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Discorsi nella visita al Wwc di Ginevra

Discorso nella Preghiera ecumenica al Wcc di Ginevra

Cari fratelli e sorelle,

abbiamo ascoltato le parole dell’Apostolo Paolo ai Galati, che sperimentavano travagli e lotte interne. Vi erano infatti gruppi che si affrontavano e si accusavano a vicenda. È in questo contesto che l’Apostolo, per ben due volte nel giro di pochi versetti, invita a «camminare secondo lo Spirito» (Gal 5,16.25).

Camminare. L’uomo è un essere in cammino. Per tutta la vita è chiamato a mettersi in cammino, in continua uscita da dove si trova: da quando esce dal grembo della madre a quando passa da un’età della vita a un’altra; dal momento in cui lascia la casa dei genitori fino a quando esce da questa esistenza terrena. Il cammino è metafora che rivela il senso della vita umana, di una vita che non basta a sé stessa, ma è sempre in cerca di qualcosa di ulteriore. Il cuore ci invita ad andare, a raggiungere una meta.

Ma camminare è una disciplina, una fatica, servono pazienza quotidiana e allenamento costante. Occorre rinunciare a tante strade per scegliere quella che conduce alla meta e ravvivare la memoria per non smarrirla. Meta e memoria. Camminare richiede l’umiltà di tornare sui propri passi, quando è necessario, e la cura per i compagni di viaggio, perché solo insieme si cammina bene. Camminare, insomma, esige una conversione continua di sé. Per questo tanti vi rinunciano, preferendo la quiete domestica, dove curare comodamente i propri affari senza esporsi ai rischi del viaggio. Ma così ci si aggrappa a sicurezze effimere, che non danno quella pace e quella gioia cui il cuore aspira, e che si trovano solo uscendo da sé stessi.

Dio ci chiama a questo, fin dagli inizi. Già ad Abramo fu chiesto di lasciare la sua terra, di mettersi in cammino equipaggiandosi solo di fiducia in Dio (cfr Gen 12,1). Così Mosè, Pietro e Paolo, e tutti gli amici del Signore hanno vissuto in cammino. Ma soprattutto Gesù ce ne ha dato l’esempio. Per noi è uscito dalla sua condizione divina (cfr Fil 2,6-7) e tra noi è sceso a camminare, Lui che è la Via (cfr Gv 14,6). Egli, il Signore e il Maestro, si è fatto pellegrino e ospite in mezzo a noi. Tornato al Padre, ci ha fatto dono del suo stesso Spirito, così che anche noi abbiamo la forza di camminare nella sua direzione, di compiere quello che Paolo chiede: camminare secondo lo Spirito.

Secondo lo Spirito: se ogni uomo è un essere in cammino, e chiudendosi in sé stesso rinnega la sua vocazione, molto di più il cristiano. Perché, sottolinea Paolo, la vita cristiana porta con sé un’alternativa inconciliabile: da una parte camminare secondo lo Spirito, seguendo il tracciato inaugurato dal Battesimo; dall’altra «soddisfare il desiderio della carne» (Gal 5,16). Che cosa vuol dire questa espressione? Significa provare a realizzarsi inseguendo la via del possesso, la logica dell’egoismo, secondo cui l’uomo cerca di accaparrare qui e ora tutto ciò che gli va. Non si lascia accompagnare docilmente dove Dio indica, ma persegue la propria rotta. Abbiamo sotto gli occhi le conseguenze di questo tragico percorso: vorace di cose, l’uomo perde di vista i compagni di viaggio; allora sulle strade del mondo regna una grande indifferenza. Spinto dai propri istinti, diventa schiavo di un consumismo senza freni: allora la voce di Dio viene messa a tacere; allora gli altri, soprattutto se incapaci di camminare sulle loro gambe, come i piccoli e gli anziani, diventano scarti fastidiosi; allora il creato non ha più altro senso se non quello di soddisfare la produzione in funzione dei bisogni.

