso, non ha forza, non ha valore. La preghiera è il centro di tutto.
Diceva San Paolo VI che uno dei peggiori nemici dell’evangelizzazione è la mancanza di fervore (cfr Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 80). Leggete questo numero 80 della Evangelii nuntiandi. E il fervore per il religioso, per la religiosa, per il sacerdote, per il catechista si alimenta in questo duplice incontro: col volto del Signore e con quello dei suoi fratelli. Anche noi abbiamo bisogno di quello spazio in cui ritornare alla fonte per bere l’acqua che dà vita. Immersi in mille di occupazioni, cerchiamo sempre lo spazio per ricordare, nella preghiera, che il Signore ha già salvato il mondo e che siamo invitati con Lui a rendere tangibile questa salvezza.
Grazie ancora per la vostra vita, grazie per la vostra testimonianza e la donazione generosa! Vi chiedo, per favore, di non cedere alla tentazione di pensare che siete pochi; pensate piuttosto che siete piccoli, piccoli strumenti nelle mani creatrici del Signore. E Lui scriverà con la vostra vita le più belle pagine della storia della salvezza in queste terre.
Non dimenticatevi, per favore, di pregare e di far pregare per me. Grazie!
– Incontro con i Vescovi della Thailandia e della FABC nel Santuario del Beato Nicolas Bunkerd Kitbamrung di Bangkok
Sono grato a Sua Eminenza, il Cardinale Francis Xavier Kriengsak Kovithavanij, per le sue gentili parole di introduzione e di benvenuto. Sono contento di poter stare con voi e di condividere, anche se brevemente, le gioie e speranze, le vostre iniziative e i vostri sogni, come pure le sfide che affrontate in quanto pastori del santo popolo fedele di Dio. Grazie per la vostra fraterna accoglienza.
Il nostro incontro di oggi ha luogo nel Santuario del Beato Nicolás Bunkerd Kitbamrung, che ha dedicato la sua vita all’evangelizzazione a alla catechesi, formando discepoli del Signore, soprattutto qui in Tailandia, come anche in parte del Vietnam e lungo la frontiera con il Laos, e coronò la sua testimonianza a Cristo con il martirio. Mettiamo questo incontro sotto il suo sguardo, perché il suo esempio stimoli in noi un grande zelo per l’evangelizzazione in tutte le Chiese locali dell’Asia e possiamo essere, sempre più, discepoli missionari del Signore; così la sua Buona Novella potrà essere sparsa come balsamo e profumo in questo magnifico e grande continente.
So che è in programma per il 2020 l’Assemblea Generale della Federazione delle Conferenze Episcopali dell’Asia, nel cinquantenario della sua fondazione. Una buona occasione per tornare a visitare quei “santuari” dove si custodiscono le radici missionarie che hanno segnato queste terre e per lasciarsi sospingere dallo Spirito Santo sulle orme del primo amore; e questo permetterà di aprirsi con coraggio, con parresia a un futuro che siete chiamati a generare e attuare, affinché tanto la Chiesa quanto la società in Asia beneficino di un impulso evangelico condiviso e rinnovato. Innamorati di Cristo, capaci di far innamorare e di condividere questo stesso amore.
Voi vivete in un continente multiculturale e multireligioso, di grande bellezza e prosperità, ma provato al tempo stesso da povertà e sfruttamento estesi a vari livelli. I rapidi progressi tecnologici possono aprire immense possibilità per facilitare la vita, ma possono anche dare luogo a un crescente consumismo e materialismo, specialmente tra i giovani. Voi portate sulle vostre spalle le preoccupazioni della vostra gente, di fronte al flagello delle droghe e al traffico di persone, alla necessità di occuparsi di un gran numero di migranti e rifugiati, alle cattive condizioni di lavoro, allo sfruttamento del lavoro subito da molti, come pure alla disuguaglianza economica e sociale che esiste tra i ricchi e i poveri.
In mezzo a queste tensioni si trova il pastore, lottando e intercedendo con il suo popolo e per il suo popolo. Perciò credo che la memoria dei primi missionari che ci hanno preceduto con coraggio, con gioia e con una resistenza straordinaria, permetterà di misurare e di valutare il nostro presente e la nostra missione da una prospettiva molto più ampia, molto più innovativa. Questa memoria ci libera, in primo luogo, dal credere che i tempi passati fossero sempre più favorevoli o migliori per l’annuncio, e ci aiuta a non rifugiarci in pensieri e discussioni sterili che finiscono col centrarci e rinchiuderci in noi stessi, paralizzando ogni tipo di azione. «Impariamo piuttosto dai santi che ci hanno preceduto ed hanno affrontato le difficoltà proprie della loro epoca» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 263) e lasciamoci spogliare di tutto ciò che ci si è “attaccato addosso” lungo la strada e che rende più pesante il cammino. Siamo consapevoli che ci sono strutture e mentalità ecclesiali che possono arrivare a condizionare negativamente un dinamismo evangelizzatore; ugualmente, le buone strutture servono quando c’è una vita che le anima, le sostiene e le giudica. Perché in definitiva senza vita nuova e autentico spirito evangelico, senza fedeltà della Chiesa alla propria vocazione, qualsiasi nuova struttura si corrompe in poco tempo» (cfr ibid., 26) e può rendere difficile al nostro cuore l’importante ministero della preghiera e dell’intercessione. Questo ci può aiutare, a volte, a regolarci davanti agli entusiasmi imprudenti di metodi che hanno un successo apparente ma poca vita.
Osservando il cammino missionario in queste terre, uno dei primi insegnamenti ricevuti nasce dalla fiducia di sapere che è proprio lo Spirito Santo il primo ad andare avanti e a chiamare: lo Spirito Santo precede la Chiesa invitandola a raggiungere tutti quei punti nodali, dove si formano i nuovi racconti e paradigmi, raggiungere con la Parola di Gesù i nuclei più profondi dell’anima delle nostre città (cfr ibid., 74) e culture. Non dimentichiamo che lo Spirito Santo arriva prima del missionario e rimane con lui. L’impulso dello Spirito Santo ha sostenuto e motivato gli Apostoli e tanti missionari a non scartare alcuna terra, popolo, cultura o situazione. Non hanno cercato un terreno con garanzie di successo; al contrario, la loro “garanzia” consisteva nella certezza che nessuna persona e cultura fosse a priori incapace di ricevere il seme di vita, di felicità e specialmente dell’amicizia che il Signore desidera donarle. Non hanno aspettato che una cultura fosse affine o si sintonizzasse facilmente con il Vangelo; al contrario, si sono tuffati in quelle realtà nuove, convinti della bellezza di cui erano portatori. Ogni vita vale agli occhi del Maestro. Erano audaci, coraggiosi, perché sapevano prima di tutto che il Vangelo è un dono da seminare in tutti e per tutti, da spargere tra tutti: dottori della legge, peccatori, pubblicani, prostitute, tutti i peccatori di ieri come di oggi. Mi piace evidenziare che la missione, prima che le attività da realizzare o progetti da porre in atto, richiede uno sguardo e un “fiuto” da educare; richiede una preoccupazione paterna e materna, perché la pecora si perde quando il pastore la dà per persa, mai prima. Tre mesi fa, ho ricevuto la visita di un missionario francese che lavora da quasi 40 anni nel nord della Tailandia, tra le tribù. È venuto con un gruppo di 20-25 persone, tutti padri e madri di famiglia, giovani, non più di 25 anni; lui stesso li aveva battezzati, la prima generazione, e ora battezzava i loro figli. Uno potrebbe pensare: hai perso la vita per 50, 100 persone. Questa è stata la sua semina, e Dio lo consola facendogli battezzare i figli di quelli che ha battezzato per primi. Semplicemente, quegli indigeni del nord della Tailandia lui li ha vissuti come una ricchezza per l’evangelizzazione. Non ha dato per persa quella pecora, se n’è fatto carico.
Uno dei punti più belli dell’evangelizzazione è renderci conto che la missione affidata alla Chiesa non consiste solo nella proclamazione del Vangelo, ma anche nell’imparare a credere al Vangelo. Quanti proclamano, proclamiamo, a volte, in momenti di tentazione, il Vangelo, e non ci crediamo al Vangelo! Imparare a credere al Vangelo, a lasciarsi trasformare da esso. Consiste nel vivere e camminare alla luce della Parola che dobbiamo proclamare. Ci farà bene ricordare il grande Paolo VI: «Evangelizzatrice, la Chiesa comincia con l’evangelizzare se stessa. Comunità di credenti, comunità di speranza vissuta e partecipata, comunità d’amore fraterno, essa ha bisogno di ascoltare di continuo ciò che deve credere, le ragioni della sua speranza, il comandamento nuovo dell’amore» (Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 15). Così la Chiesa entra nella dinamica del discepolato di conversione-annuncio; purificata dal suo Signore, si trasforma in testimone per vocazione. Una Chiesa in cammino, senza paura di scendere in strada e confrontarsi con la vita delle persone che le sono state affidate, è capace di aprirsi umilmente al Signore e con il Signore vivere lo stupore, la meraviglia dell’avventura missionaria, senza la necessità consapevole o inconsapevole di voler apparire anzitutto lei stessa, occupando o pretendendo chissà quale posto di preminenza. Quanto dobbiamo imparare da voi, che in tanti dei vostri Paesi o regioni siete minoranze, e a volte minoranze ignorate, ostacolate o perseguitate, e non per questo vi lasciate trascinare o contaminare dal complesso di inferiorità o dal lamento di non sentirsi riconosciuti! Andate avanti: annunciate, seminate, pregate e aspettate. E non perdete la gioia!
Fratelli, «uniti a Gesù, cerchiamo quello che Lui cerca, amiamo quello che Lui ama» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 267), e non temiamo di fare delle sue priorità le nostre priorità. Voi sapete molto bene che cos’è una Chiesa piccola in persone e mezzi, ma ardente e con la voglia di essere strumento vivo della promessa del Signore verso tutte le persone dei vostri villaggi e delle vostre città (cfr Conc. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, 1). Il vostro impegno a portare avanti la fecondità evangelica, annunciando il kerigma con le opere e con le parole nei diversi ambiti dove i cristiani si trovano, è una testimonianza che lascia il segno.
Una Chiesa missionaria sa che la sua miglior parola è il lasciarsi trasformare dalla Parola di Vita, facendo del servizio la sua nota distintiva. Non siamo noi a disporre della missione, e tanto meno le nostre strategie. È lo Spirito il vero protagonista, che continuamente spinge e invia noi, peccatori perdonati, a condividere questo tesoro in vasi di creta (cfr 2Cor 4,7); trasformati dallo Spirito per trasformare ogni angolo dove ci capita di essere. Il martirio della dedizione quotidiana e tante volte silenziosa darà i frutti di cui i vostri popoli hanno bisogno.
Questa realtà ci incoraggia a sviluppare una spiritualità molto particolare. Il pastore è una persona che, innanzitutto, ama visceralmente il suo popolo, conosce le sue intolleranze, le sue fragilità e i suoi punti di forza. La missione è certamente amore per Cristo, ma al tempo stesso è una passione per il suo popolo. Quando ci soffermiamo davanti a Gesù crocifisso, riconosciamo tutto l’amore che ci restituisce la dignità e ci sostiene, e proprio lì, se non siamo ciechi, iniziamo a percepire che quello sguardo di Gesù si allarga e si rivolge pieno di affetto e di ardore verso tutto il suo popolo (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 268).
Ricordiamo che anche noi siamo parte di questo popolo; non siamo i padroni, siamo parte del popolo; siamo stati scelti come servitori, non come padroni o signori. Questo significa che dobbiamo affiancare coloro che serviamo con pazienza e amabilità, ascoltandoli, rispettando la loro dignità, incoraggiando e valorizzando sempre le loro iniziative apostoliche. Non perdiamo di vista il fatto che molte delle vostre terre sono state evangelizzate da laici. Non clericalizziamo la missione, per favore; e tanto meno clericalizziamo i laici. Questi laici hanno avuto la possibilità di parlare il dialetto della gente, esercizio semplice e diretto di inculturazione non teorica né ideologica, ma frutto della passione del condividere Cristo. Il santo Popolo fedele di Dio possiede l’unzione del Santo che siamo chiamati a riconoscere, ad apprezzare e diffondere. Non perdiamo questa grazia di vedere Dio che agisce in mezzo al suo popolo: come lo ha fatto prima, lo fa ancora e continuerà a farlo. Mi viene in mente un’immagine che non era nel programma, ma…: il piccolo Samuele che si svegliava di notte. Dio ha rispettato l’anziano sacerdote, debole di carattere, lo lasciava fare, però non gli parlava. Ha parlato a un ragazzo, a uno del popolo.
In modo particolare vi invito a tenere sempre la porta aperta ai vostri sacerdoti. La porta e il cuore. Non dimentichiamo che il prossimo più prossimo del vescovo è il sacerdote. State loro vicino, ascoltateli, cercate di sostenerli in tutte le situazioni che affrontano, specialmente quando li vedete scoraggiati o apatici, che è la peggiore delle tentazioni del demonio. L’apatia, lo scoraggiamento. E questo fatelo non come giudici, ma come padri, non come gestori che si servono di loro, ma come autentici fratelli maggiori. Create un clima di fiducia che favorisca un dialogo sincero, un dialogo aperto, cercando e chiedendo la grazia di avere la medesima pazienza che il Signore ha con ognuno di noi, e che è davvero tanta, è tanta!
