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Discorsi nel viaggio apostolico in Romania

Incontro con le autorità, il corpo diplomatico e la società civile (Sala Unirii del Palazzo Cotroceni – Bucarest 31 maggio 2019)

Signor Presidente,Signora Primo Ministro,Santità,Illustri Membri del Corpo Diplomatico,Distinte Autorità,Distinti Rappresentanti delle varie Confessioni religiose e della società civile,Cari fratelli e sorelle,

Rivolgo il mio cordiale saluto e il mio ringraziamento al Signor Presidente e alla Signora Primo Ministro per l’invito a visitare la Romania e per le gentili espressioni di benvenuto rivoltemi, anche a nome delle altre Autorità della Nazione e del vostro amato popolo. Saluto i Membri del Corpo Diplomatico e gli esponenti della società civile qui riuniti.

Saluto con fraterno amore il mio fratello Daniel. Con deferenza porgo il mio saluto a tutti i Metropoliti e ai Vescovi del Santo Sinodo, e a tutti i fedeli della Chiesa Ortodossa Romena. Saluto con affetto i Vescovi, i sacerdoti, i religiosi, le religiose e tutti i membri della Chiesa Cattolica, che vengo a confermare nella fede e a incoraggiare nel loro cammino di vita e testimonianza cristiana.

Sono lieto di trovarmi nella vostra bella terra, a vent’anni dalla visita di San Giovanni Paolo II e mentre la Romania – per la prima volta da quando è entrata a far parte dell’Unione Europea – presiede in questo semestre il Consiglio Europeo.

È questo un momento propizio per rivolgere uno sguardo d’insieme ai trent’anni ormai trascorsi da quando la Romania si liberò da un regime che opprimeva la libertà civile e religiosa e la isolava rispetto agli altri Paesi europei, e che inoltre aveva portato alla stagnazione della sua economia e all’esaurirsi delle sue forze creative. Durante questo tempo la Romania si è impegnata nella costruzione di un progetto democratico attraverso il pluralismo delle forze politiche e sociali e il loro reciproco dialogo, per il fondamentale riconoscimento della libertà religiosa e per il pieno inserimento del Paese nel più ampio scenario internazionale. È importante riconoscere i molti passi avanti compiuti su questa strada, anche in mezzo a grandi difficoltà e privazioni. La volontà di progredire nei vari campi della vita civile, sociale e scientifica ha messo in moto tante energie e progettualità, ha liberato numerose forze creative tenute un tempo prigioniere e ha dato nuovo slancio alle molteplici iniziative intraprese, traghettando il Paese nel secolo XXI. Vi incoraggio a continuare a lavorare per consolidare le strutture e le istituzioni necessarie non solo per dare risposta alle giuste aspirazioni dei cittadini, ma anche per stimolare e mettere in condizione il vostro popolo di esprimere tutto il potenziale e l’ingegno di cui sappiamo è capace.

Occorre, al tempo stesso, riconoscere che le trasformazioni rese necessarie dall’apertura di una nuova era hanno comportato – insieme alle positive conquiste – il sorgere di inevitabili scogli da superare e di conseguenze non sempre facili da gestire per la stabilità sociale e per la stessa amministrazione del territorio. Penso, in primo luogo, al fenomeno dell’emigrazione, che ha coinvolto diversi milioni di persone che hanno lasciato la casa e la Patria per cercare nuove opportunità di lavoro e di vita dignitosa. Penso allo spopolamento di tanti villaggi, che hanno visto in pochi anni partire una considerevole parte dei loro abitanti; penso alle conseguenze che tutto questo può avere sulla qualità della vita in quei territori e all’indebolimento delle vostre più ricche radici culturali e spirituali che vi hanno sostenuto nei momenti più brutti, nelle avversità. Rendo omaggio ai sacrifici di tanti figli e figlie della Romania che, con la loro cultura, il loro patrimonio di valori e il loro lavoro, arricchiscono i Paesi in cui sono emigrati, e con il frutto del loro impegno aiutano le loro famiglie rimaste in patria. Pensare ai fratelli e alle sorelle che sono all’estero è un atto di patriottismo, è un atto di fratellanza, è un atto di giustizia. Continuate a farlo.

Per affrontare i problemi di questa nuova fase storica, per individuare soluzioni efficaci e trovare la forza per applicarle, occorre far crescere la positiva collaborazione delle forze politiche, economiche, sociali e spirituali; è necessario camminare insieme, camminare in unità, e proporsi tutti con convinzione di non rinunciare alla vocazione più nobile a cui uno Stato deve aspirare: farsi carico del bene comune del suo popolo. Camminare insieme, come modo di costruire la storia, richiede la nobiltà di rinunciare a qualcosa della propria visione o del proprio specifico interesse a favore di un disegno più ampio, in modo da creare un’armonia che consenta di procedere sicuri verso mete condivise. Questa è la nobiltà di base.

In tal modo si può costruire una società inclusiva, nella quale ciascuno, mettendo a disposizione le proprie doti e competenze, con educazione di qualità e lavoro creativo, partecipativo e solidale (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 192), diventi protagonista del bene comune; una società dove i più deboli, i più poveri e gli ultimi non sono visti come indesiderati, come intralci che impediscono alla “macchina” di camminare, ma come cittadini, come fratelli da inserire a pieno titolo nella vita civile; anzi, sono visti come la migliore verifica della reale bontà del modello di società che si viene costruendo. Quanto più infatti una società si prende a cuore la sorte dei più svantaggiati, tanto più può dirsi veramente civile.

Occorre che tutto questo abbia un’anima e un cuore e una chiara direzione di marcia, non imposta da considerazioni estrinseche o dal dilagante potere dei centri dell’alta finanza, ma dalla consapevolezza della centralità della persona umana e dei suoi diritti inalienabili (cfr ibid., 203). Per un armonioso sviluppo sostenibile, per la concreta attivazione della solidarietà e della carità, per la sensibilizzazione delle forze sociali, civili e politiche verso il bene comune, non è sufficiente aggiornare le teorie economiche, né bastano le pur necessarie tecniche e abilità professionali. Si tratta infatti di sviluppare, insieme alle condizioni materiali, l’anima del vostro popolo; perché i popoli hanno un’anima, hanno un modo di capire la realtà, di vivere la realtà. Tornare sempre all’anima del proprio popolo: questo fa andare avanti il popolo.

In questo senso, le Chiese cristiane possono aiutare a ritrovare e alimentare il cuore pulsante da cui far sgorgare un’azione politica e sociale che parta dalla dignità della persona e conduca ad impegnarsi con lealtà e generosità per il bene comune della collettività. Nel medesimo tempo, esse si sforzano di diventare un credibile riflesso e una testimonianza attraente dell’azione di Dio, e così si promuove tra loro una vera amicizia e collaborazione. La Chiesa Cattolica vuole porsi in questo alveo, vuole portare il suo contributo alla costruzione della società, desidera essere segno di armonia, di speranza e di unità e mettersi al servizio della dignità umana e del bene comune. Intende collaborare con le Autorità, con le altre Chiese e con tutti gli uomini e le donne di buona volontà per camminare insieme e mettere i propri talenti al servizio dell’intera comunità. La Chiesa Cattolica non è estranea, ma pienamente partecipe dello spirito nazionale, come mostra la partecipazione dei suoi fedeli alla formazione del destino della nazione, alla creazione e allo sviluppo di strutture di educazione integrale e forme di assistenza proprie di uno Stato moderno. Essa perciò desidera dare il suo contributo alla costruzione della società e della vita civile e spirituale nella vostra bella terra di Romania.