Cari fratelli e sorelle, oggi più che mai queste parole dell’Apostolo Paolo ci interpellano: camminare secondo lo Spirito è rigettare la mondanità. È scegliere la logica del servizio e progredire nel perdono. È calarsi nella storia col passo di Dio: non col passo rimbombante della prevaricazione, ma con quello cadenzato da «un solo precetto: Amerai il prossimo tuo come te stesso» (v. 14). La via dello Spirito è infatti segnata dalle pietre miliari che Paolo elenca: «amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (v. 22).

Siamo chiamati, insieme, a camminare così: la strada passa per una continua conversione, per il rinnovamento della nostra mentalità perché si adegui a quella dello Spirito Santo. Nel corso della storia, le divisioni tra cristiani sono spesso avvenute perché alla radice, nella vita delle comunità, si è infiltrata una mentalità mondana: prima si alimentavano gli interessi propri, poi quelli di Gesù Cristo. In queste situazioni il nemico di Dio e dell’uomo ha avuto gioco facile nel separarci, perché la direzione che inseguivamo era quella della carne, non quella dello Spirito. Persino alcuni tentativi del passato di porre fine a tali divisioni sono miseramente falliti, perché ispirati principalmente a logiche mondane. Ma il movimento ecumenico, al quale il Consiglio Ecumenico delle Chiese ha tanto contribuito, è sorto per grazia dello Spirito Santo (cfr Conc. Ecum. Vat. IIUnitatis redintegratio, 1). L’ecumenismo ci ha messi in moto secondo la volontà di Gesù e potrà progredire se, camminando sotto la guida dello Spirito, rifiuterà ogni ripiegamento autoreferenziale.

Ma – si potrebbe obiettare – camminare in questo modo è lavorare in perdita, perché non si tutelano a dovere gli interessi delle proprie comunità, spesso saldamente legati ad appartenenze etniche o a orientamenti consolidati, siano essi maggiormente “conservatori” o “progressisti”. Sì, scegliere di essere di Gesù prima che di Apollo o di Cefa (cfr 1 Cor 1,12), di Cristo prima che “Giudei o Greci” (cfr Gal 3,28), del Signore prima che di destra o di sinistra, scegliere in nome del Vangelo il fratello anziché sé stessi significa spesso, agli occhi del mondo, lavorare in perdita. Non abbiamo paura di lavorare in perdita! L’ecumenismo è “una grande impresa in perdita”. Ma si tratta di perdita evangelica, secondo la via tracciata da Gesù: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà» (Lc 9,24). Salvare il proprio è camminare secondo la carne; perdersi dietro a Gesù è camminare secondo lo Spirito. Solo così si porta frutto nella vigna del Signore. Come Gesù stesso insegna, non quanti accaparrano portano frutto nella vigna del Signore, ma quanti, servendo, seguono la logica di Dio, il quale continua a donare e a donarsi (cfr Mt 21,33-42). È la logica della Pasqua, l’unica che dà frutto.

Guardando al nostro cammino, possiamo rispecchiarci in alcune situazioni delle comunità della Galazia di allora: quant’è difficile sopire le animosità e coltivare la comunione, quant’è ostico uscire da contrasti e rifiuti reciproci alimentati per secoli! Ancora più arduo è resistere alla tentazione subdola: stare insieme agli altri, camminare insieme, ma con l’intento di soddisfare qualche interesse di parte. Questa non è la logica dell’Apostolo, è quella di Giuda, che camminava insieme a Gesù ma per i suoi affari. La risposta ai nostri passi vacillanti è sempre la stessa: camminare secondo lo Spirito, purificando il cuore dal male, scegliendo con santa ostinazione la via del Vangelo e rifiutando le scorciatoie del mondo.

Dopo tanti anni di impegno ecumenico, in questo settantesimo anniversario del Consiglio, chiediamo allo Spirito di rinvigorire il nostro passo. Troppo facilmente esso si arresta davanti alle divergenze che persistono; troppo spesso si blocca in partenza, logorato di pessimismo. Le distanze non siano scuse, è possibile già ora camminare secondo lo Spirito: pregare, evangelizzare, servire insieme, questo è possibile e gradito a Dio! Camminare insieme, pregare insieme, lavorare insieme: ecco la nostra strada maestra di oggi.