Cari fratelli, so che sono molteplici gli interrogativi che dovete affrontare in seno alla vostre comunità, sia nel quotidiano sia pensando al futuro. Non perdiamo mai di vista che in quel futuro, tante volte incerto quanto problematico, è proprio il Signore stesso che viene con la forza della Risurrezione trasformando ogni piaga, ogni ferita in fonte di vita. Guardiamo al domani con la certezza che non siamo soli, che non camminiamo da soli, non andiamo da soli, Lui ci aspetta invitandoci a riconoscerlo soprattutto nello spezzare il pane.
Imploriamo l’intercessione del Beato Nicolas e di tanti santi missionari, perché i nostri popoli siano rinnovati con la stessa unzione.
Dato che oggi siete qui numerosi Vescovi dell’Asia, approfitto dell’opportunità per estendere la benedizione e il mio affetto a tutte le vostre comunità, in modo particolare ai malati e a tutti coloro che stanno vivendo momenti di difficoltà. Che il Signore vi benedica, vi protegga e vi accompagni sempre. E a voi, che vi prenda per mano; e che voi vi lasciate guidare dalla mano del Signore e non cerchiate altre mani.
E, per favore, non dimenticatevi di pregare e far pregare per me, perché tutto quello che ho detto a voi lo devo dire anche a me stesso. Grazie!
– Incontro con i leader cristiani e di altre religioni alla Chulalongkorn University di Bangkok
Grazie per il vostro cordiale benvenuto. Sono grato al Vescovo Sirisut e al Dr. Bundit Eua-arporn per le loro gentili parole. Apprezzo anche l’invito a visitare questa famosa Università, gli studenti, i docenti e il personale che danno vita a questa casa di studi, come pure per l’opportunità che mi offrite di incontrarmi con i rappresentanti delle diverse Comunità cristiane e con i responsabili delle altre religioni che ci onorano con la loro presenza. Vi esprimo la mia gratitudine per la vostra presenza qui, con speciale stima e riconoscimento per la preziosa eredità culturale e le tradizioni spirituali di cui siete figli e testimoni.
Centoventidue anni fa, nel 1897, il re Chulalongkorn, da cui prende il nome questa prima Università, visitò Roma ed ebbe un’Udienza con il Papa Leone XIII: era la prima volta che un Capo di Stato non cristiano veniva ricevuto in Vaticano. Il ricordo di quell’importante incontro, come pure del suo periodo di regno, caratterizzato tra i tanti meriti dall’abolizione della schiavitù, ci interpella e ci incoraggia ad assumere un protagonismo deciso sulla via del dialogo e della mutua comprensione. E questo si dovrebbe fare in uno spirito di coinvolgimento fraterno, che aiuti a porre fine a tante schiavitù che persistono ai nostri giorni, penso specialmente al flagello del traffico e della tratta di persone.
La necessità di riconoscimento e di stima reciproca, così come la cooperazione tra le religioni, è ancora più urgente per l’umanità contemporanea; il mondo di oggi si trova di fronte a problematiche complesse, come la globalizzazione economico-finanziaria e le sue gravi conseguenze nello sviluppo delle società locali; i rapidi progressi – che apparentemente promuovono un mondo migliore – convivono con la tragica persistenza di conflitti civili: conflitti sui migranti, sui rifugiati, per le carestie e conflitti bellici; e convivono con il degrado e la distruzione della nostra casa comune.
Tutte queste situazioni ci mettono in guardia e ci ricordano che nessuna regione né settore della nostra famiglia umana può pensarsi o realizzarsi estranea o immune rispetto alle altre. Sono tutte situazioni che, a loro volta, esigono che ci avventuriamo ad intessere nuovi modi di costruire la storia presente senza dover denigrare o mancare di rispetto agli altri. Sono finiti i tempi in cui la logica dell’insularità poteva predominare come concezione del tempo e dello spazio e imporsi come strumento valido per la risoluzione dei conflitti. Oggi è tempo di immaginare, con coraggio, la logica dell’incontro e del dialogo vicendevole come via, la collaborazione comune come condotta e la conoscenza reciproca come metodo e criterio; e, in questa maniera, offrire un nuovo paradigma per la risoluzione dei conflitti, contribuire all’intesa tra le persone e alla salvaguardia del creato. Credo che in questo campo le religioni, così come le università, senza bisogno di rinunciare alle proprie caratteristiche peculiari e ai propri doni particolari, hanno molto da apportare e da offrire; tutto ciò che facciamo in questo senso è un passo significativo per garantire alle generazioni più giovani il loro diritto al futuro, e sarà anche un servizio alla giustizia e alla pace. Solo così forniremo loro gli strumenti necessari, perché siano essi i protagonisti nel modo di generare stili di vita sostenibili e inclusivi.
Questi tempi esigono da noi che costruiamo basi solide, ancorate sul rispetto e sul riconoscimento della dignità delle persone, sulla promozione di un umanesimo integrale capace di riconoscere e pretendere la difesa della nostra casa comune; su un’amministrazione responsabile che tuteli la bellezza e l’esuberanza della natura come un diritto fondamentale all’esistenza. Le grandi tradizioni religiose del mondo danno testimonianza di un patrimonio spirituale, trascendente e ampiamente condiviso, che può offrire solidi contributi in tal senso, se siamo capaci di arrischiarci ad incontrarci senza paura.
Tutti noi siamo chiamati non solo a fare attenzione alla voce dei poveri intorno a noi: gli emarginati, gli oppressi, i popoli indigeni e le minoranze religiose, ma anche a non aver paura di generare istanze, come già timidamente iniziano a svilupparsi, dove poterci unire e lavorare insieme. Nel contempo, ci è richiesto di assumerci il dovere di difendere la dignità umana e di rispettare i diritti di coscienza e di libertà religiosa, di creare spazi dove offrire un po’ di aria fresca nella certezza che «non tutto è perduto, perché gli esseri umani, capaci di degradarsi fino all’estremo, possono anche superarsi, ritornare a scegliere il bene e rigenerarsi, al di là di qualsiasi condizionamento psicologico e sociale che venga loro imposto» (Enc. Laudato si, 205).
Qui in Tailandia, Paese di grande bellezza naturale, desidererei sottolineare una nota distintiva che considero essenziale, e in certa misura, parte delle ricchezze da “esportare” e da condividere con le altre regioni della nostra famiglia umana. Voi apprezzate e avete cura dei vostri anziani – è una grande ricchezza! –, li rispettate e date loro un posto preferenziale, perché vi assicurino le radici necessarie e così il vostro popolo non si corrompa seguendo certi slogan, che finiscono per svuotare e ipotecare l’anima delle nuove generazioni. Con la tendenza crescente a screditare i valori e le culture locali, per imposizione di un modello unico, «assistiamo a una tendenza ad “omogeneizzare” i giovani, a dissolvere le differenze proprie del loro luogo di origine, a trasformarli in soggetti manipolabili fatti in serie. Così si produce una distruzione culturale, che è tanto grave quanto l’estinzione delle specie animali e vegetali» (Esort. ap. postsin. Christus vivit, 186). Continuate a far conoscere ai più giovani il bagaglio culturale della società in cui vivono. Aiutare i giovani a scoprire la ricchezza viva del passato, a incontrarsi con le proprie radici facendo memoria, a incontrarsi con gli anziani, è un vero atto di amore verso di loro, in vista della loro crescita e delle decisioni che dovranno prendere (cfr ibid., 187).
Tutta questa prospettiva coinvolge necessariamente il ruolo delle istituzioni educative come questa Università. La ricerca, la conoscenza aiutano ad aprire nuove strade per ridurre la disuguaglianza tra le persone, rafforzare la giustizia sociale, difendere la dignità umana, cercare le forme di risoluzione pacifica dei conflitti e preservare le risorse che danno vita alla nostra terra. La mia gratitudine si dirige, in modo particolare, agli educatori e agli accademici di questo Paese, che lavorano per assicurare alle generazioni presenti e future le capacità e, soprattutto, la sapienza di radice ancestrale, che permetterà loro di partecipare alla promozione del bene comune della società.
Cari fratelli, tutti siamo membri della famiglia umana e ognuno, nel posto che occupa, è chiamato ad essere attore e corresponsabile diretto nella costruzione di una cultura basata sui valori condivisi, che conducano all’unità, al mutuo rispetto e alla convivenza armoniosa.
Una volta ancora vi ringrazio per il vostro invito e la vostra attenzione. Offro la mia preghiera e i miei migliori auguri per i vostri sforzi, orientati a servire lo sviluppo della Tailandia nella prosperità e nella pace. Su di voi qui presenti, sulle vostre famiglie e su quanti godono del vostro servizio, invoco la benedizione divina. E vi chiedo, per favore, di farlo per me. Grazie!
– Santa Messa con i giovani nella Cattedrale dell’Assunzione di Bangkok
Andiamo incontro al Signore che viene!
Il Vangelo che abbiamo appena ascoltato ci invita a metterci in movimento e guardare al futuro per incontrarci con la cosa più bella che vuole regalarci: la venuta definitiva di Cristo nella nostra vita e nel nostro mondo. Diamogli il benvenuto in mezzo a noi con immensa gioia e amore, come solo voi giovani sapete fare! Prima che noi andiamo a cercarlo, sappiamo che il Signore ci cerca, ci viene incontro e ci chiama a partire dal bisogno di una storia da fare, da creare, da inventare. Andiamo avanti con gioia perché sappiamo che lì Lui ci aspetta.
Il Signore sa che attraverso di voi, giovani, entra il futuro in queste terre e nel mondo, e conta su di con voi per portare avanti la sua missione oggi (cfr Esort. ap. postsin. Christus vivit, 174). Come aveva un disegno per il popolo eletto, così Dio ha un disegno anche per ognuno di voi. Lui è il primo a sognare di invitarci tutti a un banchetto che dobbiamo preparare insieme, Lui e noi, come comunità: il banchetto del suo Regno da cui nessuno dovrebbe restare fuori.
Il Vangelo di oggi ci parla di dieci ragazze invitate a guardare al futuro e a partecipare alla festa del Signore. Il problema è stato che alcune di loro non erano pronte a riceverlo; non perché si fossero addormentate, ma perché mancò loro l’olio necessario, il combustibile interiore per mantenere acceso il fuoco dell’amore. Avevano uno slancio e una motivazione grandi, volevano partecipare alla chiamata e alla convocazione del Maestro, ma col tempo le forze e la volontà si erano spente, si erano esaurite, ed erano arrivate tardi. Una parabola su cosa potrebbe succedere a tutti i cristiani quando, pieni di slancio e di desiderio, sentiamo la chiamata del Signore a far parte del suo Regno e a condividere la sua gioia con gli altri. Capita spesso allora che, di fronte ai problemi e agli ostacoli, che tante volte sono molti, come ognuno di voi sa bene nel suo cuore; davanti alla sofferenza di persone care, o all’impotenza che si sperimenta in situazioni che sembrano impossibili da cambiare, l’incredulità e l’amarezza possono guadagnare spazio e infiltrarsi silenziosamente nei nostri sogni, facendo sì che si raffreddi il nostro cuore, che perdiamo la gioia e arriviamo tardi.
Per questo mi piacerebbe domandarvi: volete mantenere vivo il fuoco che può illuminarvi in mezzo alla notte e in mezzo alle difficoltà? Volete prepararvi per rispondere alla chiamata del Signore? Volete essere pronti a fare la sua volontà?
Come procurarsi l’olio che può mantenervi in movimento e incoraggiarvi a cercare il Signore in ogni situazione?
Voi siete eredi di una magnifica storia di evangelizzazione che vi è stata trasmessa come un tesoro sacro. Questa bella Cattedrale è testimone della fede in Cristo che hanno avuto i vostri antenati: la loro fedeltà, profondamente radicata, li ha spinti a compiere buone opere, a costruire l’altro tempio, ancora più bello, composto da pietre vive per poter portare l’amore misericordioso di Dio a tutte le persone del loro tempo. Hanno potuto fare questo perché erano convinti di quanto il profeta Osea ha proclamato nella prima Lettura di oggi: Dio aveva parlato loro con tenerezza, li aveva abbracciati con amore forte, per sempre (cfr Os 2,16.21).
Cari amici, perché il fuoco dello Spirito Santo non si spenga, e voi possiate mantenere vivo lo sguardo e il cuore, è necessario essere radicati nella fede dei nostri anziani: padri, nonni, maestri. Non per restare prigionieri del passato, ma per imparare ad avere quel coraggio che può aiutarci a rispondere alle nuove situazioni storiche. La loro è stata una vita che ha resistito a molte prove e a molta sofferenza. Ma, lungo la strada, hanno scoperto che il segreto di un cuore felice è la sicurezza che troviamo quando siamo ancorati, radicati in Gesù, radicati nella vita di Gesù, nelle sue parole, nella sua morte e risurrezione.