Signor Presidente,

nell’augurare alla Romania prosperità e pace, invoco su di Lei, sulla Sua famiglia, su tutte le persone presenti, così come sull’intera popolazione del Paese l’abbondanza delle Benedizioni divine e la protezione della Santa Madre di Dio.

Dio benedica la Romania!

Incontro con il Sinodo permanente della Chiesa Ortodossa Romena (Palazzo del Patriarcato – Bucarest, 31 maggio)

Santità, venerati Metropoliti e Vescovi del Santo Sinodo,

Cristos a înviat! [Cristo è risorto!] La risurrezione del Signore è il cuore dell’annuncio apostolico, trasmesso e custodito dalle nostre Chiese. Nel giorno di Pasqua gli Apostoli gioirono al vedere il Risorto (cfr Gv 20,20). In questo tempo di Pasqua anch’io gioisco nel contemplarne un riflesso nei vostri volti, cari Fratelli. Vent’anni fa davanti a questo Santo Sinodo il Papa Giovanni Paolo II disse: «Sono venuto a contemplare il Volto di Cristo scolpito nella vostra Chiesa; sono venuto a venerare questo Volto sofferente, pegno di una rinnovata speranza» (S. Giovanni Paolo II, Discorso al Patriarca Teoctist e al S. Sinodo, 8 maggio 1999: Insegnamenti XXII,1 [1999], 938). Anch’io oggi sono venuto qui, pellegrino, fratello pellegrino, desideroso di vedere il volto del Signore nel volto dei fratelli; e, guardandovi, vi ringrazio di cuore per la vostra accoglienza.

I vincoli di fede che ci uniscono risalgono agli Apostoli, testimoni del Risorto, in particolare al legame che univa Pietro e Andrea, il quale secondo la tradizione portò la fede in queste terre. Fratelli di sangue (cfr Mc 1,16), lo furono anche, e in un modo singolare, nel versare il proprio sangue per il Signore. Essi ci ricordano che esiste una fraternità del sangue che ci precede e che, come una silenziosa corrente vivificante, lungo i secoli non ha mai smesso irrigare e sostenere il nostro cammino.

Qui – come in tanti altri luoghi ai nostri tempi – avete sperimentato la Pasqua di morte e risurrezione: tanti figli e figlie di questo Paese, di varie Chiese e comunità cristiane, hanno subito il venerdì della persecuzione, hanno attraversato il sabato del silenzio, hanno vissuto la domenica della rinascita. Quanti martiri e confessori della fede! Molti, di diverse confessioni, sono stati in tempi recenti l’uno accanto all’altro nelle prigioni sostenendosi a vicenda. Il loro esempio sta oggi davanti a noi e alle nuove generazioni che non hanno conosciuto quelle drammatiche condizioni. Ciò per cui hanno sofferto, fino a offrire la vita, è un’eredità troppo preziosa per essere dimenticata o disonorata. Ed è un’eredità comune, che ci chiama a non prendere le distanze dal fratello che la condivide. Uniti a Cristo nella sofferenza e nel dolore, uniti da Cristo nella Risurrezione affinché «anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (Rm 6,4).

Santità, caro Fratello, vent’anni fa l’incontro tra i nostri Predecessori fu un dono pasquale, un evento che contribuì non solo alla rifioritura delle relazioni tra ortodossi e cattolici in Romania, ma anche al dialogo tra cattolici e ortodossi in generale. Quel viaggio, che per la prima volta un vescovo di Roma dedicava a un Paese a maggioranza ortodossa, aprì la via ad altri eventi simili. Vorrei rivolgere un pensiero di grata memoria al Patriarca Teoctist. Come non ricordare il grido spontaneo “Unitate, unitate!”, che si levò qui a Bucarest in quei giorni? Fu un annuncio di speranza sorto dal Popolo di Dio, una profezia che ha inaugurato un tempo nuovo: il tempo di camminare insieme nella riscoperta e nel risveglio della fraternità che già ci unisce. E questo già è unitate.

Camminare insieme con la forza della memoria. Non la memoria dei torti subiti e inferti, dei giudizi e dei pregiudizi, delle scomuniche, che ci rinchiudono in un circolo vizioso e portano ad atteggiamenti sterili, ma la memoria delle radici: i primi secoli in cui il Vangelo, annunciato con parresia e spirito di profezia, ha incontrato e illuminato nuovi popoli e culture; i primi secoli dei martiri, dei Padri e dei confessori della fede, della santità quotidianamente vissuta e testimoniata da tante persone semplici che condividono lo stesso Cristo. I primi secoli della parresia e della profezia. Grazie a Dio le nostre radici sono sane, sono sane e salde e, anche se la crescita ha subito le storture e le traversie del tempo, siamo chiamati, come il salmista, a fare memoria grata di quanto il Signore ha operato in noi, a elevare a Lui un inno di lode gli uni per gli altri (cfr Sal 77,6.12-13). Il ricordo dei passi compiuti insieme ci incoraggia a proseguire verso il futuro nella consapevolezza – certamente – delle differenze ma soprattutto nell’azione di grazie di un’atmosfera familiare da riscoprire, nella memoria di comunione da ravvivare, che come lampada getti luce sui passi del nostro cammino.

Camminare insieme nell’ascolto del Signore. Ci è d’esempio quanto il Signore fece il giorno di Pasqua, in cammino coi discepoli sulla via per Emmaus. Essi discutevano di quanto era accaduto, delle loro inquietudini, dei dubbi e degli interrogativi. Il Signore li ascoltò pazientemente e a cuore aperto dialogò con loro aiutandoli a comprendere e a discernere gli avvenimenti (cfr Lc 24,15-24).

Anche noi abbiamo bisogno di ascoltare insieme il Signore, soprattutto in questi ultimi tempi, nei quali le strade del mondo hanno condotto a rapidi cambiamenti sociali e culturali. Dello sviluppo tecnologico e del benessere economico hanno beneficiato in molti, ma i più sono rimasti inesorabilmente esclusi, mentre una globalizzazione omologante ha contribuito a sradicare i valori dei popoli, indebolendo l’etica e il vivere comune, inquinato, in anni recenti, da un senso dilagante di paura che, spesso fomentato ad arte, porta ad atteggiamenti di chiusura e di odio. Abbiamo bisogno di aiutarci a non cedere alle seduzioni di una “cultura dell’odio”, di una cultura individualista che, forse non più ideologica come ai tempi della persecuzione ateista, è tuttavia più suadente e non meno materialista. Essa presenta spesso come via di sviluppo ciò che appare immediato e risolutorio, ma in realtà è indifferente e superficiale. La fragilità dei legami, che finisce per isolare le persone, si ripercuote in particolare sulla cellula fondamentale della società, la famiglia, e ci chiede lo sforzo di uscire e andare incontro alle fatiche dei nostri fratelli e sorelle, specialmente i più giovani, non con scoraggiamento e nostalgia, come i discepoli di Emmaus, ma col desiderio di comunicare Gesù Risorto, cuore della speranza. Abbiamo bisogno di rinnovare col fratello l’ascolto delle parole del Signore, perché il cuore arda insieme e l’annuncio non si affievolisca (cfr vv. 32.35). Abbiamo bisogno di lasciare riscaldare il cuore con la forza dello Spirito Santo.