Questa strada ha una meta precisa: l’unità. La strada contraria, quella della divisione, porta a guerre e distruzioni. Basta leggere la storia. Il Signore ci chiede di imboccare continuamente la via della comunione, che conduce alla pace. La divisione, infatti, «si oppone apertamente alla volontà di Cristo, ma è anche di scandalo al mondo e danneggia la più santa delle cause: la predicazione del Vangelo ad ogni creatura» (Unitatis redintegratio,1). Il Signore ci chiede unità; il mondo, dilaniato da troppe divisioni che colpiscono soprattutto i più deboli, invoca unità.

Cari fratelli e sorelle, ho desiderato venire qui, pellegrino in cerca di unità e di pace. Ringrazio Dio perché qui ho trovato voi, fratelli e sorelle già in cammino. Camminare insieme per noi cristiani non è una strategia per far maggiormente valere il nostro peso, ma è un atto di obbedienza nei riguardi del Signore e di amore nei confronti del mondo. Obbedienza a Dio e amore al mondo, il vero amore che salva. Chiediamo al Padre di camminare insieme con più vigore nelle vie dello Spirito. La Croce orienti il cammino perché lì, in Gesù, sono già abbattuti i muri di separazione ed è vinta ogni inimicizia (cfr Ef 2,14): lì comprendiamo che, nonostante tutte le nostre debolezze, nulla ci separerà mai dal suo amore (cfr Rm 8,35-39). Grazie.

Incontro ecumenico al Wcc

Cari fratelli e sorelle,

sono lieto di incontrarvi e vi ringrazio per la vostra premurosa accoglienza. In particolare, sono grato al Segretario Generale, Reverendo Dr. Olav Fykse Tveit, e alla Moderatrice, Dr.ssa Agnes Abuom, per le loro parole e per avermi invitato in occasione del 70° anniversario dell’istituzione del Consiglio Ecumenico delle Chiese.

Biblicamente, settant’anni evocano un periodo di tempo compiuto, segno di benedizione divina. Ma settanta è anche un numero che fa affiorare alla mente due celebri passi evangelici. Nel primo, il Signore ci ha comandato di perdonarci non fino a sette, ma «fino a settanta volte sette» (Mt 18,22). Il numero non indica certo un termine quantitativo, ma apre un orizzonte qualitativo: non misura la giustizia, ma spalanca il metro di una carità smisurata, capace di perdonare senza limiti. È questa carità che, dopo secoli di contrasti, ci permette di stare insieme, come fratelli e sorelle riconciliati e grati a Dio nostro Padre.

Se siamo qui è anche grazie a quanti ci hanno preceduto nel cammino, scegliendo la via del perdono e spendendosi per rispondere alla volontà del Signore: che «tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21). Spinti dall’accorato desiderio di Gesù, non si sono lasciati imbrigliare dagli intricati nodi delle controversie, ma hanno trovato l’audacia di guardare oltre e di credere nell’unità, superando gli steccati dei sospetti e della paura. È vero quanto affermava un antico padre nella fede: «Se davvero l’amore riesce ad eliminare la paura e questa si trasforma in amore, allora si scoprirà che ciò che salva è proprio l’unità» (S. Gregorio di Nissa, Omelia 15 sul Cantico dei Cantici). Siamo i beneficiari della fede, della carità e della speranza di tanti che, con l’inerme forza del Vangelo, hanno avuto il coraggio di invertire la direzione della storia, quella storia che ci aveva portato a diffidare gli uni degli altri e ad estraniarci reciprocamente, assecondando la diabolica spirale di continue frammentazioni. Grazie allo Spirito Santo, ispiratore e guida dell’ecumenismo, la direzione è cambiata e una via tanto nuova quanto antica è stata indelebilmente tracciata: la via della comunione riconciliata, verso la manifestazione visibile di quella fraternità che già unisce i credenti.