«A volte ho visto alberi giovani, belli, che alzavano i loro rami verso il cielo tendendo sempre più in alto, e sembravano un canto di speranza. Successivamente, dopo una tempesta, lo ho trovati caduti, senza vita. Poiché avevano poche radici, avevano disteso i loro rami senza mettere radici profonde nel terreno, e così hanno ceduto agli assalti della natura. Per questo mi fa male vedere che alcuni propongono ai giovani di costruire un futuro senza radici, come se il mondo iniziasse adesso. Perché è impossibile che uno cresca se non ha radici forti che aiutino a stare bene in piedi e attaccato alla terra». Ragazzi e ragazze, è molto «facile ‘volare via’ quando non si sa dove attaccarsi, dove fissarsi» (Esort. ap. postsin. Christus vivit, 179).
Senza questo forte senso di radicamento, possiamo restare sconcertati dalle “voci” di questo mondo, che si contendono la nostra attenzione. Molte di quelle sono allettanti, proposte ben “truccate”, che all’inizio sembrano belle e intense, ma con il tempo finiscono per lasciare solo il vuoto, la stanchezza, la solitudine e la svogliatezza (cfr ibid., 142) e vanno spegnendo quella scintilla di vita che il Signore ha acceso un giorno in ognuno di noi.
Cari giovani! Voi siete una nuova generazione, con nuove speranze, nuovi sogni e nuove domande; sicuramente anche con alcuni dubbi, ma, radicati in Cristo, vi invito a mantenere viva la gioia e a non aver paura di guardare al futuro con fiducia. Radicati in Cristo, guardate con gioia e guardate con fiducia. Questa condizione nasce dal sapersi desiderati, incontrati e amati infinitamente dal Signore. L’amicizia coltivata con Gesù è l’olio necessario per illuminare il cammino, il vostro cammino, ma anche quello di tutti coloro che vi circondano: amici, vicini, compagni di studio e di lavoro, compreso quello di quanti sono del tutto in disaccordo con voi.
Andiamo incontro al Signore che viene! Non abbiate paura del futuro e non lasciatevi intimidire; al contrario, sappiate che nel futuro il Signore vi sta aspettando per preparare e celebrare la festa del suo Regno.
Ringraziamento del Santo Padre al termine della Messa con i giovani
Al termine di questa celebrazione, desidero ringraziare tutti coloro che hanno reso possibile la mia visita in Tailandia e che hanno collaborato alla realizzazione.
Rinnovo l’espressione della mia gratitudine a Sua Maestà il Re Rama X, al Governo e alle altre Autorità del Paese per la loro premurosa accoglienza. Ringrazio di cuore i miei fratelli Vescovi e in particolare il Cardinale Francis Xavier, come pure i sacerdoti, le religiose e i religiosi, i fedeli laici, e specialmente voi, i giovani!
Un grazie sentito ai volontari che hanno collaborato con tanta generosità; e a quanti hanno mi accompagnato con la loro preghiera e i loro sacrifici, in modo particolare ai malati e ai carcerati.
Il Signore vi ricompensi con la sua consolazione e la pace che solo Lui può dare. E vi lascio un compito: non dimenticatevi di pregare per me. Tante grazie!
Sabato, 23 novembre 2019
– Incontro con i Vescovi nella Nunziatura Apostolica a Tokyo
Cari fratelli!
Prima di tutto, voglio scusarmi e chiedere perdono perché sono entrato senza salutare nessuno: che maleducati che siamo, noi argentini! Scusatemi per questo.
Sono molto contento di essere tra di voi. I giapponesi hanno fama di essere metodici e lavoratori e la prova è questa: il Papa scende dall’aereo e lo fanno lavorare subito! Grazie tante.
Sono contento per il dono di visitare il Giappone e per l’accoglienza che mi avete riservato. Ringrazio in particolare l’Arcivescovo Takami per le sue parole a nome dell’intera comunità cattolica in questo Paese. Trovandomi qui con voi, in questo primo incontro ufficiale, voglio salutare tutte e ciascuna delle vostre comunità, laici, catechisti, sacerdoti, religiosi, persone consacrate, seminaristi. E desidero anche estendere l’abbraccio e le mie preghiere a tutti i giapponesi in questo periodo caratterizzato dall’intronizzazione del nuovo Imperatore e dall’inizio dell’era Reiwa.
Non so se lo sapete, ma fin da giovane ho provato simpatia e affetto per queste terre. Sono passati molti anni da quell’impulso missionario, la cui realizzazione si è fatta attendere. Oggi il Signore mi offre l’opportunità di essere tra voi come pellegrino missionario sulle orme di grandi testimoni della fede. Si compiono 470 anni dall’arrivo di San Francesco Saverio in Giappone, che segnò l’inizio della diffusione del Cristianesimo in questa terra. In sua memoria, voglio unirmi a voi per ringraziare il Signore per tutti coloro che, nel corso dei secoli, si sono dedicati a seminare il Vangelo e a servire il popolo giapponese con grande unzione e amore; questa loro dedizione ha dato un volto molto particolare alla Chiesa giapponese. Penso ai martiri San Paolo Miki e ai suoi compagni e al Beato Justo Takayama Ukon, che in mezzo a tante prove ha dato testimonianza fino alla morte. Questa offerta di sé per mantenere viva la fede attraverso la persecuzione ha aiutato la piccola comunità cristiana a crescere, a consolidarsi e a portare frutto. Pensiamo anche ai “cristiani nascosti” della regione di Nagasaki, che hanno conservato la fede per generazioni grazie al battesimo, alla preghiera e alla catechesi. Autentiche Chiese domestiche che risplendevano in questa terra, forse senza saperlo, come specchi della Famiglia di Nazaret.
La via del Signore ci mostra come la vostra presenza si gioca nella vita quotidiana del popolo fedele, che cerca il modo di continuare a rendere presente la memoria di Lui; una presenza silenziosa, una memoria viva che ricorda che dove due o più sono riuniti nel suo nome, Lui sarà lì, con la forza e la tenerezza del suo Spirito (cfr Mt 18,20). Il DNA delle vostre comunità è segnato da questa testimonianza, antidoto contro ogni disperazione, che ci indica la strada alla quale orientarsi. Voi siete una Chiesa viva, che si è conservata pronunciando il Nome del Signore e contemplando come Lui vi guidava in mezzo alla persecuzione.
La semina fiduciosa, la testimonianza dei martiri e l’attesa paziente dei frutti che il Signore dona a suo tempo, hanno caratterizzato la modalità apostolica con cui avete saputo accompagnare la cultura giapponese. Di conseguenza, avete plasmato nel corso degli anni un volto ecclesiale generalmente molto apprezzato dalla società giapponese, grazie ai vostri molteplici contributi al bene comune. Questo importante capitolo della storia del Paese e della Chiesa universale è stato ora riconosciuto con la designazione delle chiese e dei villaggi di Nagasaki e Amakusa come luoghi del Patrimonio Culturale Mondiale; ma, soprattutto, come memoria viva dell’anima delle vostre comunità, speranza feconda di ogni evangelizzazione.
Questo viaggio apostolico è contrassegnato dal motto “Proteggere ogni vita”, che può ben simboleggiare il nostro ministero episcopale. Il vescovo è colui che il Signore ha chiamato in mezzo al suo popolo, per restituirlo come pastore capace di proteggere ogni vita, e questo determina in una certa misura lo scenario a cui dobbiamo puntare.
La missione in queste terre è stata caratterizzata da una forte ricerca di inculturazione e dialogo, che ha permesso il formarsi di nuove modalità indipendenti da quelle sviluppate in Europa. Sappiamo che, fin dall’inizio, sono stati utilizzati scritti, teatro, musica e ogni genere di strumenti, per la gran parte in lingua giapponese. Questo fatto dimostra l’amore che i primi missionari sentivano per queste terre. Proteggere ogni vita significa, in primo luogo, avere uno sguardo contemplativo capace di amare la vita di tutto il popolo a voi affidato, per riconoscere in esso prima di tutto un dono del Signore. «Perché solo quello che si ama può essere salvato. Solo quello che si abbraccia può essere trasformato» (Discorso nella Veglia con i giovani, Panama, 26 gennaio 2019). Principio di incarnazione, che può aiutarci a porci davanti ad ogni vita come a un dono gratuito, al di sopra di altre considerazioni, valide ma secondarie. Proteggere ogni vita e annunciare il Vangelo non sono due cose separate né contrapposte: si richiamano e si esigono a vicenda. Entrambe significano stare attenti e vigilanti rispetto a tutto ciò che oggi può impedire, in queste terre, lo sviluppo integrale delle persone affidate alla luce del Vangelo di Gesù.
Sappiamo che in Giappone la Chiesa è piccola e i cattolici sono una minoranza, ma questo non deve sminuire il vostro impegno per una evangelizzazione che, nella vostra situazione particolare, la parola più forte e più chiara che possa offrire è quella di una testimonianza umile, quotidiana e di dialogo con le altre tradizioni religiose. L’ospitalità e la cura che dimostrate ai numerosi lavoratori stranieri, che rappresentano più della metà dei cattolici del Giappone, non solo servono come testimonianza del Vangelo in seno alla società giapponese, ma attestano anche l’universalità della Chiesa, dimostrando che la nostra unione con Cristo è più forte di qualsiasi altro legame o identità ed è in grado di raggiungere tutte le realtà.
Una Chiesa martiriale può parlare con maggiore libertà, specialmente nell’affrontare questioni urgenti di pace e giustizia nel nostro mondo. Domani visiterò Nagasaki e Hiroshima, dove pregherò per le vittime del catastrofico bombardamento di queste due città e mi farò eco dei vostri appelli profetici al disarmo nucleare. Desidero incontrare coloro che ancora patiscono le ferite di quel tragico episodio della storia umana; come pure le vittime del “triplice disastro”. La loro prolungata sofferenza è un eloquente avvertimento al nostro dovere umano e cristiano di aiutare quanti soffrono nel corpo e nello spirito e di offrire a tutti il messaggio evangelico di speranza, guarigione e riconciliazione. Ricordiamo che il male non fa preferenze di persone e non si informa sulle appartenenze; semplicemente irrompe con la sua forza distruttiva, come è accaduto anche di recente con il devastante tifone che ha causato tante vittime e danni materiali. Affidiamo alla misericordia del Signore coloro che sono morti, i loro familiari e tutti coloro che hanno perso la casa e i beni materiali. Non abbiamo paura di portare avanti sempre, qui e in tutto il mondo, una missione capace di alzare la voce e difendere ogni vita come dono prezioso del Signore.
Vi incoraggio, dunque, nei vostri sforzi per garantire che la comunità cattolica in Giappone offra una testimonianza chiara del Vangelo in mezzo a tutta la società. L’apprezzato apostolato educativo della Chiesa rappresenta una grande risorsa per l’evangelizzazione e dimostra l’impegno con le più ampie correnti intellettuali e culturali; la qualità del suo contributo dipenderà naturalmente dalla promozione della sua identità e della sua missione.
Siamo consapevoli del fatto che vi sono diversi flagelli che minacciano la vita di alcune persone delle vostre comunità, che sono segnate, per vari motivi, dalla solitudine, dalla disperazione e dall’isolamento. L’aumento del numero di suicidi nelle vostre città, così come il bullismo (ijime) e varie forme di auto-esigenza, stanno creando nuovi tipi di alienazione e disorientamento spirituale. Quanto tutto ciò colpisce soprattutto i giovani! Vi invito a prestare particolare attenzione a loro e ai loro bisogni, a cercare di creare spazi in cui la cultura dell’efficienza, della prestazione e del successo possa aprirsi alla cultura di un amore gratuito e altruista, capace di offrire a tutti, e non solo a quelli “arrivati”, possibilità di una vita felice e riuscita. Con il loro entusiasmo, le loro idee e le loro energie, oltre che con una buona formazione e un buon accompagnamento, i vostri giovani possono essere una fonte importante di speranza per i loro coetanei e dare una testimonianza viva di carità cristiana. Una ricerca creativa, inculturata e ingegnosa del kerigma può avere un forte riflesso in tante vite assetate di compassione.
So che la messe è molta e gli operai sono pochi. Vi incoraggio a cercare, sviluppare e far crescere una missione capace di coinvolgere le famiglie e promuovere una formazione in grado di raggiungere le persone là dove si trovano, tenendo sempre conto della realtà: il punto di partenza per ogni apostolato nasce dal luogo in cui le persone si trovano, con le loro abitudini e occupazioni, non nei luoghi artificiali. Lì, dobbiamo raggiungere l’anima delle città, dei luoghi di lavoro, delle università per accompagnare con il Vangelo della compassione e della misericordia i fedeli che ci sono stati affidati.
Grazie ancora per l’opportunità che mi offrite di visitare le vostre Chiese particolari e di celebrare insieme con esse. Pietro vuole confermarvi nella fede, ma Pietro viene anche a toccare con mano e a lasciarsi rinnovare sulle orme di tanti martiri testimoni della fede; pregate perché il Signore mi conceda questa grazia.
Chiedo al Signore di benedire voi e, in voi, di benedire le vostre comunità. Grazie.
Domenica, 24 novembre 2019
– Messaggio sulle armi nucleari all’Atomic Bomb Hypocenter Park di Nagasaki
Cari fratelli e sorelle!
Questo luogo ci rende più consapevoli del dolore e dell’orrore che come esseri umani siamo in grado di infliggerci. La croce bombardata e la statua della Madonna, recentemente scoperta nella Cattedrale di Nagasaki, ci ricordano ancora una volta l’orrore indicibile subito nella propria carne dalle vittime e dalle loro famiglie.