Il cammino giunge alla meta, come a Emmaus, mediante la preghiera insistente, perché il Signore resti con noi (cfr vv. 28-29). Egli, che si rivela nello spezzare del pane (cfr vv. 30-31), chiama alla carità, a servire insieme; a “dare Dio” prima di “dire Dio”; a non essere passivi nel bene, ma pronti ad alzarci e ad andare, attivi e collaborativi (cfr v. 33). In questo senso, ci sono d’esempio le tante comunità ortodosse romene che ottimamente collaborano con le molte diocesi cattoliche dell’Europa occidentale dove sono presenti. In molti casi si è sviluppato un rapporto di reciproca fiducia e amicizia, basato sulla fratellanza, alimentata da gesti concreti di accoglienza, sostegno e solidarietà. Attraverso questa vicendevole frequentazione molti cattolici e ortodossi romeni hanno scoperto di non essere estranei, ma fratelli e amici.

Camminare insieme verso una nuova Pentecoste. Il tragitto che ci attende va da Pasqua a Pentecoste: da quell’alba pasquale di unità, qui sorta vent’anni fa, siamo instradati verso una nuova Pentecoste. Per i discepoli la Pasqua segnò l’inizio di un nuovo cammino, nel quale, tuttavia, non erano scomparsi timori e incertezze. Fu così fino a Pentecoste quando, radunati attorno alla Santa Madre di Dio, gli Apostoli, in un solo Spirito e in una pluralità e ricchezza di lingue, testimoniarono il Risorto con la parola e con la vita. Il nostro cammino è ripartito dalla certezza di avere il fratello accanto, a condividere la fede fondata sulla risurrezione dello stesso Signore. Da Pasqua a Pentecoste: tempo di raccoglierci in preghiera sotto la protezione della Santa Madre di Dio, di invocare lo Spirito gli uni per gli altri. Ci rinnovi lo Spirito Santo, che disdegna l’uniformità e ama plasmare l’unità nella più bella e armoniosa diversità. Il suo fuoco consumi le nostre diffidenze; il suo vento spazzi via le reticenze che ci impediscono di testimoniare insieme la vita nuova che ci offre. Egli, artefice di fraternità, ci dia la grazia di camminare insieme. Egli, creatore della novità, ci renda coraggiosi nello sperimentare vie inedite di condivisione e di missione. Egli, forza dei martiri, ci aiuti a non rendere infecondo il loro sacrificio.

Santità e cari Fratelli, camminiamo insieme, a lode della Santissima Trinità e a reciproco beneficio, per aiutare i nostri fratelli a vedere Gesù. Vi rinnovo la mia gratitudine e vi assicuro l’affetto, l’amicizia, la fratellanza e la preghiera miei e della Chiesa Cattolica.

Preghiera del Padre Nostro (Nuova Cattedrale Ortodossa – Bucarest, 31 maggio)

Santità, caro Fratello, cari fratelli e sorelle!

Vorrei esprimere la mia gratitudine e la mia commozione nel trovarmi in questo tempio santo, che ci raccoglie in unità. Gesù chiamò i fratelli Andrea e Pietro a lasciare le reti per diventare insieme pescatori di uomini (cfr Mc 1,16-17). La propria chiamata non è completa senza quella del fratello. Oggi vogliamo elevare insieme, gli uni accanto agli altri, “gettare insieme”, dal cuore del Paese, la comune preghiera del Padre Nostro. In essa è racchiusa la nostra identità di figli e, oggi in modo particolare, di fratelli che pregano l’uno accanto all’altro. La preghiera del Padre Nostro contiene la certezza della promessa fatta da Gesù ai suoi discepoli: «Non vi lascerò orfani» (Gv 14,18) e ci offre la fiducia per ricevere e accogliere il dono del fratello. Vorrei perciò condividere alcune parole in preparazione alla preghiera, che reciterò per il nostro cammino di fraternità e perché la Romania possa sempre essere casa di tutti, terra di incontro, giardino dove fiorisce la riconciliazione e la comunione.

Ogni volta che diciamo “Padre nostro” ribadiamo che la parola Padre non può stare senza dire nostro. Uniti nella preghiera di Gesù, ci uniamo anche nella sua esperienza di amore e di intercessione che ci porta a dire: Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro (cfr Gv 20,17). È l’invito a che il “mio” si trasformi in nostro e il nostro si faccia preghiera. Aiutaci, Padre, a prendere sul serio la vita del fratello, a fare nostra la sua storia. Aiutaci, Padre, a non giudicare il fratello per le sue azioni e i suoi limiti, ma ad accoglierlo prima di tutto come figlio tuo. Aiutaci a vincere la tentazione di sentirci figli maggiori, che a forza di stare al centro dimenticano il dono dell’altro (cfr Lc 15,25-32).

A Te, che sei nei cieli, i cieli che abbracciano tutti e dove fai sorgere il sole sui buoni e sui cattivi, sui giusti e sugli ingiusti (cfr Mt5,45), a Te domandiamo quella concordia che in terra non abbiamo saputo custodire. La chiediamo per l’intercessione di tanti fratelli e sorelle nella fede che insieme abitano il tuo Cielo dopo aver creduto, amato e molto sofferto, anche ai nostri giorni, per il solo fatto di essere cristiani.

Come loro anche noi vogliamo santificare il tuo nome mettendolo al centro di tutti i nostri interessi. Che sia il tuo nome, Signore, e non il nostro a muoverci e risvegliarci nell’esercizio della carità. Quante volte, pregando, ci limitiamo a chiedere doni ed elencare richieste, dimenticando che la prima cosa è lodare il tuo nome, adorare la tua persona, per poi riconoscere nella persona del fratello che ci hai posto accanto il tuo riflesso vivente. In mezzo a tante cose che passano e per le quali ci affanniamo, aiutaci, Padre, a ricercare quello che resta: la presenza tua e del fratello.

Siamo nell’attesa che venga il tuo regno: lo domandiamo e desideriamo perché vediamo che le dinamiche del mondo non lo assecondano. Dinamiche orientate dalle logiche del denaro, degli interessi, del potere. Mentre ci troviamo immersi in un consumismo sempre più sfrenato, che ammalia con bagliori luccicanti ma evanescenti, aiutaci, Padre, a credere in quello che preghiamo: a rinunciare alle comode sicurezze del potere, alle ingannevoli seduzioni della mondanità, alla vuota presunzione di crederci autosufficienti, all’ipocrisia di curare le apparenze. Così non perderemo di vista quel Regno al quale tu ci chiami.

Sia fatta la tua volontà, non la nostra. «È volontà di Dio la salvezza di tutti» (S. Giovanni Cassiano, Conferenze spirituali, IX, 20). Abbiamo bisogno, Padre, di allargare gli orizzonti, per non restringere nei nostri limiti la tua misericordiosa volontà salvifica, che tutti vuole abbracciare. Aiutaci, Padre, mandando a noi, come a Pentecoste, lo Spirito Santo, autore del coraggio e della gioia, perché ci spinga ad annunciare la lieta notizia del Vangelo oltre i confini delle nostre appartenenze, delle lingue, delle culture, delle nazioni.