Il numero settanta offre un secondo spunto evangelico. Richiama quei discepoli che, durante il ministero pubblico, Gesù inviò in missione (cfr Lc 10,1) e che vengono celebrati nell’Oriente cristiano. Il numero di questi discepoli rimanda a quello delle nazioni conosciute, elencate agli inizi della Scrittura (cfr Gen 10). Che cosa ci suggerisce questo? Che la missione è rivolta a tutti i popoli e che ogni discepolo, per essere tale, deve diventare apostolo, missionario. Il Consiglio Ecumenico delle Chiese è nato come strumento di quel movimento ecumenico suscitato da un forte appello alla missione: come possono i cristiani evangelizzare se sono divisi tra loro? Questo urgente interrogativo indirizza ancora il nostro cammino e traduce la preghiera del Signore ad essere uniti «perché il mondo creda» (Gv 17,21).

Permettetemi, cari fratelli e sorelle, di manifestarvi, oltre al vivo ringraziamento per l’impegno che profondete per l’unità, anche una preoccupazione. Essa deriva dall’impressione che ecumenismo e missione non siano più così strettamente legati come in origine. Eppure il mandato missionario, che è più della diakonia e della promozione dello sviluppo umano, non può essere dimenticato né svuotato. Ne va della nostra identità. L’annuncio del Vangelo fino agli estremi confini è connaturato al nostro essere cristiani. Certamente, il modo in cui esercitare la missione varia a seconda dei tempi e dei luoghi e, di fronte alla tentazione, purtroppo ricorrente, di imporsi seguendo logiche mondane, occorre ricordare che la Chiesa di Cristo cresce per attrazione.

Ma in che cosa consiste questa forza di attrazione? Non certo nelle nostre idee, strategie o programmi: a Gesù Cristo non si crede mediante una raccolta di consensi e il Popolo di Dio non è riducibile al rango di una organizzazione non governativa. No, la forza di attrazione sta tutta in quel sublime dono che conquistò l’Apostolo Paolo: «Conoscere [Cristo], la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze» (Fil 3,10). Questo è l’unico nostro vanto: la «conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo» (2 Cor 4,6), donataci dallo Spirito vivificante. Questo è il tesoro che noi, fragili vasi di creta (cfr v. 7), dobbiamo offrire a questo nostro mondo amato e tormentato. Non saremmo fedeli alla missione affidataci se riducessimo questo tesoro al valore di un umanesimo puramente immanente, adattabile alle mode del momento. E saremmo cattivi custodi se volessimo solo preservarlo, sotterrandolo per paura di essere provocati dalle sfide del mondo (cfr Mt 25,25).

Ciò di cui abbiamo veramente bisogno è un nuovo slancio evangelizzatore. Siamo chiamati a essere un popolo che vive e condivide la gioia del Vangelo, che loda il Signore e serve i fratelli, con l’animo che arde dal desiderio di dischiudere orizzonti di bontà e di bellezza inauditi a chi non ha ancora avuto la grazia di conoscere veramente Gesù. Sono convinto che, se aumenterà la spinta missionaria, aumenterà anche l’unità fra noi. Come alle origini l’annuncio segnò la primavera della Chiesa, così l’evangelizzazione segnerà la fioritura di una nuova primavera ecumenica. Come alle origini, stringiamoci in comunione attorno al Maestro, non senza provare vergogna per i nostri continui tentennamenti e dicendogli, con Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6,68).

Cari fratelli e sorelle, ho desiderato partecipare di persona alle celebrazioni di questo anniversario del Consiglio anche per ribadire l’impegno della Chiesa Cattolica nella causa ecumenica e per incoraggiare la cooperazione con le Chiese-membri e con i partner ecumenici. A questo riguardo vorrei soffermarmi anch’io un poco sul motto scelto per questa giornata: Camminare – Pregare – Lavorare insieme.

Camminare: sì, ma verso dove? Sulla base di quanto detto, suggerirei un duplice movimento: in entrata e in uscita. In entrata, per dirigerci costantemente al centro, per riconoscerci tralci innestati nell’unica vite che è Gesù (cfr Gv 15,1-8). Non porteremo frutto senza aiutarci a vicenda a rimanere uniti a Lui. In uscita, verso le molteplici periferie esistenziali di oggi, per portare insieme la grazia risanante del Vangelo all’umanità sofferente. Potremmo chiederci se stiamo camminando davvero o soltanto a parole, se presentiamo i fratelli al Signore e li abbiamo veramente a cuore oppure sono lontani dai nostri reali interessi. Potremmo chiederci anche se il nostro cammino è un ritornare sui nostri passi o un convinto andare al mondo per portarvi il Signore.