Uno dei desideri più profondi del cuore umano è il desiderio di pace e stabilità. Il possesso di armi nucleari e di altre armi di distruzione di massa non è la migliore risposta a questo desiderio; anzi, sembrano metterlo continuamente alla prova. Il nostro mondo vive la dicotomia perversa di voler difendere e garantire la stabilità e la pace sulla base di una falsa sicurezza supportata da una mentalità di paura e sfiducia, che finisce per avvelenare le relazioni tra i popoli e impedire ogni possibile dialogo.
La pace e la stabilità internazionale sono incompatibili con qualsiasi tentativo di costruire sulla paura della reciproca distruzione o su una minaccia di annientamento totale; sono possibili solo a partire da un’etica globale di solidarietà e cooperazione al servizio di un futuro modellato dall’interdipendenza e dalla corresponsabilità nell’intera famiglia umana di oggi e di domani.
Qui, in questa città, che è testimone delle catastrofiche conseguenze umanitarie e ambientali di un attacco nucleare, non saranno mai abbastanza i tentativi di alzare la voce contro la corsa agli armamenti. Questa infatti spreca risorse preziose che potrebbero invece essere utilizzate a vantaggio dello sviluppo integrale dei popoli e per la protezione dell’ambiente naturale. Nel mondo di oggi, dove milioni di bambini e famiglie vivono in condizioni disumane, i soldi spesi e le fortune guadagnate per fabbricare, ammodernare, mantenere e vendere le armi, sempre più distruttive, sono un attentato continuo che grida al cielo.
Un mondo in pace, libero da armi nucleari, è l’aspirazione di milioni di uomini e donne in ogni luogo. Trasformare questo ideale in realtà richiede la partecipazione di tutti: le persone, le comunità religiose, le società civili, gli Stati che possiedono armi nucleari e quelli che non le possiedono, i settori militari e privati e le organizzazioni internazionali. La nostra risposta alla minaccia delle armi nucleari dev’essere collettiva e concertata, basata sull’ardua ma costante costruzione di una fiducia reciproca che spezzi la dinamica di diffidenza attualmente prevalente. Nel 1963, il Papa San Giovanni XXIII nell’Enciclica Pacem in terris, chiedendo pure la proibizione delle armi atomiche (cfr n. 60), affermò che una vera e duratura pace internazionale non può poggiare sull’equilibrio delle forze militari, ma solo sulla fiducia reciproca (cfr n. 61).
È necessario rompere la dinamica della diffidenza che attualmente prevale e che fa correre il rischio di arrivare allo smantellamento dell’architettura internazionale di controllo degli armamenti. Stiamo assistendo a un’erosione del multilateralismo, ancora più grave di fronte allo sviluppo delle nuove tecnologie delle armi; questo approccio sembra piuttosto incoerente nell’attuale contesto segnato dall’interconnessione e costituisce una situazione che richiede urgente attenzione e anche dedizione da parte di tutti i leader.
La Chiesa Cattolica, da parte sua, è irrevocabilmente impegnata nella decisione di promuovere la pace tra i popoli e le nazioni: è un dovere per il quale si sente obbligata davanti a Dio e davanti a tutti gli uomini e le donne di questa terra. Non possiamo mai stancarci di lavorare e di insistere senza indugi a sostegno dei principali strumenti giuridici internazionali di disarmo e non proliferazione nucleare, compreso il Trattato sul divieto delle armi nucleari. Nel luglio scorso, i vescovi del Giappone hanno lanciato un appello per l’abolizione delle armi nucleari, e in ogni mese di agosto la Chiesa giapponese celebra un incontro di preghiera di dieci giorni per la pace. Possano la preghiera, la ricerca instancabile per la promozione di accordi, l’insistenza sul dialogo essere le “armi” in cui riponiamo la nostra fiducia e anche la fonte di ispirazione degli sforzi per costruire un mondo di giustizia e solidarietà che fornisca reali garanzie per la pace.
Nella convinzione che un mondo senza armi nucleari è possibile e necessario, chiedo ai leader politici di non dimenticare che queste non ci difendono dalle minacce alla sicurezza nazionale e internazionale del nostro tempo. Occorre considerare l’impatto catastrofico del loro uso dal punto di vista umanitario e ambientale, rinunciando a rafforzare un clima di paura, diffidenza e ostilità, fomentato dalle dottrine nucleari. Lo stato attuale del nostro pianeta richiede, a sua volta, una seria riflessione su come tutte queste risorse potrebbero essere utilizzate, con riferimento alla complessa e difficile attuazione dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, e quindi raggiungere obiettivi come lo sviluppo umano integrale. È quanto già suggerì, nel 1964, il Papa San Paolo VI, quando propose di aiutare i più diseredati attraverso un Fondo Mondiale, alimentato con una parte delle spese militari (cfr Discorso ai giornalisti, Mumbai, 4 dicembre 1964; Enc. Populorum progressio, 26 marzo 1967, 51).
Per tutto questo, risulta cruciale creare strumenti che garantiscano la fiducia e lo sviluppo reciproco e poter contare su leader che siano all’altezza delle circostanze. Compito che, a sua volta, ci coinvolge e ci interpella tutti. Nessuno può essere indifferente davanti al dolore di milioni di uomini e donne che ancor oggi continua a colpire le nostre coscienze; nessuno può essere sordo al grido del fratello che chiama dalla sua ferita; nessuno può essere cieco davanti alle rovine di una cultura incapace di dialogare.
Vi chiedo di unirci in preghiera ogni giorno per la conversione delle coscienze e per il trionfo di una cultura della vita, della riconciliazione e della fraternità. Una fraternità che sappia riconoscere e garantire le differenze nella ricerca di un destino comune.
So che alcuni dei presenti qui non sono cattolici, ma sono sicuro che tutti possiamo fare nostra la preghiera per la pace attribuita a San Francesco d’Assisi:
In questo luogo di memoria, che ci impressiona e non può lasciarci indifferenti, è ancora più significativo confidare in Dio, perché ci insegni ad essere strumenti efficaci di pace e a lavorare per non commettere gli stessi errori del passato.
Che voi e le vostre famiglie, e l’intera Nazione, possiate sperimentare le benedizioni della prosperità e dell’armonia sociale!
– Omaggio ai Santi Martiri al Monumento dei Martiri – Nishizaka Hill
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Aspettavo con ansia questo momento. Vengo come pellegrino a pregare, a confermare e anche ad essere confermato nella fede da questi fratelli, che con la loro testimonianza e dedizione ci indicano il cammino. Vi sono grato per l’accoglienza.
Questo Santuario evoca le immagini e i nomi dei cristiani che sono stati martirizzati molti anni fa, iniziando da Paolo Miki e i suoi compagni, il 5 febbraio 1597, e la moltitudine di altri martiri che hanno consacrato questo terreno con la loro sofferenza e la loro morte.
Senza dubbio, questo santuario, più che di morte, ci parla del trionfo della vita. San Giovanni Paolo II vide questo luogo non solo come il monte dei martiri, ma come un vero Monte delle Beatitudini, dove possiamo percepire la testimonianza di uomini ricolmi di Spirito Santo, liberi dall’egoismo, dalle comodità e dall’orgoglio (cfr Esort. ap. Gaudete et exsultate, 65). Perché qui la luce del Vangelo ha brillato nell’amore che trionfava sulla persecuzione e sulla spada.
Questo luogo è prima di tutto un monumento che annuncia la Pasqua, poiché proclama che l’ultima parola – nonostante tutte le prove contrarie – non appartiene alla morte, ma alla vita. Non siamo chiamati alla morte, ma a una Vita in pienezza; loro lo hanno annunciato. Sì, qui c’è l’oscurità della morte e del martirio, ma si annuncia anche la luce della risurrezione, dove il sangue dei martiri diventa seme della vita nuova che Cristo vuole donare a tutti noi. La loro testimonianza ci conferma nella fede e ci aiuta a rinnovare la nostra dedizione e il nostro impegno, per vivere il discepolato missionario che sa lavorare per una cultura capace di proteggere e difendere sempre ogni vita, attraverso il “martirio” del servizio quotidiano e silenzioso verso tutti, specialmente i più bisognosi.
Vengo a questo monumento dedicato ai martiri per incontrarmi con questi uomini e donne santi, e voglio farlo con la piccolezza di quel giovane gesuita che veniva “dai confini della terra” e trovò una profonda fonte di ispirazione e di rinnovamento nella storia dei primi martiri giapponesi. Non dimentichiamo l’amore del loro sacrificio! Che non resti una gloriosa reliquia di gesta passate, ben conservata e onorata in un museo, ma sia memoria e fuoco vivo dell’anima di ogni apostolato in questa terra, capace di rinnovare e far ardere continuamente lo zelo evangelizzatore. Che la Chiesa, nel Giappone del nostro tempo, con tutte le sue difficoltà e promesse, si senta chiamata ad ascoltare ogni giorno il messaggio proclamato da San Paolo Miki dalla sua croce, e a condividere con tutti gli uomini e le donne la gioia e la bellezza del Vangelo che è Via, Verità e Vita (cfr Gv 14,6). Che possiamo ogni giorno liberarci da tutto ciò che ci è di peso e ci impedisce di camminare con umiltà, libertà, parresia e carità.
Fratelli, in questo luogo ci uniamo anche ai cristiani che in tante parti del mondo oggi soffrono e vivono il martirio a causa della fede. Martiri del secolo XXI, che ci interpellano con la loro testimonianza affinché prendiamo, con coraggio, la via delle Beatitudini. Preghiamo per loro e con loro, e alziamo la voce perché la libertà religiosa sia garantita a tutti e in ogni angolo del pianeta; e alziamo la voce anche contro ogni manipolazione delle religioni, operata «dalle politiche di integralismo e divisione e dai sistemi di guadagno smodato e dalle tendenze ideologiche odiose, che manipolano le azioni e i destini degli uomini» (Documento sulla fratellanza umana, Abu Dhabi, 4 febbraio 2019).
Chiediamo alla Madonna, Regina dei Martiri, a San Paolo Miki e a tutti i suoi compagni che lungo la storia hanno proclamato con la vita le meraviglie del Signore, di intercedere per la vostra terra e per tutta la Chiesa, perché il loro sacrificio susciti e mantenga viva la gioia della missione.
– Santa Messa allo Stadio di Baseball di Nagasaki
«Gesù, ricordati di me quando sarai nel tuo regno» (Lc 23,42).
Nell’ultima domenica dell’anno liturgico, uniamo le nostre voci a quella del malfattore che, crocifisso con Gesù, lo riconobbe e lo proclamò re. Lì, nel momento meno trionfante e glorioso, in mezzo alle grida di scherno e di umiliazione, quel delinquente è stato capace di alzare la voce e fare la sua professione di fede. Queste sono le ultime parole che Gesù ascolta e, a loro volta, sono le ultime parole che Lui pronuncia prima di consegnarsi al Padre: «In verità io ti dico: oggi sarai con me nel paradiso» (Lc 23,43). Il tortuoso passato del ladro sembra, per un istante, assumere un nuovo significato: accompagnare da vicino il supplizio del Signore; e questo istante non fa altro che confermare la vita del Signore: offrire sempre e dovunque la salvezza. Il Calvario, luogo di smarrimento e di ingiustizia, dove l’impotenza e l’incomprensione sono accompagnate dalla mormorazione sussurrata e indifferente dei beffardi di turno davanti alla morte dell’innocente, si trasforma, grazie all’atteggiamento del buon ladrone, in una parola di speranza per tutta l’umanità. Le burle e le grida di “salva te stesso” di fronte all’innocente sofferente non saranno l’ultima parola; anzi, susciteranno la voce di quelli che si lasciano toccare il cuore e scelgono la compassione come vero modo per costruire la storia.
Oggi qui vogliamo rinnovare la nostra fede e il nostro impegno. Conosciamo bene la storia dei nostri fallimenti, peccati e limiti, come il buon ladrone, ma non vogliamo che sia questo a determinare o definire il nostro presente e futuro. Sappiamo che non di rado possiamo cadere nel clima pigro che fa dire con facilità e indifferenza “salva te stesso”, e perdere la memoria di ciò che significa sopportare la sofferenza di tanti innocenti. Queste terre hanno sperimentato, come poche altre, la capacità distruttiva a cui può giungere l’essere umano. Perciò, come il buon ladrone, vogliamo vivere l’istante in cui poter alzare le nostre voci e professare la nostra fede a difesa e a servizio del Signore, l’Innocente sofferente. Vogliamo accompagnare il suo supplizio, sostenere la sua solitudine e il suo abbandono, e ascoltare, ancora una volta, che la salvezza è la parola che il Padre vuole offrire a tutti: «Oggi sarai con me nel paradiso».
Salvezza e certezza che hanno testimoniato coraggiosamente con la vita San Paolo Miki e si suoi compagni, come pure le migliaia di martiri che segnano la vostra eredità spirituale. Sulle loro orme vogliamo camminare, sui loro passi vogliamo andare per professare con coraggio che l’amore dato, sacrificato e celebrato da Cristo sulla croce è in grado di vincere ogni tipo di odio, egoismo, oltraggio o cattiva evasione; è in grado di vincere ogni pessimismo indolente o benessere narcotizzante, che finisce per paralizzare ogni buona azione e scelta. Ce lo ricordava il Concilio Vaticano II: sono lontani dalla verità coloro che, sapendo che non abbiamo qui una città permanente ma siamo protesi a quella futura, pensano che per questo possiamo trascurare i nostri doveri terreni, senza accorgersi che, proprio per la fede stessa che professiamo, siamo tenuti a compierli così da attestare e manifestare la nobiltà della vocazione alla quale siamo stati chiamati (cfr Cost. past. Gaudium et spes, 43).