Ogni giorno abbiamo bisogno di Lui, nostro pane quotidiano. Egli è il pane della vita (cfr Gv 6,35.48), che ci fa sentire figli amati e sfama ogni nostra solitudine e orfanezza. Egli è il pane del servizio: spezzatosi per farsi servo nostro, chiede a noi di servirci a vicenda (cfr Gv 13,14). Padre, mentre ci doni il pane quotidiano, alimenta in noi la nostalgia del fratello, il bisogno di servirlo. Chiedendo il pane quotidiano, Ti domandiamo anche il pane della memoria, la grazia di rinsaldare le radici comuni della nostra identità cristiana, radici indispensabili in un tempo in cui l’umanità, e le giovani generazioni in particolare, rischiano di sentirsi sradicate in mezzo a tante situazioni liquide, incapaci di fondare l’esistenza. Il pane che chiediamo, con la sua lunga storia che va dalla semina alla spiga, dal raccolto alla tavola, ispiri in noi il desiderio di essere pazienti coltivatori di comunione, che non si stancano di far germogliare semi di unità, di far lievitare il bene, di operare sempre accanto al fratello: senza sospetti e senza distanze, senza forzature e senza omologazioni, nella convivialità delle diversità riconciliate.

Il pane che domandiamo oggi è anche il pane di cui tanti ogni giorno sono privi, mentre pochi hanno il superfluo. Il Padre Nostro non è preghiera che acquieta, è grido di fronte alle carestie di amore del nostro tempo, di fronte all’individualismo e all’indifferenza che profanano il nome tuo, Padre. Aiutaci ad avere fame di donarci. Ricordaci, ogni volta che preghiamo, che per vivere non abbiamo bisogno di conservarci, ma di spezzarci; di condividere, non di accumulare; di sfamare gli altri più che riempire noi stessi, perché il benessere è tale solo se è di tutti.

Ogni volta che preghiamo chiediamo che i nostri debiti siano rimessi. Ci vuole coraggio, perché al tempo stesso ci impegniamo a rimettere i debiti che gli altri hanno con noi. Pertanto, dobbiamo trovare la forza di perdonare di cuore il fratello (cfr Mt 18,35) come Tu, Padre, perdoni i nostri peccati: di lasciarci alle spalle il passato e di abbracciare insieme il presente. Aiutaci, Padre, a non cedere alla paura, a non vedere nell’apertura un pericolo; ad avere la forza di perdonarci e di camminare, il coraggio di non accontentarci del quieto vivere e di ricercare sempre, con trasparenza e sincerità, il volto del fratello.

E quando il male, accovacciato alla porta del cuore (cfr Gen 4,7), ci indurrà a chiuderci in noi stessi; quando la tentazione di isolarci si farà più forte, nascondendo la sostanza del peccato, che è distanza da Te e dal nostro prossimo, aiutaci ancora, Padre. Incoraggiaci a trovare nel fratello quel sostegno che Tu ci hai posto a fianco per camminare verso di Te, e ad avere insieme il coraggio di dire: “Padre nostro”. Amen.

Ed ora recitiamo la preghiera che il Signore ci ha insegnato.

Omelia nella Messa nella cattedrale cattolica di San Giuseppe a Bucarest (31 maggio 2019)

Il Vangelo che abbiamo ascoltato ci immerge nell’incontro di due donne che si abbracciano e riempiono tutto di felicità e di lode: esulta di gioia il bambino ed Elisabetta benedice la cugina per la sua fede; Maria canta le meraviglie che il Signore ha realizzato nella sua umile serva con il grande inno di speranza per coloro che non possono più cantare perché hanno perso la voce… Canto di speranza che vuole svegliare anche noi e invitarci a intonarlo oggi mediante tre preziosi elementi che nascono dalla contemplazione della prima discepola: Maria cammina, Maria incontra, Maria gioisce.

Maria cammina… da Nazareth alla casa di Zaccaria ed Elisabetta: è il primo dei viaggi di Maria che la Scrittura racconta. Il primo di molti. Andrà dalla Galilea a Betlemme, dove nascerà Gesù; fuggirà in Egitto per salvare il Bambino da Erode; si recherà ancora a Gerusalemme ogni anno per la Pasqua, fino all’ultima in cui seguirà il Figlio sul Calvario. Questi viaggi hanno una caratteristica: non sono stati mai cammini facili, hanno richiesto coraggio e pazienza. Ci dicono che la Madonna conosce le salite, conosce le nostre salite: ci è sorella nel cammino. Esperta nel faticare, sa come prenderci per mano nelle asperità, quando ci troviamo davanti ai tornanti più ripidi della vita. Come buona madre, Maria sa che l’amore si fa strada nelle piccole cose quotidiane. Amore e ingegno materno capace di trasformare una grotta di animali nella casa di Gesù, con poche povere fasce e una montagna di tenerezza (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 286). Contemplare Maria ci permette di rivolgere lo sguardo a tante donne, madri e nonne di queste terre che, con sacrificio e nascondimento, abnegazione e impegno, plasmano il presente e tessono i sogni del domani. Donazione silenziosa, tenace e inosservata, che non teme di “rimboccarsi le maniche” e caricarsi le difficoltà sulle spalle per portare avanti la vita dei propri figli e dell’intera famiglia sperando «contro ogni speranza» (Rm 4,18). È un ricordo vivo il fatto che nel vostro popolo vive e pulsa un forte senso di speranza, al di là di tutte le condizioni che possano offuscarla o cerchino di spegnerla. Guardando Maria e tanti volti materni, si sperimenta e si alimenta lo spazio per la speranza (cfr Documento di Aparecida, 536), che genera e apre il futuro. Diciamolo con forza: nella nostra gente c’è spazio per la speranza. Per questo Maria cammina e ci invita a camminare insieme.

Maria incontra Elisabetta (cfr Lc 1,39-56), già avanti negli anni. Ma è lei, l’anziana, a parlare di futuro, a profetizzare: «colmata di Spirito Santo» (v. 41), la chiama «beata» perché «ha creduto» (v. 45), anticipando l’ultima beatitudine dei Vangeli: beato chi crede (cfr Gv 20,29). Ecco, la giovane va incontro all’anziana cercando le radici e l’anziana rinasce e profetizza sulla giovane donandole futuro. Così, giovani e anziani si incontrano, si abbracciano e sono capaci di risvegliare ognuno il meglio dell’altro. È il miracolo suscitato dalla cultura dell’incontro, dove nessuno è scartato né etichettato, al contrario, dove tutti sono ricercati, perché necessari, per far trasparire il Volto del Signore. Non hanno paura di camminare insieme e, quando questo succede, Dio arriva e compie prodigi nel suo popolo. Perché è lo Spirito Santo Colui che ci incoraggia a uscire da noi stessi, dalle nostre chiusure e dai nostri particolarismi, per insegnarci a guardare oltre le apparenze e regalarci la possibilità di dire bene degli altri – “benedirli” – specialmente di tanti nostri fratelli che sono rimasti esposti alle intemperie, privati forse non solo di un tetto o di un po’ di pane, ma dell’amicizia e del calore di una comunità che li abbracci, che li protegga e che li accolga. Cultura dell’incontro che spinge noi cristiani a sperimentare il miracolo della maternità della Chiesa che cerca, difende e unisce i suoi figli. Nella Chiesa, quando riti diversi si incontrano, quando a venire prima non sono le proprie appartenenze, il proprio gruppo o la propria etnia, ma il Popolo che insieme sa lodare Dio, allora avvengono grandi cose. Diciamolo con forza: beato chi crede (cfr Gv 20,19) e ha il coraggio di creare incontro e comunione.