Pregare: anche nella preghiera, come nel cammino, non possiamo avanzare da soli, perché la grazia di Dio, più che ritagliarsi a misura di individuo, si diffonde armoniosamente tra i credenti che si amano. Quando diciamo “Padre nostro” risuona dentro di noi la nostra figliolanza, ma anche il nostro essere fratelli. La preghiera è l’ossigeno dell’ecumenismo. Senza preghiera la comunione diventa asfittica e non avanza, perché impediamo al vento dello Spirito di spingerla in avanti. Chiediamoci: quanto preghiamo gli uni per gli altri? Il Signore ha pregato perché fossimo una cosa sola: lo imitiamo in questo?

Lavorare insieme. A questo proposito vorrei ribadire che la Chiesa Cattolica riconosce la speciale importanza del lavoro che compie la Commissione Fede e Costituzione e desidera continuare a contribuirvi attraverso la partecipazione di teologi altamente qualificati. La ricerca di Fede e Costituzione per una visione comune della Chiesa e il suo lavoro sul discernimento delle questioni morali ed etiche toccano punti nevralgici della sfida ecumenica. Allo stesso modo, la presenza attiva nella Commissione per la Missione e l’Evangelizzazione; la collaborazione con l’Ufficio per il Dialogo Interreligioso e la Cooperazione, ultimamente sull’importante tema dell’educazione alla pace; la preparazione congiunta dei testi per la Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani e varie altre forme di sinergia sono elementi costitutivi di una solida e collaudata collaborazione. Inoltre, apprezzo il ruolo imprescindibile dell’Istituto Ecumenico di Bossey nella formazione ecumenica delle giovani generazioni di responsabili pastorali e accademici di tante Chiese e Confessioni cristiane di tutto il mondo. La Chiesa Cattolica, da molti anni, collabora in quest’opera educativa con la presenza di un professore cattolico nella Facoltà; e ogni anno ho la gioia di salutare il gruppo di studenti che compie la visita di studio a Roma. Vorrei anche menzionare, quale buon segno di “affiatamento ecumenico”, la crescente adesione alla Giornata di preghiera per la cura del creato.

Oltre a ciò, il lavoro tipicamente ecclesiale ha un sinonimo ben definito: diakonia. È la via sulla quale seguire il Maestro, che «non è venuto per farsi servire, ma per servire» (Mc 10,45). Il variegato e intenso servizio delle Chiese-membri del Consiglio trova un’espressione emblematica nel Pellegrinaggio di giustizia e di pace. La credibilità del Vangelo è messa alla prova dal modo in cui i cristiani rispondono al grido di quanti, in ogni angolo della terra, sono ingiustamente vittime del tragico aumento di un’esclusione che, generando povertà, fomenta i conflitti. I deboli sono sempre più emarginati, senza pane, lavoro e futuro, mentre i ricchi sono sempre di meno e sempre più ricchi. Sentiamoci interpellati dal pianto di coloro che soffrono, e proviamo compassione, perché «il programma del cristiano è un cuore che vede» (Benedetto XVI, Lett. enc. Deus caritas est, 31). Vediamo ciò che è possibile fare concretamente, piuttosto che scoraggiarci per ciò che non lo è. Guardiamo anche a tanti nostri fratelli e sorelle che in varie parti del mondo, specialmente in Medio Oriente, soffrono perché sono cristiani. Stiamo loro vicini. E ricordiamo che il nostro cammino ecumenico è preceduto e accompagnato da un ecumenismo già realizzato, l’ecumenismo del sangue, che ci esorta ad andare avanti.