La nostra fede è nel Dio dei viventi. Cristo è vivo e agisce in mezzo a noi, guidandoci tutti alla pienezza della vita. È vivo e ci vuole vivi. Cristo è la nostra speranza (cfr Esort. ap. postsin. Christus vivit, 1). Lo imploriamo ogni giorno: venga il tuo Regno, Signore. E così facendo vogliamo anche che la nostra vita e le nostre azioni diventino una lode. Se la nostra missione come discepoli missionari è di essere testimoni e araldi di ciò che verrà, essa non ci permette di rassegnarci davanti al male e ai mali, ma ci spinge a essere lievito del suo Regno dovunque siamo: in famiglia, al lavoro, nella società; ci spinge ad essere una piccola apertura in cui lo Spirito continua a soffiare speranza tra i popoli. Il Regno dei cieli è la nostra meta comune, una meta che non può essere solo per il domani, ma la imploriamo e iniziamo a viverla oggi, accanto all’indifferenza che circonda e fa tacere tante volte i nostri malati e disabili, anziani e abbandonati, rifugiati e lavoratori stranieri: tutti loro sono sacramento vivo di Cristo, nostro Re (cfr Mt 25,31-46); perché «se siamo ripartiti davvero dalla contemplazione di Cristo, dovremo saperlo scorgere soprattutto nel volto di coloro con i quali egli stesso ha voluto identificarsi» (S. Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte, 49).
Quel giorno, sul Calvario, molte voci tacevano, tante altre deridevano; solo quella del ladrone seppe alzarsi e difendere l’innocente sofferente: una coraggiosa professione di fede. Spetta ad ognuno di noi la decisione di tacere, di deridere o di profetizzare. Cari fratelli, Nagasaki porta nella propria anima una ferita difficile da guarire, segno della sofferenza inspiegabile di tanti innocenti; vittime colpite dalle guerre di ieri ma che ancora oggi soffrono per questa terza guerra mondiale a pezzi. Alziamo qui le nostre voci, in una preghiera comune per tutti coloro che oggi stanno patendo nella loro carne questo peccato che grida in cielo, e perché siano sempre di più quelli che, come il buon ladrone, sono capaci di non tacere né deridere, ma di profetizzare con la propria voce un regno di verità e di giustizia, di santità e di grazia, di amore e di pace[1].
[1] Cfr Messale Romano, Prefazio della Solennità di N.S. Gesù Cristo Re dell’universo.
– Incontro per la pace al Memoriale della Pace a Hiroshima
«Per i miei fratelli e i miei amici io dirò: “Su te sia pace!”» (Sal 122,8).
Dio di misericordia e Signore della storia, a te leviamo i nostri occhi da questo luogo, crocevia di morte e vita, di sconfitta e rinascita, di sofferenza e pietà.
Qui, di tanti uomini e donne, dei loro sogni e speranze, in mezzo a un bagliore di folgore e fuoco, non è rimasto altro che ombra e silenzio. Appena un istante, tutto venne divorato da un buco nero di distruzione e morte. Da quell’abisso di silenzio, ancora oggi si continua ad ascoltare il forte grido di coloro che non sono più. Provenivano da luoghi diversi, avevano nomi diversi, alcuni di loro parlavano diverse lingue. Sono rimasti tutti uniti da uno stesso destino, in un’ora tremenda che segnò per sempre non solo la storia di questo Paese, ma il volto dell’umanità.
Faccio memoria qui di tutte le vittime e mi inchino davanti alla forza e alla dignità di coloro che, essendo sopravvissuti a quei primi momenti, hanno sopportato nei propri corpi per molti anni le sofferenze più acute e, nelle loro menti, i germi della morte che hanno continuato a consumare la loro energia vitale.
Ho sentito il dovere di venire in questo luogo come pellegrino di pace, per rimanere in preghiera, ricordando le vittime innocenti di tanta violenza, portando nel cuore anche le suppliche e le aspirazioni degli uomini e delle donne del nostro tempo, specialmente dei giovani, che desiderano la pace, lavorano per la pace, si sacrificano per la pace. Sono venuto in questo luogo pieno di memoria e di futuro portando con me il grido dei poveri, che sono sempre le vittime più indifese dell’odio e dei conflitti.
Desidererei umilmente essere la voce di coloro la cui voce non viene ascoltata e che guardano con inquietudine e con angoscia le crescenti tensioni che attraversano il nostro tempo, le inaccettabili disuguaglianze e ingiustizie che minacciano la convivenza umana, la grave incapacità di aver cura della nostra casa comune, il ricorso continuo e spasmodico alle armi, come se queste potessero garantire un futuro di pace.
Con convinzione desidero ribadire che l’uso dell’energia atomica per fini di guerra è, oggi più che mai, un crimine, non solo contro l’uomo e la sua dignità, ma contro ogni possibilità di futuro nella nostra casa comune. L’uso dell’energia atomica per fini di guerra è immorale, come allo stesso modo è immorale il possesso delle armi atomiche, come ho già detto due anni fa. Saremo giudicati per questo. Le nuove generazioni si alzeranno come giudici della nostra disfatta se abbiamo parlato di pace ma non l’abbiamo realizzata con le nostre azioni tra i popoli della terra. Come possiamo parlare di pace mentre costruiamo nuove e formidabili armi di guerra? Come possiamo parlare di pace mentre giustifichiamo determinate azioni illegittime con discorsi di discriminazione e di odio?
Sono convinto che la pace non è più di un “suono di parole” se non si fonda sulla verità, se non si costruisce secondo la giustizia, se non è vivificata e completata dalla carità e se non si realizza nella libertà (cfr S. Giovanni XXIII, Enc. Pacem in terris, 18).
La costruzione della pace nella verità e nella giustizia significa riconoscere che «molto spesso sussistono differenze, anche spiccate, nel sapere, nella virtù, nelle capacità inventive, nel possesso di beni materiali» (ibid., 49), però ciò non potrà mai giustificare l’intento di imporre agli altri i propri interessi particolari. Al contrario, tutto questo può costituire un motivo di maggiore responsabilità e rispetto. Parimenti, le comunità politiche, che legittimamente possono differire tra loro nel grado di cultura o di sviluppo economico, sono chiamate a impegnarsi a lavorare «per la comune ascesa», per il bene di tutti (cfr ibid., 49-50).
Di fatto, se realmente vogliamo costruire una società più giusta e sicura, dobbiamo lasciare che le armi cadano dalle nostre mani: «non si può amare con armi offensive in pugno» (S. Paolo VI, Discorso alle Nazioni Unite, 4 ottobre 1965, 5). Quando ci consegniamo alla logica delle armi e ci allontaniamo dall’esercizio del dialogo, ci dimentichiamo tragicamente che le armi, ancor prima di causare vittime e distruzione, hanno la capacità di generare cattivi sogni, «esigono enormi spese, arrestano progetti di solidarietà e di utile lavoro, falsano la psicologia dei popoli» (ibid., 5). Come possiamo proporre la pace se usiamo continuamente l’intimidazione bellica nucleare come ricorso legittimo per la risoluzione dei conflitti? Che questo abisso di dolore richiami i limiti che non si dovrebbero mai oltrepassare. La vera pace può essere solo una pace disarmata. Inoltre, «la pace non è la semplice assenza di guerra […]; ma è un edificio da costruirsi continuamente» (Conc. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 78). È frutto della giustizia, dello sviluppo, della solidarietà, dell’attenzione per la nostra casa comune e della promozione del bene comune, imparando dagli insegnamenti della storia.
Ricordare, camminare insieme, proteggere. Questi sono tre imperativi morali che, proprio qui a Hiroshima, acquistano un significato ancora più forte e universale e hanno la capacità di aprire un cammino di pace. Di conseguenza, non possiamo permettere che le attuali e le nuove generazioni perdano la memoria di quanto accaduto, quella memoria che è garanzia e stimolo per costruire un futuro più giusto e fraterno; un ricordo che si diffonde, per risvegliare le coscienze di tutti gli uomini e le donne, specialmente di coloro che oggi svolgono un ruolo speciale per il destino delle nazioni; una memoria viva che aiuti a dire di generazione in generazione: mai più!
Proprio per questo siamo chiamati a camminare uniti, con uno sguardo di comprensione e di perdono, aprendo l’orizzonte alla speranza e portando un raggio di luce in mezzo alle numerose nubi che oggi oscurano il cielo. Apriamoci alla speranza, diventando strumenti di riconciliazione e di pace. Questo sarà sempre possibile se saremo capaci di proteggerci e riconoscerci come fratelli in un destino comune. Il nostro mondo, interconnesso non solo a causa della globalizzazione ma, da sempre, a motivo della terra comune, reclama più che in altre epoche che siano posposti gli interessi esclusivi di determinati gruppi o settori, per raggiungere la grandezza di coloro che lottano corresponsabilmente per garantire un futuro comune.
In un’unica supplica, aperta a Dio e a tutti gli uomini e donne di buona volontà, a nome di tutte le vittime dei bombardamenti, degli esperimenti atomici e di tutti i conflitti, dal cuore eleviamo insieme un grido: Mai più la guerra, ma più il boato delle armi, mai più tanta sofferenza! Venga la pace nei nostri giorni, in questo nostro mondo. O Dio, tu ce l’hai promesso: «Amore e verità s’incontreranno. Giustizia e pace si baceranno. Verità germoglierà dalla terra e giustizia si affaccerà dal cielo» (Sal 84,11-12).
Vieni, Signore, che si fa sera, e dove abbondò la distruzione possa oggi sovrabbondare la speranza che è possibile scrivere e realizzare una storia diversa. Vieni Signore, Principe della pace, rendici strumenti e riflessi della tua pace!
«Per i miei fratelli e i miei amici io dirò: “Su te sia pace!”» (Sal 122,8).
Lunedì, 25 novembre 2019
– Incontro con le vittime del triplice disastro a “Bellesalle Hanzomon” di Tokyo
Cari amici,
Questo incontro con voi è un momento importante nella mia visita in Giappone. Vi ringrazio per l’accoglienza con musica argentina. In modo speciale, ringrazio Toshiko, Tokuun e Matsuki, che hanno condiviso la loro storia con noi. Loro, e anche voi, rappresentate tutti coloro che hanno sofferto così tanto per il triplice disastro – il terremoto, lo tsunami e l’incidente nucleare –, che ha colpito non solo le prefetture di Iwate, Miyagi e Fukushima, ma tutto il Giappone e i suoi abitanti. Grazie per aver espresso con le vostre parole e con la vostra presenza la tristezza e il dolore sofferti da tante persone, ma anche la speranza aperta ad un futuro migliore. Matsuki, concludendo la sua testimonianza, mi ha invitato ad unirmi a voi in preghiera. Facciamo un momento di silenzio e lasciamo che la nostra prima parola sia pregare per le oltre diciottomila persone che hanno perso la vita, per le loro famiglie e per coloro che sono ancora dispersi. Facciamo una preghiera che ci unisca e ci dia il coraggio di guardare avanti con speranza.
Ringraziamo anche per gli sforzi delle amministrazioni locali, delle organizzazioni e delle persone che lavorano nella ricostruzione delle aree in cui si sono verificate le catastrofi e per alleviare la situazione delle oltre cinquantamila persone che sono state evacuate, attualmente in alloggi temporanei, senza poter ancora tornare a le loro case.
Sono particolarmente grato, come ha sottolineato Toshiko, per la prontezza con cui molte persone, non solo dal Giappone ma da tutto il mondo, si sono mobilitate immediatamente dopo le catastrofi per soccorrere le popolazioni colpite con la preghiera e l’assistenza materiale e finanziaria. Un’azione che non può andare perduta nel tempo e venire meno dopo lo shock iniziale, ma che dobbiamo prolungare e sostenere. A proposito di quanto sottolineato da Matsuki, alcuni di coloro che vivevano nelle aree colpite ora si sentono dimenticati e non pochi devono affrontare continui problemi di terreni e foreste contaminati e gli effetti a lungo termine delle radiazioni.
Possa questo incontro servire affinché, tutti insieme, rivolgiamo un appello alle persone di buona volontà perché le vittime di queste tragedie continuino a ricevere l’aiuto di cui hanno tanto bisogno.
Senza risorse di base: cibo, vestiario e riparo, non è possibile condurre una vita dignitosa e avere il minimo necessario per poter ottenere una ricostruzione, che a sua volta richiede di sperimentare la solidarietà e il sostegno di una comunità. Nessuno si “ricostruisce” da solo; nessuno può ricominciare da solo. È essenziale trovare una mano amica, una mano fraterna, in grado di aiutare a risollevare non solo la città, ma anche lo sguardo e la speranza. Toshiko ci ha detto che, pur avendo perduto la casa nello tsunami, è grata di poter apprezzare il dono della vita e di provare speranza vedendo le persone unirsi per aiutarsi a vicenda. Otto anni dopo il triplice disastro, il Giappone ha dimostrato come un popolo può unirsi in solidarietà, pazienza, perseveranza e resistenza. La strada per un pieno recupero può essere ancora lunga, ma è sempre possibile se può contare sull’anima di questa gente capace di mobilitarsi per soccorrersi e aiutarsi a vicenda. Come ha detto Toshiko, se non facciamo nulla il risultato sarà zero, ma se fai un passo, avanzerai di un passo. Quindi, vi invito ad andare avanti ogni giorno, a poco a poco, per costruire il futuro basato sulla solidarietà e l’impegno reciproco, per voi, per i vostri figli e nipoti, e per le generazioni a venire.