Maria che cammina e incontra Elisabetta ci ricorda dove Dio ha voluto dimorare e vivere, qual è il suo santuario e in quale luogo possiamo ascoltare il suo palpito: in mezzo al suo Popolo. Lì abita, lì vive, lì ci aspetta. Sentiamo rivolto a noi l’invito del profeta a non temere, a non lasciarci cadere le braccia. Perché il Signore nostro Dio è in mezzo a noi, è un salvatore potente (cfr Sof 3,16-17), è in mezzo al suo popolo. Questo è il segreto del cristiano: Dio è in mezzo a noi come un salvatore potente. Questa certezza, come fu per Maria, ci permette di cantare ed esultare di gioia. Maria gioisce, gioisce perché è la portatrice dell’Emmanuele, del Dio con noi. «Essere cristiani è gioia nello Spirito Santo» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 122). Senza gioia restiamo paralizzati, schiavi delle nostre tristezze. Spesso il problema della fede non è tanto la mancanza di mezzi e di strutture, di quantità, nemmeno la presenza di chi non ci accetta; il problema della fede è la mancanza di gioia. La fede vacilla quando ci si barcamena nella tristezza e nello scoraggiamento. Quando viviamo nella sfiducia, chiusi in noi stessi, contraddiciamo la fede, perché anziché sentirci figli per i quali Dio fa grandi cose (cfr v. 49), rimpiccioliamo tutto alla misura dei nostri problemi e ci dimentichiamo che non siamo orfani; nella tristezza dimentichiamo che non siamo orfani, che abbiamo un Padre in mezzo a noi, salvatore potente. Maria ci viene in aiuto perché, anziché rimpicciolire, magnifica, cioè, “grandifica” il Signore, loda la sua grandezza. Ecco il segreto della gioia. Maria, piccola e umile, comincia dalla grandezza di Dio e, nonostante i suoi problemi – che non erano pochi – sta nella gioia, perché in tutto si fida del Signore. Ci ricorda che Dio può sempre compiere meraviglie se rimaniamo aperti a Lui e ai fratelli. Pensiamo ai grandi testimoni di queste terre: persone semplici, che si sono fidate di Dio in mezzo alle persecuzioni. Non hanno posto la loro speranza nel mondo, ma nel Signore, e così sono andati avanti. Vorrei rendere grazie a questi umili vincitori, a questi santi della porta accanto che ci indicano il cammino. Le loro lacrime non sono state sterili, sono state preghiera che è salita al Cielo e ha irrigato la speranza di questo popolo.

Cari fratelli e sorelle, Maria cammina, incontra e gioisce perché ha portato qualcosa di più grande di sé stessa: è stata portatrice di una benedizione. Come lei anche noi non temiamo di essere portatori della benedizione di cui la Romania ha bisogno. Siate voi i promotori di una cultura dell’incontro che smentisca l’indifferenza, che smentisca la divisione e permetta a questa terra di cantare con forza le misericordie del Signore.

Incontro mariano con i giovani e le famiglie (Piazzale antistante il Palazzo della Cultura – Iasi, 1 giugno)

Cari fratelli e sorelle, bună seara!

Qui con voi si sente il calore di essere in famiglia, circondati da piccoli e grandi. È facile, vedendovi e sentendovi, sentirsi a casa. Il Papa tra di voi si sente a casa. Grazie per il vostro caloroso benvenuto e per le testimonianze che ci avete regalato. Mons. Petru, come buon e fiero padre di famiglia, vi ha abbracciato tutti con le sue parole presentandovi, e lo hai confermato tu, Eduard, quando ci dicevi che questo incontro non vuole essere solo di giovani, né di adulti, né di altri, ma avete voluto “che stasera ci fossero insieme a noi i nostri genitori e i nostri nonni”.

Oggi in queste terre è il giorno del bambino. Un applauso ai bambini! Vorrei che la prima cosa che facciamo sia pregare per loro: chiediamo alla Vergine che li protegga con il suo manto. Gesù li ha posti in mezzo ai suoi apostoli; anche noi vogliamo metterli in mezzo e riaffermare il nostro impegno di volerli amare con lo stesso amore con cui il Signore li ama, impegnandoci a donare loro il diritto al futuro. È una bella eredità questa: dare ai bambini il diritto al futuro.

Sono lieto di sapere che in questa piazza si trova il volto della famiglia di Dio che abbraccia bambini, giovani, coniugi, consacrati, anziani rumeni di diverse regioni e tradizioni, come pure della Moldavia, e anche quelli che sono venuti dall’altra sponda del fiume Prut, i fedeli di lingua csango, polacca e russa. Lo Spirito Santo ci convoca tutti e ci aiuta a scoprire la bellezza di stare insieme, di poterci incontrare per camminare insieme. Ognuno con la propria lingua e tradizione, ma felice di incontrarsi tra fratelli. Con quella gioia che condividevano Elisabetta e Ioan – bravi questi due! -, con i loro undici figli, tutti diversi, arrivati da luoghi diversi, ma «oggi sono tutti riuniti, così come qualche tempo fa ogni domenica mattina prendevano tutti insieme la strada verso la chiesa». La felicità dei genitori di vedere i figli riuniti. Sicuramente oggi in cielo si fa festa vedendo tanti figli che si sono decisi a stare insieme.

È l’esperienza di una nuova Pentecoste, come abbiamo ascoltato nella Lettura. Dove lo Spirito abbraccia le nostre differenze e ci dona la forza per aprire percorsi di speranza tirando fuori il meglio da ciascuno; lo stesso cammino che iniziarono gli Apostoli duemila anni fa e in cui oggi tocca a noi prendere il testimone e deciderci a seminare. Non possiamo aspettare che siano altri a farlo, tocca a noi. Noi siamo responsabili! Tocca a noi!

È difficile camminare insieme, vero? È un dono che dobbiamo chiedere, un’opera artigianale che siamo chiamati a costruire e un bel dono da trasmettere. Ma da dove cominciamo per camminare insieme?

Vorrei “rubare” nuovamente le parole a questi nonni Elisabetta e Ioan. È bello vedere quando l’amore mette radici con dedizione e impegno, con lavoro e preghiera. L’amore ha messo radici in voi e ha dato molto frutto. Come dice Gioele, quando giovani e anziani si incontrano, i nonni non hanno paura di sognare (cfr Gl 3,1). E questo è stato il vostro sogno: «Sogniamo che possano costruirsi un futuro senza dimenticare da dove sono partiti. Sogniamo che tutto il nostro popolo non dimentichi le sue radici». Voi guardate al futuro e aprite il domani per i vostri figli, per i vostri nipoti, per il vostro popolo offrendo il meglio che avete imparato durante il vostro cammino: che non dimentichino da dove sono partiti. Dovunque andranno, qualunque cosa faranno, non dimentichino le radici. È lo stesso sogno, la stessa raccomandazione che San Paolo fece a Timoteo: mantenere viva la fede di sua madre e di sua nonna (cfr 2 Tm 10,5-7). Nella misura in cui cresci – in tutti i sensi: forte, grande e anche facendoti un nome – non dimenticare quanto di più bello e prezioso hai imparato in famiglia. È la sapienza che si riceve con gli anni: quando cresci, non ti dimenticare di tua madre e di tua nonna e di quella fede semplice ma robusta che le caratterizzava e che dava loro forza e costanza per andare avanti e non farsi cadere le braccia. È un invito a ringraziare e riabilitare la generosità, il coraggio, il disinteresse di una fede “fatta in casa”, che passa inosservata ma che costruisce a poco a poco il Regno di Dio.