Incoraggiamoci a superare la tentazione di assolutizzare determinati paradigmi culturali e di farci assorbire da interessi di parte. Aiutiamo gli uomini di buona volontà a dare maggior spazio a situazioni e vicende che riguardano tanta parte dell’umanità, ma che occupano un posto troppo marginale nella grande informazione. Non possiamo disinteressarci, e c’è da inquietarsi quando alcuni cristiani si mostrano indifferenti nei confronti di chi è disagiato. Ancora più triste è la convinzione di quanti ritengono i propri benefici puri segni di predilezione divina, anziché chiamata a servire responsabilmente la famiglia umana e a custodire il creato. Sull’amore per il prossimo, per ogni prossimo, il Signore, Buon Samaritano dell’umanità (cfr Lc 10,29-37), ci interpellerà (cfr Mt 25,31-46). Chiediamoci allora: che cosa possiamo fare insieme? Se un servizio è possibile, perché non progettarlo e compierlo insieme, cominciando a sperimentare una fraternità più intensa nell’esercizio della carità concreta?

Cari fratelli e sorelle, vi rinnovo il mio cordiale ringraziamento. Aiutiamoci a camminare, pregare e lavorare insieme perché, con l’aiuto di Dio, l’unità progredisca e il mondo creda. Grazie.

Omelia nella Messa al Palaexpo di Ginevra

Padre, pane, perdono. Tre parole, che il Vangelo di oggi ci dona. Tre parole, che ci portano al cuore della fede.

«Padre». Così comincia la preghiera. Può proseguire con parole diverse, ma non può dimenticare la prima, perché la parola “Padre” è la chiave di accesso al cuore di Dio; perché solo dicendo Padre preghiamo in “lingua cristiana”. Preghiamo “in cristiano”: non un Dio generico, ma Dio che è anzitutto Papà. Gesù, infatti, ci ha chiesto di dire «Padre nostro che sei nei cieli», non “Dio dei cieli che sei Padre”. Prima di tutto, prima di essere infinito ed eterno, Dio è Padre.

Da Lui discende ogni paternità e maternità (cfr Ef 3,15). In Lui è l’origine di tutto il bene e della nostra stessa vita. «Padre nostro» è allora la formula della vita, quella che rivela la nostra identità: siamo figli amati. È la formula che risolve il teorema della solitudine e il problema dell’orfanezza. È l’equazione che indica cosa fare: amare Dio, nostro Padre, e gli altri, nostri fratelli. È la preghiera del noi, della Chiesa; una preghiera senza io e senza mio, tutta volta al tu di Dio («il tuo nome», «il tuo regno», «la tua volontà») e che si coniuga solo alla prima persona plurale. «Padre nostro», due parole che ci offrono la segnaletica della vita spirituale.

Così, ogni volta che facciamo il segno della croce all’inizio della giornata e prima di ogni attività importante, ogni volta che diciamo «Padre nostro», ci riappropriamo delle radici che ci fondano. Ne abbiamo bisogno nelle nostre società spesso sradicate. Il «Padre nostro» rinsalda le nostre radici. Quando c’è il Padre, nessuno è escluso; la paura e l’incertezza non hanno la meglio. Riemerge la memoria del bene, perché nel cuore del Padre non siamo comparse virtuali, ma figli amati. Egli non ci collega in gruppi di condivisione, ma ci rigenera insieme come famiglia.

Non stanchiamoci di dire «Padre nostro»: ci ricorderà che non esiste alcun figlio senza Padre e che dunque nessuno di noi è solo in questo mondo. Ma ci ricorderà pure che non c’è Padre senza figli: nessuno di noi è figlio unico, ciascuno si deve prendere cura dei fratelli nell’unica famiglia umana. Dicendo «Padre nostro» affermiamo che ogni essere umano ci appartiene, e di fronte alle tante cattiverie che offendono il volto del Padre, noi suoi figli siamo chiamati a reagire come fratelli, come buoni custodi della nostra famiglia, e a darci da fare perché non vi sia indifferenza nei riguardi del fratello, di ogni fratello: del bambino che ancora non è nato come dell’anziano che non parla più, del conoscente che non riusciamo a perdonare come del povero scartato. Questo il Padre ci chiede, ci comanda: di amarci con cuore di figli, che sono tra loro fratelli.