Tokuun ha chiesto come possiamo rispondere ad altri importanti problemi che ci riguardano e che, come ben sapete, non possono essere visti e trattati separatamente: guerre, rifugiati, alimentazione, disparità economiche e sfide ambientali. È un grave errore pensare che oggi i problemi possano essere affrontati in maniera isolata senza considerarli come parte di una rete più ampia. Come ha giustamente sottolineato, facciamo parte di questa terra, dell’ambiente; perché tutto, in ultima analisi, è interconnesso. Il primo passo – credo – oltre a prendere decisioni coraggiose e importanti sull’uso delle risorse naturali, e in particolare sulle future fonti di energia, è lavorare e camminare verso una cultura capace di combattere l’indifferenza. Uno dei mali che più ci colpiscono sta nella cultura dell’indifferenza. Urge mobilitarsi per aiutare a prendere coscienza che se un membro della nostra famiglia soffre, tutti soffriamo con lui; perché non si raggiunge una interconnessione se non si coltiva la saggezza dell’appartenenza, l’unica capace di assumere i problemi e le soluzioni in modo globale. Apparteniamo gli uni agli altri.
In tal senso, vorrei ricordare particolarmente l’incidente nucleare di Daiichi a Fukushima e le sue conseguenze. Oltre alle preoccupazioni scientifiche o mediche, c’è anche il lavoro immenso per ripristinare il tessuto della società. Fino a quando i legami sociali non saranno ristabiliti nelle comunità locali e le persone avranno di nuovo una vita sicura e stabile, l’incidente di Fukushima non sarà completamente risolto. Ciò implica, al tempo stesso – come hanno ben sottolineato i miei fratelli vescovi del Giappone – la preoccupazione per il prolungarsi dell’uso dell’energia nucleare, per cui hanno chiesto l’abolizione delle centrali nucleari.
La nostra epoca è tentata di fare del progresso tecnologico la misura del progresso umano. Questo “paradigma tecnocratico” di progresso e di sviluppo modella la vita delle persone e il funzionamento della società e, spesso, porta a un riduzionismo che tocca tutti gli ambiti delle nostre società (cfr Enc. Laudato si’, 101-114). È dunque importante, in momenti come questo, fare una pausa, fermarci e riflettere su chi siamo e, forse in modo più critico, su chi vogliamo essere. Che tipo di mondo, che tipo di eredità vogliamo lasciare a coloro che verranno dopo di noi? La saggezza e l’esperienza degli anziani, insieme all’impegno e all’entusiasmo dei giovani, possono aiutare a plasmare una visione diversa, una visione che aiuti a guardare con grande rispetto il dono della vita e la solidarietà con i nostri fratelli e sorelle nell’unica, multietnica e multiculturale famiglia umana.
Quando pensiamo al futuro della nostra casa comune, dobbiamo renderci conto che non possiamo prendere decisioni puramente egoistiche e che abbiamo una grande responsabilità verso le generazioni future. In tal senso, ci è chiesto di scegliere uno stile di vita umile e austero che risponda alle urgenze che siamo chiamati ad affrontare. Toshiko, Tokuun e Matsuki ci hanno ricordato la necessità di trovare un nuovo percorso per il futuro, un percorso basato sul rispetto per ogni persona e per l’ambiente naturale. In questo percorso, «tutti possiamo collaborare come strumenti di Dio per la cura della creazione, ognuno con la propria cultura ed esperienza, le proprie iniziative e capacità» (ibid., 14).
Cari fratelli, nel continuo lavoro di recupero e ricostruzione dopo il triplice disastro, molte mani devono stringersi e molti cuori devono unirsi come se fossero una cosa sola. In questo modo, quanti hanno sofferto riceveranno sostegno e sapranno di non essere stati dimenticati. Sapranno che molte persone, attivamente ed efficacemente, condividono il loro dolore e continueranno a tendere una mano fraterna per aiutare. Ancora una volta, lodiamo e ringraziamo tutti coloro che, con semplicità, hanno cercato di alleggerire il peso delle vittime. Possa questa compassione essere la strada che permetta a tutti di trovare speranza, stabilità e sicurezza per il futuro.
Grazie ancora per essere stati qui. Per favore, pregate per me. E che Dio conceda a tutti voi e i vostri cari le benedizioni di saggezza, di fortezza e di pace. Grazie!
– Incontro con i giovani nella Cattedrale di Santa Maria a Tokyo
Cari giovani,
grazie di essere venuti, grazie di essere qui! Vedere e ascoltare la vostra energia e il vostro entusiasmo mi dà gioia e mi dà speranza. Vi sono grato per questo. Ringrazio anche Leonardo, Miki e Masako per le loro parole di testimonianza. Ci vuole grande coraggio per condividere ciò che si porta nel cuore come avete fatto voi. Sono sicuro che le vostre voci si sono fatte eco di molti dei vostri compagni qui presenti. Grazie! So che tra di voi ci sono giovani di altre nazionalità, alcuni di loro cercano rifugio. Impariamo a costruire insieme la società che vogliamo per il domani.
Quando vi guardo, posso vedere la diversità culturale e religiosa dei giovani che vivono oggi in Giappone, e anche qualcosa della bellezza che la vostra generazione offre al futuro. L’amicizia tra di voi e la vostra presenza qui ricorda a tutti che il futuro non è “monocromatico”, ma che, se ne abbiamo il coraggio, è possibile guardarlo nella varietà e nella diversità degli apporti che ciascuno può dare. Quanto ha bisogno la nostra famiglia umana di imparare a vivere insieme in armonia e pace senza che dobbiamo essere tutti uguali! Non ci hanno fatto a macchina, tutti in serie. Ognuno viene dall’amore dei suoi genitori e della sua famiglia, per questo siamo tutti diversi, ognuno ha una storia da condividere. Abbiamo bisogno di crescere in fraternità, nell’attenzione agli altri e nel rispetto delle diverse esperienze e dei vari punti di vista. Questo incontro è una festa perché stiamo dicendo che la cultura dell’incontro è possibile, che non è un’utopia, e che voi giovani avete la speciale sensibilità per portarla avanti.
Mi hanno colpito le domande che avete fatto, perché riflettono le vostre esperienze concrete, e anche le speranze e i vostri sogni per il futuro.
Grazie, Leonardo, per aver condiviso l’esperienza di bullismo e discriminazione che hai subito. Sono sempre di più i giovani che trovano il coraggio di parlare di esperienze come la tua. Ai miei tempi, quando ero giovane, non si parlava mai di cose come quelle che ha raccontato Leonardo. La cosa più crudele del bullismo scolastico è che ferisce il nostro spirito e la nostra autostima nel momento in cui abbiamo più bisogno di forza per accettarci e affrontare nuove sfide nella vita. A volte, le vittime di bullismo accusano addirittura sé stessi di essere stati obiettivi “facili”. Potrebbero sentirsi falliti, deboli e senza valore, e arrivare a situazioni molto drammatiche: “Se solo io fossi diverso…”. Paradossalmente, tuttavia, sono i molestatori, quelli che fanno il bullismo ad essere veramente deboli, perché pensano di poter affermare la propria identità facendo del male agli altri. A volte attaccano chiunque considerano diverso e che vedono come una minaccia. In fondo, i molestatori, quelli che fanno bullismo, hanno paura, sono dei paurosi che si coprono con la forza. E in questo – fate attenzione – quando sentite, vedete che qualcuno sente il bisogno di fare del male a un altro, di fare del bullismo su un altro, di molestarlo, quello è il debole. Il molestato non è il debole; è colui che molesta il debole, perché ha bisogno di farsi grande, forte, per sentirsi qualcuno. L’ho detto a Leonardo poco fa: quando ti dicono che sei obeso, digli: “È peggio essere magro come te”. Dobbiamo unirci tutti contro questa cultura del bullismo, tutti insieme contro questa cultura del bullismo, e imparare a dire: basta! È un’epidemia per la quale la migliore medicina la potete trovare voi stessi. Non è sufficiente che le istituzioni educative o gli adulti utilizzino tutte le risorse a loro disposizione per prevenire questa tragedia, ma è necessario che tra voi, tra amici, tra compagni, vi mettiate insieme per dire: No! No al bullismo, no all’aggressione verso l’altro. Questo è male! Non esiste un’arma più grande per difendersi da queste azioni di quella di “alzarsi” tra compagni e amici e dire: “Quello che stai facendo, il bullismo, è grave”.
Chi fa bullismo è un pauroso, e la paura è sempre nemica del bene, per questo è nemica dell’amore e della pace. Le grandi religioni – tutte le religioni che ognuno di noi pratica – insegnano tolleranza, insegnano armonia, insegnano misericordia; le religioni non insegnano paura, divisione e conflitto. Per noi cristiani: ascoltiamo Gesù che diceva sempre ai suoi seguaci di non avere paura. Perché? Perché se stiamo con Dio e amiamo con Dio i nostri fratelli, l’amore scaccia il timore (cfr 1 Gv 4,18). Per molti di noi – come ci hai ricordato, Leonardo – guardare alla vita di Gesù ci permette di trovare conforto, perché Gesù stesso sapeva cosa significa essere disprezzato e respinto, persino fino al punto di essere crocifisso. Sapeva anche cosa significa essere uno straniero, un migrante, uno “diverso”. In un certo senso – e qui mi rivolgo ai cristiani, e quelli che non sono cristiani lo vedano come modello religioso – Gesù è stato il più “emarginato”, un emarginato pieno di Vita da donare. Leonardo, possiamo sempre guardare a tutto ciò che ci manca, ma possiamo anche scoprire la vita che siamo in grado di dare e di donare. Il mondo ha bisogno di te, non dimenticarlo mai; il Signore ha bisogno di te perché tu possa dare coraggio a tanti che oggi chiedono una mano, per aiutarli a rialzarsi.
Vorrei dire a tutti una cosa che può essere utile nella vita. Guardare con disprezzo una persona, guardarla dall’alto in basso, è dire: “Io sono superiore e tu sei inferiore”. Ma c’è un solo modo lecito e giusto di guardare una persona dall’alto in basso: per aiutarla ad alzarsi. Se uno di noi – me compreso – guarda una persona dall’alto in basso con disprezzo, vale poco. Ma se uno di noi guarda una persona dall’alto in basso per tenderle la mano e aiutarla ad alzarsi, quest’uomo o questa donna è grande. Quindi, quando guardate una persona dall’alto in basso, chiedetevi: “Dove sta la mia mano? È nascosta o sta aiutandolo ad alzarsi?”. E sarete felici. D’accordo?
E questo comporta imparare a sviluppare una qualità molto importante ma sottovalutata: la capacità di donare tempo per gli altri, a ascoltarli, a condividere con loro, capirli. E solo così apriremo le nostre storie e le nostre ferite a un amore che ci possa trasformare e iniziare a cambiare il mondo che ci circonda. Se non doniamo, se non perdiamo tempo e “risparmiamo tempo” con le persone, lo perderemo in molte cose che, alla fine della giornata, ci lasceranno vuoti e storditi. Nella mia terra natale direbbero: ci riempiono di cose finché facciamo indigestione. Quindi, per favore, dedicate tempo alla vostra famiglia, dedicate tempo ai vostri amici, e anche a Dio, pregando e meditando, ognuno secondo la propria credenza. E se pregare vi risulta difficile, non arrendetevi. Una saggia guida spirituale disse una volta: la preghiera consiste principalmente nel rimanere lì. Stai fermo, fai spazio per far entrare Dio, lasciati guardare da Lui e Lui ti riempirà della sua pace.
E questo è esattamente ciò che ci ha detto Miki: ha chiesto come possono i giovani fare spazio a Dio in una società frenetica e focalizzata sull’essere solo competitivi e produttivi. È abituale vedere che una persona, una comunità o persino un’intera società possono essere altamente sviluppate all’esterno, ma con una vita interiore povera e ridotta, con l’anima e la vitalità spente; sembrano bambole già fatte che non hanno niente dentro. Tutto per loro è noioso. Ci sono giovani che non sognano più. È terribile un giovane che non sogna, un giovane che non fa spazio al sogno, per far entrare Dio, per far entrare i desideri ed essere fecondo nella vita. Ci sono uomini e donne che non sanno più ridere, che non giocano, che non conoscono il senso della meraviglia e della sorpresa. Uomini e donne che vivono come zombi, il loro cuore ha smesso di battere. Perché? A causa dell’incapacità di celebrare la vita con gli altri. Ascoltate questo: voi sarete felici, sarete fecondi se conservate la capacità di festeggiare la vita con gli altri. Quanta gente nel mondo è materialmente ricca, ma vive come schiava di una solitudine senza eguali! Penso alla solitudine che sperimentano tante persone, giovani e adulti, delle nostre società prospere, ma spesso così anonime. Madre Teresa, che lavorava tra i più poveri dei poveri, una volta disse una cosa che è profetica, una cosa preziosa: “La solitudine e la sensazione di non essere amati è la povertà più terribile”.