Certo, la fede che “non è quotata in borsa”, non si vende e, come ci ricordava Eduard, può sembrare che «non serva a niente». Ma la fede è un dono che mantiene viva una certezza profonda e bella: la nostra appartenenza di figli, e figli amati da Dio. Dio ama con amore di Padre: ogni vita, ognuno di noi gli appartiene. È un’appartenenza di figli, ma anche di nipoti, sposi, nonni, amici, vicini; un’appartenenza di fratelli. Il maligno divide, disperde, separa e crea discordia, semina diffidenza. Vuole che viviamo “distaccati” dagli altri e da noi stessi. Lo Spirito, al contrario, ci ricorda che non siamo esseri anonimi, astratti, esseri senza volto, senza storia, senza identità. Non siamo esseri vuoti né superficiali. Esiste una rete spirituale molto forte che ci unisce, ci “connette” e ci sostiene e che è più forte di ogni altro tipo di connessione. E questa rete sono le radici: sapere che apparteniamo gli uni agli altri, che la vita di ciascuno è ancorata alla vita degli altri. «I giovani fioriscono quando sono amati veramente», diceva Eduard. Tutti fioriamo quando ci sentiamo amati. Perché l’amore mette radici e ci invita a metterle nella vita degli altri. Come quelle belle parole del vostro poeta nazionale che augurava alla sua dolce Romania: «i tuoi figli vivano unicamente in fraternità, come le stelle della notte» (M. Eminescu, “Cosa ti auguro, dolce Romania”). Eminescu era un grande, era cresciuto, si sentiva maturo, ma non solo: si sentiva fraterno, e per questo vuole che la Romania, che tutti i romeni, siano fraterni “come le stelle della notte”.  Noi apparteniamo gli uni agli altri e la felicità personale passa dal rendere felici gli altri. Tutto il resto sono favole.

Per camminare insieme lì dove sei, non ti dimenticare di quanto hai imparato in famiglia. Non dimenticare le tue radici.

Questo mi ha fatto ricordare la profezia di un santo eremita di queste terre. Un giorno il monaco Galaction Ilie del Monastero Sihăstria, camminando con le pecore sulla montagna, incontrò un eremita santo che conosceva e chiese: “Dimmi, padre, quando sarà la fine del mondo?”. E il venerabile eremita, sospirando dal suo cuore, disse: “Padre Galaction, sai quando sarà la fine del mondo? Quando non ci saranno sentieri dal vicino al vicino! Cioè, quando non ci sarà più amore cristiano e comprensione tra fratelli, parenti, cristiani e popoli! Quando le persone non ameranno più, sarà davvero la fine del mondo. Perché senza amore e senza Dio nessun uomo può vivere sulla terra!”.

La vita inizia a spegnersi e a marcire, il nostro cuore smette di battere e inaridisce, gli anziani non sogneranno e i giovani non profetizzeranno quando non ci saranno sentieri dal vicino al vicino… Perché senza amore e senza Dio nessun uomo può vivere sulla terra.

Eduard ci diceva che lui come tanti altri del suo Paese prova a vivere la fede in mezzo a numerose provocazioni. Sono davvero tante le provocazioni che ci possono scoraggiare e farci chiudere in noi stessi. Non possiamo negarlo, non possiamo fare come se niente fosse. Le difficoltà esistono e sono evidenti. Ma questo non può farci perdere di vista che la fede ci dona la più grande delle provocazioni: quella che, lungi dal rinchiuderti o dall’isolarti, fa germogliare il meglio di ciascuno. Il Signore è il primo a provocarci e a dirci che il peggio viene quando “non ci saranno sentieri dal vicino al vicino”, quando vediamo più trincee che strade. Il Signore è Colui che ci dona un canto più forte di tutte le sirene che vogliono paralizzare il nostro cammino. E lo fa nello stesso modo: intonando un canto più bello e più attraente.

Il Signore dona a tutti noi una vocazione che è una provocazione per farci scoprire i talenti e le capacità che possediamo e perché le mettiamo al servizio degli altri. Ci chiede di usare la nostra libertà come libertà di scelta, di dire “sì” a un progetto d’amore, a un volto, a uno sguardo. Questa è una libertà molto più grande che poter consumare e comprare cose. Una vocazione che ci mette in movimento, ci fa abbattere trincee, aprire strade che ci ricordino quell’appartenenza di figli e fratelli.

In questa capitale storica e culturale del Paese si partiva insieme – nel Medioevo – come pellegrini per la Via Transilvana, verso Santiago di Compostela. Oggi qui vivono tanti studenti da varie parti del mondo. Ricordo un incontro virtuale che abbiamo avuto in marzo, con Scholas Occurrentes, nel quale mi dicevano anche che questa città, durante quest’anno, è la capitale nazionale della gioventù. È vero? È vero che questa città, quest’anno, è la capitale nazionale della gioventù? [I giovani rispondono: “Sì!”]. Viva i giovani! Due elementi molto buoni: una città che storicamente sa aprire e iniziare processi – come il cammino di Santiago –; una città che sa ospitare giovani provenienti da varie parti del mondo come attualmente. Due caratteristiche che ricordano le potenzialità e la grande missione che potete sviluppare: aprire strade per camminare insieme e portare avanti quel sogno dei nonni che è profezia: senza amore e senza Dio nessun uomo può vivere sulla terra. Da qui oggi possono partire ancora nuove vie del futuro verso l’Europa e verso tanti altri luoghi del mondo. Giovani, voi siete pellegrini del secolo XXI, capaci di nuova immaginazione dei legami che ci uniscono.

Ma non si tratta di creare grandi programmi o progetti, ma di lasciar crescere la fede, di lasciare che le radici ci portino la linfa. Come vi dicevo all’inizio: la fede non si trasmette solo con le parole, ma con gesti, sguardi, carezze come quelle delle nostre madri, delle nostre nonne; con il sapore delle cose che abbiamo imparato in casa, in maniera semplice e genuina. Lì dove c’è molto rumore, che sappiamo ascoltare; dove c’è confusione, che ispiriamo armonia; dove tutto si riveste di ambiguità, che possiamo portare chiarezza; dove c’è esclusione, che portiamo condivisione; in mezzo al sensazionalismo, ai messaggi e alla notizie rapide, che abbiamo cura dell’integrità degli altri; in mezzo all’aggressività, che diamo la precedenza alla pace; in mezzo alla falsità, che portiamo la verità; che in tutto, in tutto privilegiamo l’aprire strade per sentire questa appartenenza di figli e di fratelli (cfr Messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali 2018). Queste ultime parole che ho detto hanno la “musica” di Francesco d’Assisi. Voi sapete cosa consigliava San Francesco d’Assisi ai suoi frati per trasmettere la fede? Diceva così: “Andate, predicate il Vangelo e, se fosse necessario, anche con le parole”. [Applauso] Questo applauso è per San Francesco di Assisi!

Sto finendo, mi manca un paragrafo, ma non voglio tralasciare di dire un’esperienza che ho avuto mentre entravo in piazza. C’era un’anziana, abbastanza anziana, nonna. Nelle braccia aveva il nipote di più o meno due mesi, non di più. Quando sono passato me lo ha fatto vedere. Sorrideva, e sorrideva con un sorriso di complicità, come dicendomi: “Guardi, adesso io posso sognare!”. Sul momento mi sono emozionato e non ho avuto il coraggio di andare e portarla qui davanti. Per questo lo racconto. I nonni sognano quando i nipoti vanno avanti, e i nipoti hanno coraggio quando prendono le radici dai nonni.