Forse ci fa bene domandarci: Per me, qual è la povertà più terribile? Quale sarebbe per me il grado di povertà più grande? E se siamo onesti ci rendiamo conto che la povertà più grande che possiamo avere è la solitudine e la sensazione di non essere amato. Capite? È troppo noioso il discorso o posso andare avanti?… È noioso? [I giovani: “No!”] Manca poco.
Combattere questa povertà spirituale è un compito a cui siamo tutti chiamati, e voi, giovani, avete un ruolo speciale da svolgere, perché richiede un grande cambiamento nelle nostre priorità, nelle nostre scelte. Implica riconoscere che la cosa più importante non è tutto ciò che possiedo o che posso acquistare, ma con chi posso condividerlo. Non è così importante concentrarsi e domandarsi perché vivo, ma per chi vivo. Imparate a farvi questa domanda: non per cosa vivo, ma per chi vivo, con chi condivido la mia vita. Le cose sono importanti, ma le persone sono indispensabili; senza di esse ci disumanizziamo, perdiamo il volto, perdiamo il nome e diventiamo un oggetto in più, forse il migliore di tutti, ma sempre un oggetto; e noi non siamo oggetti, siamo persone. Il libro del Siracide dice: «Un amico fedele è rifugio sicuro: chi lo trova, ha trovato un tesoro» (6,14). Ecco perché è sempre importante chiedersi: «“Per chi sono io?”. Tu sei per Dio, senza dubbio. Ma Lui ha voluto che tu sia anche per gli altri, e ha posto in te molte qualità, inclinazioni, doni e carismi che non sono per te, ma per gli altri» (Esort. ap. postsin. Christus vivit, 286), da condividere con gli altri. Non solo vivere la vita, ma condividere la vita. Condividere la vita.
E questo è qualcosa di bello che puoi offrire al mondo. I giovani possono dare qualcosa al mondo. Testimoniate che l’amicizia sociale, l’amicizia tra di voi è possibile! La speranza in un futuro basato sulla cultura dell’incontro, dell’accoglienza, della fraternità e del rispetto per la dignità di ogni persona, specialmente verso i più bisognosi di amore e comprensione. Senza bisogno di aggredire o disprezzare, ma imparando a riconoscere la ricchezza degli altri.
Una riflessione che può aiutarci: per mantenerci fisicamente vivi, dobbiamo respirare, è un’azione che eseguiamo senza accorgercene, tutti respiriamo automaticamente. Per rimanere vivi nel senso pieno e ampio della parola, dobbiamo anche imparare a respirare spiritualmente, attraverso la preghiera, la meditazione, in un movimento interno, attraverso il quale possiamo ascoltare Dio, che ci parla nel profondo del nostro cuore. E abbiamo anche bisogno di un movimento esterno, col quale ci avviciniamo agli altri con atti di amore, con atti di servizio. Questo doppio movimento ci permette di crescere e di riconoscere non solo che Dio ci ha amato, ma che ha affidato a ciascuno di noi una missione, una vocazione unica e che scopriremo nella misura in cui ci doniamo agli altri, a persone concrete.
Masako ci ha parlato di queste cose partendo dalla sua esperienza di studente e di insegnante. Ha chiesto come si possono aiutare i giovani a rendersi conto della loro bontà e del loro valore. Ancora una volta, vorrei dire che, per crescere, per scoprire la nostra identità, la nostra bontà e la nostra bellezza interiore, non possiamo guardarci allo specchio. Hanno inventato tante cose, ma grazie a Dio non ci sono ancora i selfie dell’anima. Per essere felici, dobbiamo chiedere aiuto agli altri, che la foto la faccia un altro, cioè uscire da noi stessi e andare verso gli altri, specialmente i più bisognosi (cfr ibid., 171). Voglio dirvi una cosa: non guardate troppo a voi stessi, non guardate troppo nello specchio di voi stessi, perché correte il rischio che a forza di guardarvi lo specchio si rompa!
E qui finisco: era ora! In particolare, vi chiedo di stendere le braccia dell’amicizia e di accogliere quelli che vengono, spesso dopo grandi sofferenze, a cercare rifugio nel vostro Paese. Con noi qui c’è un piccolo gruppo di rifugiati; la vostra accoglienza testimonierà che per molti possono essere estranei, ma per voi si possono considerare fratelli e sorelle.
Un maestro saggio una volta disse che la chiave per crescere nella saggezza non sta tanto nel trovare le risposte giuste, ma nello scoprire le domande giuste. Ognuno di voi pensi: io so rispondere alle cose? So rispondere bene alle cose? Ho le risposte corrette? Se qualcuno mi dice di sì, sono contento per te. Però fatti un’altra domanda: Io so fare le domande giuste? Ho un cuore inquieto che mi porta a interrogarmi continuamente sulla vita, su me stesso, sugli altri, su Dio? Con le risposte corrette passate l’esame, ma senza le domande corrette non passate la vita! Non tutti voi siete insegnanti come Masako, ma spero che possiate farvi delle ottime domande, mettervi in discussione e aiutare gli altri a porsi domande buone e provocatorie sul significato della vita e su come possiamo costruire un futuro migliore per coloro che verranno dopo noi.
Cari giovani, grazie per la vostra amichevole attenzione, e grazie per la pazienza, per tutto questo tempo che mi avete dato e per aver condiviso un po’ della vostra vita. Non coprite i sogni! Non stordite i vostri sogni, date spazio ai sogni e osate guardare a grandi orizzonti, osate guardare ciò che vi attende se avrete il coraggio di costruirli insieme. Il Giappone ha bisogno di voi, il mondo ha bisogno di voi, svegli, non addormentati. Ha bisogno di voi, generosi, gioiosi ed entusiasti, capaci di costruire una casa per tutti. Vi prometto che pregherò per voi, perché cresciate in saggezza spirituale, perché sappiate fare le domande giuste, perché vi scordiate dello specchio e sappiate guardare gli occhi degli altri.
A tutti voi, alle vostre famiglie e agli amici, rivolgo i miei migliori auguri e la mia benedizione. E vi chiedo di ricordarvi anche di mandarmi buoni auguri e benedizioni. Grazie!
– Santa Messa nel Tokyo Dome
Il Vangelo che abbiamo ascoltato fa parte del primo grande discorso di Gesù: lo conosciamo come il “Discorso della montagna” e ci descrive la bellezza della via che siamo invitati a percorrere. Secondo la Bibbia, la montagna è il luogo dove Dio si manifesta e si fa conoscere: “Sali verso di me”, disse a Mosè (cfr Es 24,1). Una montagna la cui cima non si raggiunge col volontarismo o il carrierismo, ma solo con l’attento, paziente e delicato ascolto del Maestro in mezzo ai crocevia del cammino. La cima si trasforma in pianura per regalarci una prospettiva sempre nuova su tutto quello che ci circonda, centrata sulla compassione del Padre. In Gesù troviamo il culmine di ciò che significa l’umano e ci indica la via che ci conduce alla pienezza capace di sorpassare tutti i calcoli conosciuti; in Lui troviamo una vita nuova, nella quale sperimentare la libertà di saperci figli amati.
Tuttavia siamo consapevoli del fatto che, lungo il cammino, questa libertà filiale potrebbe vedersi soffocata e indebolita quando restiamo prigionieri del circolo vizioso dell’ansietà e della competitività, o quando concentriamo tutta la nostra attenzione e le nostre migliori energie nella ricerca assillante e frenetica della produttività e del consumismo come unico criterio per misurare e convalidare le nostre scelte o definire chi siamo e quanto valiamo. Una misura che a poco a poco ci rende impermeabili e insensibili alle cose importanti, spingendo il cuore a battere per le cose superflue o effimere. Quanto opprime e incatena l’anima l’affanno di credere che tutto possa essere prodotto, tutto conquistato e tutto controllato!
Qui in Giappone, in una società con un’economia molto sviluppata, mi facevano notare i giovani questa mattina, nell’incontro che ho avuto con loro, che non sono poche le persone socialmente isolate, che restano ai margini, incapaci di comprendere il significato della vita e della propria esistenza. Casa, scuola e comunità, destinate ad essere luoghi dove ognuno sostiene e aiuta gli altri, si stanno sempre più deteriorando a causa dell’eccesiva competizione nella ricerca del guadagno e dell’efficienza. Molte persone si sentono confuse e inquiete, sono oppresse dalle troppe esigenze e preoccupazioni che tolgono loro la pace e l’equilibrio.
Come balsamo risanatore suonano le parole di Gesù che ci invitano a non agitarci e ad avere fiducia. Tre volte con insistenza ci dice: Non angustiatevi per la vostra vita… per il domani (cfr Mt 6,25.31.34). Questo non è un invito a ignorare quanto succede intorno a noi o a diventare sconsiderati verso le nostre occupazioni e responsabilità quotidiane; anzi, al contrario, è una provocazione ad aprire le nostre priorità a un orizzonte di senso più ampio e così a creare spazio per guardare nella sua stessa direzione: «Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,33).
Il Signore non ci dice che le necessità di base, come il cibo e i vestiti, non siano importanti; ci invita, piuttosto, a riconsiderare le nostre scelte quotidiane per non restare intrappolati o isolati nella ricerca del successo ad ogni costo, anche a costo della vita. Gli atteggiamenti mondani, che cercano e perseguono solo il proprio tornaconto o beneficio in questo mondo, e l’egoismo che pretende la felicità individuale, in realtà ci rendono solo sottilmente infelici e schiavi, oltre ad ostacolare lo sviluppo di una società veramente armoniosa e umana.
L’opposto di un “io” isolato, segregato e persino soffocato può solo essere un “noi” condiviso, celebrato e comunicato (cfr Catechesi, 13 febbraio 2019). Questo invito del Signore ci ricorda che «abbiamo bisogno di riconoscere gioiosamente che la nostra realtà è frutto di un dono, e accettare anche la nostra libertà come grazia. Questa è la cosa difficile oggi, in un mondo che crede di possedere qualcosa da sé stesso, frutto della propria originalità e libertà» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 55). Per questo, nella prima Lettura, la Bibbia ci ricorda come il nostro mondo, pieno di vita e di bellezza, è prima di tutto un dono meraviglioso del Creatore che ci precede: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gen 1,31); bellezza-bontà offerta perché possiamo anche condividerla e offrirla agli altri, non come padroni o proprietari, ma come partecipi di uno stesso sogno creatore. «La cura autentica della nostra stessa vita e delle nostre relazioni con la natura è inseparabile dalla fraternità, dalla giustizia e dalla fedeltà nei confronti degli altri» (Enc. Laudato si’, 70).
Di fronte a questa realtà, siamo invitati come comunità cristiana a proteggere ogni vita e a testimoniare con sapienza e coraggio uno stile segnato dalla gratuità e dalla compassione, dalla generosità e dall’ascolto semplice, uno stile capace di abbracciare e di ricevere la vita così come si presenta «con tutta la sua fragilità e piccolezza e molte volte persino con tutte le sue contraddizioni e mancanze di senso» (Discorso nella Veglia della GMG, Panama, 26 gennaio 2019). Siamo chiamati ad essere una comunità che sviluppi una pedagogia capace di dare il «benvenuto a tutto ciò che non è perfetto, a tutto quello che non è puro né distillato, ma non per questo è meno degno di amore. Forse che qualcuno per il fatto di essere disabile o fragile non è degno d’amore? […] Qualcuno, per il fatto di essere straniero, di aver sbagliato, di essere malato o in una prigione, non è degno di amore? Così ha fatto Gesù: ha abbracciato il lebbroso, il cieco e il paralitico, ha abbracciato il fariseo e il peccatore. Ha abbracciato il ladro sulla croce e ha abbracciato e perdonato persino quelli che lo stavano mettendo in croce» (ibid.).
L’annuncio del Vangelo della Vita ci spinge ed esige da noi, come comunità, che diventiamo un ospedale da campo, preparato per curare le ferite e offrire sempre un cammino di riconciliazione e di perdono. Perché per il cristiano l’unica misura possibile con cui giudicare ogni persona e ogni situazione è quella della compassione del Padre per tutti i suoi figli.
Uniti al Signore, cooperando e dialogando sempre con tutti gli uomini e le donne di buona volontà e anche con quelli di diverse convinzioni religiose, possiamo trasformarci in lievito profetico di una società che sempre più protegga e si prenda cura di ogni vita.
– Incontro con le Autorità e il Corpo Diplomatico a Kantei di Tokyo
Ringrazio il Primo Ministro per le sue gentili parole di benvenuto e saluto rispettosamente voi, illustri Autorità e membri del Corpo Diplomatico. Tutti voi, ognuno nella sua posizione, vi dedicate a lavorare per la pace e il progresso delle persone di questa nobile nazione e delle nazioni che rappresentate. Sono molto grato all’Imperatore Naruhito, che ho incontrato stamattina; auspico ogni bene e invoco le benedizioni di Dio sulla Famiglia Imperiale e soprattutto sul popolo giapponese, all’inizio della nuova era che si è aperta.