La Romania è il “giardino della Madre di Dio”, e in questo incontro ho potuto rendermene conto, perché lei è Madre che coltiva i sogni dei figli, che ne custodisce le speranze, che porta la gioia nella casa. È Madre tenera e concreta, che si prende cura di noi. Voi siete la comunità viva e fiorente piena di speranza che possiamo regalare alla Madre. A lei, alla Madre, consacriamo l’avvenire dei giovani, l’avvenire delle famiglie e della Chiesa. Mulțumesc! [Grazie!].

Omelia nella Divina Liturgia con Beatificazione dei 7 Vescovi Greco-Cattolici Martiri (Campo della Libertà – Blaj, 2 giugno)

«Maestro, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?» (Gv 9,2). Questa domanda dei discepoli rivolta a Gesù scatena una serie di movimenti e di azioni che accompagneranno tutto il racconto evangelico, svelando e mettendo in evidenza quello che realmente acceca il cuore umano.

Gesù, come i suoi discepoli, vede il cieco dalla nascita, è capace di riconoscerlo e di metterlo al centro. Dopo aver dichiarato che la sua cecità non era frutto del peccato, mescola la polvere della terra alla sua saliva e la spalma sugli occhi; poi gli ordina di lavarsi nella piscina di Siloe. Dopo essersi lavato, il cieco riacquista la vista. È interessante notare come il miracolo è narrato in appena due versetti, tutti gli altri portano l’attenzione non sul cieco guarito, ma sulle discussioni che suscita. Sembra che la sua vita e specialmente la sua guarigione diventi banale, aneddotica o elemento di discussione, come pure di irritazione e fastidio. Il cieco guarito viene prima interrogato dalla folla stupita, poi dai farisei; e questi interrogano anche i suoi genitori. Mettono in dubbio l’identità dell’uomo guarito; poi negano l’azione di Dio, prendendo come scusa che Dio non agisce di sabato; giungono persino a dubitare che quell’uomo fosse nato cieco.

Tutta la scena e le discussioni rivelano quanto risulti difficile comprendere le azioni e le priorità di Gesù, capace di porre al centro colui che stava alla periferia, specialmente quando si pensa che il primato è detenuto dal “sabato” e non dall’amore del Padre che cerca di salvare tutti gli uomini (cfr 1 Tm 2,4); il cieco doveva convivere non soltanto con la propria cecità ma anche con quella di chi gli stava attorno. Così sono le resistenze e le ostilità che sorgono nel cuore umano quando, al centro, invece delle persone, si mettono interessi particolari, etichette, teorie, astrazioni e ideologie, che, là dove passano, non fanno altro che accecare tutto e tutti. Invece la logica del Signore è diversa: lungi dal nascondersi nell’inazione o nell’astrazione ideologica, cerca la persona con il suo volto, con le sue ferite e la sua storia. Le va incontro e non si lascia raggirare da discorsi incapaci di dare la priorità e di mettere al centro ciò che realmente è importante.

Queste terre conoscono bene la sofferenza della gente quando il peso dell’ideologia o di un regime è più forte della vita e si antepone come norma alla stessa vita e alla fede delle persone; quando la capacità di decisione, la libertà e lo spazio per la creatività si vede ridotto e perfino cancellato (cfr Enc. Laudato si’, 108). Fratelli e sorelle, voi avete sofferto i discorsi e le azioni basati sul discredito che arrivano fino all’espulsione e all’annientamento di chi non può difendersi e mettono a tacere le voci dissonanti. Pensiamo, in particolare, ai sette Vescovi greco-cattolici che ho avuto la gioia di proclamare Beati. Di fronte alla feroce oppressione del regime, essi dimostrarono una fede e un amore esemplari per il loro popolo. Con grande coraggio e fortezza interiore, accettarono di essere sottoposti alla dura carcerazione e ad ogni genere di maltrattamenti, pur di non rinnegare l’appartenenza alla loro amata Chiesa. Questi Pastori, martiri della fede, hanno recuperato e lasciato al popolo rumeno una preziosa eredità che possiamo sintetizzare in due parole: libertà e misericordia.

Pensando alla libertà, non posso non osservare che stiamo celebrando questa Divina Liturgia nel “Campo della libertà”. Questo luogo significativo richiama l’unità del vostro Popolo che si è realizzata nella diversità delle espressioni religiose: ciò costituisce un patrimonio spirituale che arricchisce e caratterizza la cultura e l’identità nazionale rumena. I nuovi Beati hanno sofferto e sacrificato la loro vita, opponendosi a un sistema ideologico illiberale e coercitivo dei diritti fondamentali della persona umana. In quel triste periodo, la vita della comunità cattolica era messa a dura prova dal regime dittatoriale e ateo: tutti i Vescovi, e molti fedeli, della Chiesa Greco-Cattolica e della Chiesa Cattolica di Rito Latino furono perseguitati e incarcerati.

L’altro aspetto dell’eredità spirituale dei nuovi Beati è la misericordia. Alla tenacia nel professare la fedeltà a Cristo, si accompagnava in essi una disposizione al martirio senza parole di odio verso i persecutori, nei confronti dei quali hanno dimostrato una sostanziale mitezza. È eloquente quanto ha dichiarato durante la prigionia il Vescovo Iuliu Hossu: «Dio ci ha mandato in queste tenebre della sofferenza per donare il perdono e pregare per la conversione di tutti». Queste parole sono il simbolo e la sintesi dell’atteggiamento con il quale questi Beati nel periodo della prova hanno sostenuto il loro popolo nel continuare a confessare la fede senza cedimenti e senza ritorsioni. Questo atteggiamento di misericordia nei confronti degli aguzzini è un messaggio profetico, perché si presenta oggi come un invito a tutti a vincere il rancore con la carità e il perdono, vivendo con coerenza e coraggio la fede cristiana.

Cari fratelli e sorelle, anche oggi riappaiono nuove ideologie che, in maniera sottile, cercano di imporsi e di sradicare la nostra gente dalle sue più ricche tradizioni culturali e religiose. Colonizzazioni ideologiche che disprezzano il valore della persona, della vita, del matrimonio e della famiglia (cfr Esort. ap. postsin. Amoris laetitia, 40) e nuocciono, con proposte alienanti, ugualmente atee come nel passato, in modo particolare ai nostri giovani e bambini lasciandoli privi di radici da cui crescere (cfr Esort. ap. Christus vivit, 78); e allora tutto diventa irrilevante se non serve ai propri interessi immediati, e induce le persone ad approfittare delle altre e a trattarle come meri oggetti (cfr Enc. Laudato si’, 123-124). Sono voci che, seminando paura e divisione, cercano di cancellare e seppellire la più preziosa eredità che queste terre hanno visto nascere. Penso, in questa eredità, per esempio all’Editto di Torda del 1568, che sanzionava ogni sorta di radicalismo promovendo – uno dei primi casi in Europa – un atto di tolleranza religiosa.

Vorrei incoraggiarvi a portare la luce del Vangelo ai nostri contemporanei e a continuare a lottare, come questi Beati, contro queste nuove ideologie che sorgono. Tocca a noi adesso lottare, come è toccato a loro lottare in quei tempi. Possiate essere testimoni di libertà e di misericordia, facendo prevalere la fraternità e il dialogo sulle divisioni, incrementando la fraternità del sangue, che trova la sua origine nel periodo di sofferenza nel quale i cristiani, divisi nel corso della storia, si sono scoperti più vicini e solidali. Fratelli e sorelle carissimi, vi accompagnino nel vostro cammino la materna protezione della Vergine Maria, Santa Madre di Dio, e l’intercessione dei nuovi Beati.

Regina caeli (Campo della Libertà a Blaj, 2 giugno)

Cari fratelli e sorelle,

prima di concludere questa Divina Liturgia, desidero ancora una volta salutare voi qui presenti e quanti ho incontrato in questi giorni, ringraziando tutti per la cordiale accoglienza. Saluto con deferenza il Signor Presidente della Repubblica e le altre Autorità, esprimendo sincera riconoscenza per la fruttuosa collaborazione nella preparazione e nello svolgimento di questa mia visita. Sono grato a Sua Beatitudine, il Patriarca Daniel, al Santo Sinodo, al Clero e ai fedeli della Chiesa Ortodossa di Romania, che mi hanno accolto fraternamente! Il Signore benedica questa antica e illustre Chiesa e la sostenga nella sua missione. [Applauso] Un fraterno applauso a tutti loro!

Rivolgo un saluto carico di affetto e di riconoscenza a Sua Beatitudine il Cardinale Lucian Mureşan. Saluto i fedeli della Chiesa Cattolica, i Vescovi, i sacerdoti, i religiosi e i fedeli laici di Bucarest e di Iaşi, come pure i numerosi pellegrini di şumuleu Ciuc. Ringrazio il Signore che mi ha dato la possibilità di pregare con voi e di incoraggiare il vostro impegno di evangelizzazione e di testimonianza della carità. Qui a Blaj, terra di martirio, libertà e misericordia, rendo omaggio a voi, figli della Chiesa Greco-Cattolica, che da tre secoli testimoniate, con ardore apostolico, la vostra fede.

La Vergine Maria estenda la sua materna protezione su tutti i cittadini della Romania, che nel corso della storia hanno sempre confidato nella sua intercessione. A Lei affido tutti voi e Le chiedo di guidarvi nel cammino della fede, per avanzare verso un futuro di autentico progresso e di pace e contribuire alla costruzione di una patria sempre più giusta, armonica e fraterna.   Regina Caeli……

Incontro con la comunità Rom (Blaj, 2 giugno)

Cari fratelli e sorelle, buon pomeriggio!

Sono contento di incontrarvi e vi ringrazio per la vostra accoglienza. Tu, Don Ioan, non ti sbagli nell’affermare quella certezza tanto sicura quanto a volte dimenticata: nella Chiesa di Cristo c’è posto per tutti. Se non fosse così non sarebbe la Chiesa di Cristo. La Chiesa è luogo di incontro, e abbiamo bisogno di ricordarlo non come un bello slogan ma come parte della carta d’identità del nostro essere cristiani. Ce lo hai ricordato portando come esempio il Vescovo martire Ioan Suciu, che ha saputo plasmare con gesti concreti il desiderio di Dio Padre di incontrarsi con ogni persona nell’amicizia e nella condivisione. Il Vangelo della gioia si trasmette nella gioia di incontrarsi e di sapere che abbiamo un Padre che ci ama. Guardati da Lui, capiamo come guardarci tra di noi. Con questo spirito ho desiderato stringere le vostre mani, mettere i miei occhi nei vostri, farvi entrare nel cuore, nella preghiera, con la fiducia di entrare anch’io nella vostra preghiera e nel vostro cuore.

Nel cuore porto però un peso. È il peso delle discriminazioni, delle segregazioni e dei maltrattamenti subiti dalle vostre comunità. La storia ci dice che anche i cristiani, anche i cattolici non sono estranei a tanto male. Vorrei chiedere perdono per questo. Chiedo perdono – in nome della Chiesa al Signore e a voi – per quando, nel corso della storia, vi abbiamo discriminato, maltrattato o guardato in maniera sbagliata, con lo sguardo di Caino invece che con quello di Abele, e non siamo stati capaci di riconoscervi, apprezzarvi e difendervi nella vostra peculiarità. A Caino non importa il fratello. È nell’indifferenza che si alimentano pregiudizi e si fomentano rancori. Quante volte giudichiamo in modo avventato, con parole che feriscono, con atteggiamenti che seminano odio e creano distanze! Quando qualcuno viene lasciato indietro, la famiglia umana non cammina. Non siamo fino in fondo cristiani, e nemmeno umani, se non sappiamo vedere la persona prima delle sue azioni, prima dei nostri giudizi e pregiudizi.

Sempre, nella storia dell’umanità, ci sono Abele e Caino. C’è la mano tesa e la mano che percuote. C’è l’apertura dell’incontro e la chiusura dello scontro. C’è l’accoglienza e c’è lo scarto. C’è chi vede nell’altro un fratello e chi un ostacolo sul proprio cammino. C’è la civiltà dell’amore e c’è quella dell’odio. Ogni giorno c’è da scegliere tra Abele e Caino. Come davanti a un bivio, si pone tante volte di fronte a noi una scelta decisiva: percorrere la via della riconciliazione o quella della vendetta. Scegliamo la via di Gesù. È una via che costa fatica, ma è la via che conduce alla pace. E passa attraverso il perdono. Non lasciamoci trascinare dai livori che ci covano dentro: niente rancori. Perché nessun male sistema un altro male, nessuna vendetta soddisfa un’ingiustizia, nessun risentimento fa bene al cuore, nessuna chiusura avvicina.

Cari fratelli e sorelle, voi come popolo avete un ruolo da protagonista da assumere e non dovete avere paura di condividere e offrire quelle specifiche caratteristiche che vi costituiscono e che segnano il vostro cammino, e delle quali abbiamo tanto bisogno: il valore della vita e della famiglia in senso allargato (cugini, zii, …); la solidarietà, l’ospitalità, l’aiuto, il sostegno e la difesa dei più deboli all’interno della loro comunità; la valorizzazione e il rispetto degli anziani – questo è un grande valore che voi avete –; il senso religioso della vita, la spontaneità e la gioia di vivere. Non private le società in cui vi trovate di questi doni e disponetevi anche a ricevere tutte le cose buone che gli altri vi possano offrire e apportare. Perciò desidero invitarvi a camminare insieme, lì dove siete, nella costruzione di un mondo più umano andando oltre le paure e i sospetti, lasciando cadere le barriere che ci separano dagli altri alimentando la fiducia reciproca nella paziente e mai vana ricerca di fraternità. Impegnarsi per camminare insieme, con la dignità: la dignità della famiglia, la dignità di guadagnarsi il pane di ogni giorno – è questo, sì, che ti fa andare avanti – e la dignità della preghiera. Sempre guardando avanti (cfr Incontro di preghiera con il popolo Rom e Sinti, 9 maggio 2019).

Questo incontro è l’ultimo della mia visita in Romania. Sono venuto in questo Paese bello e accogliente, sono venuto come pellegrino e fratello, per incontrare. Ho incontrato voi, ho incontrato tanta gente, per fare un ponte tra il mio cuore e il vostro. E ora torno a casa, torno arricchito, portando con me luoghi e momenti, ma soprattutto portando con me i vostri volti. I vostri volti coloreranno i miei ricordi e popoleranno la mia preghiera. Vi ringrazio, vi porto con me. E ora vi benedico, ma prima vi chiedo un grande favore: di pregare per me. Grazie!

[Padre Nostro in romeno]

Adesso vi darò una benedizione. E vorrei benedire tutta la vostra famiglia, tutti i vostri amici, tutta la gente che voi conoscete.

[BENEDIZIONE]

A presto!