Le relazioni di amicizia tra la Santa Sede e il Giappone sono molto antiche, radicate nella stima e nell’ammirazione che i primi missionari ebbero per queste terre. Basta ricordare le parole del gesuita Alessandro Valignano che, nel 1579, scrisse: «Chiunque voglia vedere ciò che il nostro Signore ha dato all’uomo è abbastanza per venire a vederlo in Giappone». Storicamente sono stati molti i contatti, le missioni culturali e diplomatiche che hanno alimentato questo rapporto e hanno contribuito a superare momenti di maggiore tensione e difficoltà. Anche questi contatti sono andati strutturandosi a livello istituzionale a beneficio di entrambe le parti.
Sono venuto per confermare i cattolici giapponesi nella fede, nel loro impegno di carità per i bisognosi e per il loro servizio al Paese di cui con orgoglio si sentono cittadini. Come nazione, il Giappone è particolarmente sensibile alla sofferenza dei meno fortunati e delle persone con disabilità. Il motto della mia visita è “Proteggere ogni vita”, riconoscendo la sua inviolabile dignità e l’importanza di mostrare solidarietà e sostegno ai nostri fratelli e sorelle di fronte a qualsiasi necessità. Un’esperienza molto toccante di ciò l’ho avuta ascoltando le storie delle persone colpite dal triplice disastro, e mi hanno commosso le difficoltà che hanno attraversato.
Seguendo le orme dei miei predecessori, voglio anche implorare Dio e invitare tutte le persone di buona volontà a continuare a promuovere e favorire tutte le mediazioni dissuasive necessarie affinché mai più, nella storia dell’umanità, si ripeta la distruzione operata dalle bombe atomiche a Hiroshima e Nagasaki. La storia ci insegna che i conflitti tra popoli e nazioni, anche i più gravi, possono trovare soluzioni valide solo attraverso il dialogo, l’unica arma degna dell’essere umano e capace di garantire una pace duratura. Sono convinto della necessità di affrontare la questione nucleare a livello multilaterale, promuovendo un processo politico e istituzionale in grado di creare un consenso e un’azione internazionali più ampi.
Una cultura di incontro e dialogo – caratterizzata da saggezza, visione e ampiezza di orizzonte – è essenziale per costruire un mondo più giusto e fraterno. Il Giappone ha riconosciuto l’importanza di promuovere contatti personali nei settori dell’istruzione, della cultura, dello sport e del turismo, sapendo che questi possono contribuire notevolmente all’armonia, alla giustizia, alla solidarietà e alla riconciliazione, che sono il cemento della costruzione della pace. Possiamo vedere un esempio evidente di questo nello spirito olimpico, che unisce atleti di tutto il mondo in una competizione che non si basa necessariamente sulla rivalità ma sulla ricerca dell’eccellenza. Sono certo che i Giochi Olimpici e Paralimpici, che l’anno venturo si terranno in Giappone, serviranno da stimolo per far crescere uno spirito di solidarietà che superi i confini nazionali e regionali e cerchi il bene di tutta la nostra famiglia umana.
In questi giorni ho nuovamente apprezzato il prezioso patrimonio culturale che il Giappone, nel corso di molti secoli di storia, è stato in grado di sviluppare e preservare, e i profondi valori religiosi e morali che caratterizzano questa antica cultura. Il buon rapporto tra le diverse religioni non è essenziale solo per un futuro di pace, ma anche per preparare le generazioni presenti e future a valorizzare i principi etici che servono come base per una società veramente giusta e umana. Con le parole del Documento sulla Fratellanza Umana, che ho firmato con il Grande Imam di Al-Azhar nel febbraio scorso, la nostra comune preoccupazione per il futuro della famiglia umana ci spinge ad «assumere la cultura del dialogo come via; la collaborazione comune come condotta; la conoscenza reciproca come metodo e criterio».
Nessun visitatore del Giappone può non ammirare la bellezza naturale di questo Paese, espressa attraverso i secoli dai suoi poeti e artisti, e simboleggiata soprattutto dall’immagine dei fiori di ciliegio. Tuttavia, la delicatezza del fiore di ciliegio ci ricorda la fragilità della nostra casa comune, soggetta non solo ai disastri naturali ma anche all’avidità, allo sfruttamento e alla devastazione per mano dell’uomo. Quando la comunità internazionale ha difficoltà a rispettare i propri impegni per proteggere il creato, sono i giovani che, sempre più, parlano ed esigono decisioni coraggiose. I giovani ci sfidano a considerare il mondo non come un possesso da sfruttare, ma come una preziosa eredità da trasmettere. Da parte nostra, «a loro dobbiamo risposte vere, non parole vuote; fatti, non illusioni» (Messaggio per la Giornata mondiale di preghiera per la cura del creato 2019).
In questo senso, un approccio integrale per la protezione della nostra casa comune deve considerare anche l’ecologia umana. Un impegno per la protezione significa affrontare il crescente divario tra ricchi e poveri, in un sistema economico globale che consente a pochi privilegiati di vivere nell’opulenza mentre la maggioranza della popolazione mondiale vive nella povertà. Conosco la preoccupazione per la promozione di vari programmi che il governo giapponese attua a questo proposito e vi incoraggio a continuare nella formazione di una crescente consapevolezza di corresponsabilità tra le nazioni. La dignità umana dev’essere al centro di ogni attività sociale, economica e politica; occorre promuovere la solidarietà intergenerazionale e, a tutti i livelli della vita comunitaria, bisogna dimostrare preoccupazione per coloro che sono dimenticati ed esclusi. Penso in particolare ai giovani, che spesso si sentono oppressi di fronte alle difficoltà della crescita, e anche alle persone anziane e sole che soffrono di isolamento. Sappiamo che, alla fine, la civiltà di una nazione o di un popolo non si misura dal suo potere economico ma dall’attenzione che dedica ai bisognosi, come pure dalla capacità di diventare fecondi e promotori di vita.
Ora che la mia visita in Giappone volge al termine, esprimo ancora una volta la mia gratitudine per l’invito che ho ricevuto, per la cordiale ospitalità con cui mi avete accompagnato e per la generosità di tutti coloro che hanno contribuito al suo felice risultato. E nel proporvi questi pensieri, desidero incoraggiarvi nei vostri sforzi per dar forma a un ordine sociale sempre più capace di proteggere la vita, sempre più rispettoso della dignità e dei diritti dei membri della famiglia umana. Su di voi e sulle vostre famiglie, e su tutti coloro di cui siete posti al servizio, invoco l’abbondanza delle benedizioni divine. Grazie!
Martedì, 26 novembre 2019
– Visita alla Sophia University di Tokyo
Cari fratelli e sorelle!
Sono molto felice di stare con voi per alcuni minuti alla fine della mia visita apostolica, poco prima di lasciare il Giappone e tornare a Roma. È l’addio.
Il mio soggiorno in questo Paese è stato breve ma intenso. Ringrazio Dio e tutto il popolo giapponese per l’opportunità di visitare questo Paese, che lasciò una forte impronta nella vita di San Francesco Saverio e dove tanti martiri hanno dato testimonianza della loro fede cristiana. Sebbene i cristiani siano una minoranza, la loro presenza si sente. Io stesso posso attestare la stima generale nei confronti della Chiesa Cattolica, e spero che questo rispetto reciproco possa aumentare in futuro. Ho anche osservato che, nonostante l’efficienza e l’ordine che caratterizzano la società giapponese, si percepisce che si desidera e si cerca qualcosa di più: un desiderio profondo di creare una società sempre più umana, più compassionevole, più misericordiosa.
Lo studio e la meditazione fanno parte di ogni cultura, e la vostra cultura giapponese è, in questo senso, orgogliosa del suo antico e ricco patrimonio. Il Giappone è stato in grado di integrare il pensiero e le religioni dell’Asia nel loro insieme e creare una cultura con identità specifica. La Scuola Ashikaga, che tanto impressionò San Francesco Saverio, è un esempio della capacità della cultura giapponese di assorbire e trasmettere la conoscenza. I centri di studio, meditazione e ricerca continuano a svolgere un ruolo importante nella cultura di oggi. Per questo motivo, è necessario che mantengano la loro autonomia e la loro libertà, quale pegno di un futuro migliore. Poiché le università rimangono il luogo principale in cui vengono formati i futuri leader, occorre che la conoscenza e la cultura in tutta la loro ampiezza ispirino tutti gli aspetti delle istituzioni educative rendendole sempre più inclusive e capaci di generare opportunità e promozione sociale.
Sophia. Sempre l’uomo, al fine di gestire le proprie risorse in modo costruttivo ed efficiente, ha avuto bisogno della vera Sophia, della vera Sapienza. In una società così competitiva e tecnologicamente orientata, questa Università dovrebbe essere non solo un centro di formazione intellettuale, ma anche un luogo in cui una società migliore e un futuro più ricco di speranza possono prendere forma. Nello spirito dell’Enciclica Laudato si’, aggiungerei che l’amore per la natura, così tipico delle culture asiatiche, qui dovrebbe esprimersi in una preoccupazione intelligente e anticipatrice per la protezione della terra, nostra casa comune. Preoccupazione che può coniugarsi con la promozione di una nuova episteme in grado di allargare e mettere in discussione ogni tentativo riduzionista da parte del paradigma tecnocratico (cfr nn. 106-114). Non perdiamo di vista che «l’autentica umanità, che invita a una nuova sintesi, sembra abitare in mezzo alla civiltà tecnologica, quasi impercettibilmente, come la nebbia che filtra sotto una porta chiusa. Sarà una promessa permanente, nonostante tutto, che sboccia come un’ostinata resistenza di ciò che è autentico?» (ibid., 112).
L’Università Sophia si è sempre distinta per un’identità umanistica, cristiana e internazionale. Fin dalla sua fondazione, l’Università è stata arricchita dalla presenza di professori provenienti da diversi Paesi, a volte anche da Paesi in conflitto tra loro. Tuttavia, tutti erano uniti dal desiderio di dare il meglio ai giovani del Giappone. Tale medesimo spirito permane anche nei molti modi in cui voi offrite aiuto a chi ne ha più bisogno, qui e all’estero. Sono certo che questo aspetto dell’identità della vostra Università andrà sempre rafforzandosi, in modo che i grandi progressi tecnologici di oggi possano essere messi al servizio di un’educazione più umana, più giusta ed ecologicamente responsabile. La tradizione ignaziana, su cui si basa Sophia, deve stimolare tanto gli insegnanti quanto gli studenti a creare un’atmosfera che favorisca la riflessione e il discernimento. Nessuno studente di questa università dovrebbe laurearsi senza aver imparato come scegliere, responsabilmente e liberamente, ciò che in coscienza sa essere il meglio. Possiate, in ogni situazione, anche in quelle più complesse, interessarvi a ciò che nella vostra condotta è giusto e umano, onesto e responsabile, come decisi difensori dei vulnerabili, e possiate esser conosciuto per quell’integrità che è tanto necessaria in questi momenti, nei quali le parole e le azioni sono spesso false o fuorvianti.
Le Preferenze Apostoliche Universali proposte dalla Compagnia di Gesù evidenziano che l’accompagnamento dei giovani è una realtà importante in tutto il mondo e che tutte le istituzioni ignaziane devono favorire tale accompagnamento. Come dimostra il Sinodo sui giovani e i suoi documenti, anche la Chiesa universale guarda con speranza e interesse ai giovani di tutto il mondo. La vostra Università nel suo insieme è chiamata a concentrarsi sui giovani, che non solo devono essere destinatari di un’educazione qualificata, ma anche partecipare a tale educazione, offrendo le loro idee e condividendo la loro visione e le speranze per il futuro. Possa la vostra Università essere conosciuta per questo modello di confronto e per l’arricchimento e la vitalità che esso produce.
La tradizione cristiana e umanistica dell’Università Sophia è pienamente in linea con un’altra delle Preferenze che ho citato, quella di camminare con i poveri e gli emarginati del nostro mondo. L’Università, focalizzata sulla sua missione, dovrebbe essere sempre aperta a creare un arcipelago in grado di mettere in relazione ciò che socialmente e culturalmente può essere concepito come separato. Gli emarginati saranno coinvolti e inseriti in modo creativo nel curriculum universitario, cercando di creare le condizioni perché ciò si traduca nella promozione di uno stile educativo capace di ridurre le fratture e le distanze. Lo studio universitario di qualità, piuttosto che essere considerato un privilegio di pochi, va accompagnato dalla consapevolezza di essere servitori della giustizia e del bene comune; servizio da attuare nell’area che ognuno è chiamato a sviluppare. Una causa che ci riguarda tutti; il consiglio di Pietro a Paolo è valido ancor oggi: non dimentichiamoci dei poveri (cfr Gal 2,10).
Cari giovani, cari professori e tutti voi che lavorate nell’Università Sophia, possano queste riflessioni e il nostro incontro di oggi portare frutto nella vostra vita e nella vita di questa comunità accademica. Il Signore e la sua Chiesa contano su di voi quali protagonisti nella missione di cercare, trovare e diffondere la Sapienza divina e offrire gioia e speranza alla società di oggi. Per favore, non dimenticatevi anche di pregare per me e per tutti coloro che hanno maggiormente bisogno del nostro aiuto.
Ed ora, mentre mi preparo a lasciare il Giappone, vi ringrazio, e attraverso di voi ringrazio tutto il popolo giapponese per l’accoglienza che con tanta cortesia mi avete dato durante questa visita. Vi assicuro che vi porterò nel mio cuore e nella mia preghiera. Grazie!