Pane. Gesù dice di domandare ogni giorno al Padre il pane. Non serve chiedere di più: solo il pane, cioè l’essenziale per vivere. Il pane è anzitutto il cibo sufficiente per oggi, per la salute, per il lavoro di oggi; quel cibo che purtroppo a tanti nostri fratelli e sorelle manca. Per questo dico: guai a chi specula sul pane! Il cibo di base per la vita quotidiana dei popoli dev’essere accessibile a tutti.

Chiedere il pane quotidiano è dire anche: “Padre, aiutami a fare una vita più semplice”. La vita è diventata tanto complicata. Vorrei dire che oggi per molti è come “drogata”: si corre dal mattino alla sera, tra mille chiamate e messaggi, incapaci di fermarsi davanti ai volti, immersi in una complessità che rende fragili e in una velocità che fomenta l’ansia. S’impone una scelta di vita sobria, libera dalle zavorre superflue. Una scelta controcorrente, come fece a suo tempo san Luigi Gonzaga, che oggi ricordiamo. La scelta di rinunciare a tante cose che riempiono la vita ma svuotano il cuore. Fratelli e sorelle, scegliamo la semplicità, la semplicità del paneper ritrovare il coraggio del silenzio e della preghiera, lievito di una vita veramente umana. Scegliamo le persone rispetto alle cose, perché fermentino relazioni personali, non virtuali. Torniamo ad amare la fragranza genuina di quel che ci circonda. Quando ero piccolo, a casa, se il pane cadeva dalla tavola, ci insegnavano a raccoglierlo subito e a baciarlo. Apprezzare ciò che di semplice abbiamo ogni giorno, custodirlo: non usare e gettare, ma apprezzare e custodire.

Il «Pane quotidiano», poi, non dimentichiamolo, è Gesù. Senza di Lui non possiamo fare nulla (cfr Gv 15,5). È Lui l’alimento base per vivere bene. A volte, però, Gesù lo riduciamo a un contorno. Ma se non è il nostro cibo di vita, il centro delle giornate, il respiro della quotidianità, tutto è vano, tutto è contorno. Domandando il pane chiediamo al Padre e diciamo a noi stessi ogni giorno: semplicità di vita, cura di quel che ci circonda, Gesù in tutto e prima di tutto.

Perdono. È difficile perdonare, portiamo sempre dentro un po’ di rammarico, di astio, e quando siamo provocati da chi abbiamo già perdonato, il rancore ritorna con gli interessi. Ma il Signore pretende come dono il nostro perdono. Fa pensare che l’unico commento originale al Padre nostro, quello di Gesù, si concentri in una frase sola: «Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe» (Mt 6,14-15). L’unico commento che fa il Signore! Il perdono è la clausola vincolante del Padre nostro. Dio ci libera il cuore da ogni peccato, Dio perdona tutto, tutto, ma una cosa chiede: che noi non ci stanchiamo di perdonare a nostra volta. Vuole da ciascuno di noi un’amnistia generale delle colpe altrui. Bisognerebbe fare una bella radiografia del cuore, per vedere se dentro di noi ci sono blocchi, ostacoli al perdono, pietre da rimuovere. E allora dire al Padre: “Vedi questo macigno, lo affido a te e ti prego per questa persona, per questa situazione; anche se fatico a perdonare, ti chiedo la forza per farlo”.

Il perdono rinnova, il perdonofa miracoli. Pietro sperimentò il perdono di Gesù e diventò pastore del suo gregge; Saulo diventò Paolo dopo il perdono ricevuto da Stefano; ciascuno di noi rinasce creatura nuova quando, perdonato dal Padre, ama i fratelli. Solo allora immettiamo nel mondo novità vere, perché non c’è novità più grande del perdono, questo perdono che cambia il male in bene. Lo vediamo nella storia cristiana. Perdonarci tra noi, riscoprirci fratelli dopo secoli di controversie e lacerazioni, quanto bene ci ha fatto e continua a farci! Il Padre è felice quando ci amiamo e perdoniamo di vero cuore (cfr Mt 18,35). E allora ci dona il suo Spirito. Chiediamo questa grazia: di non arroccarci con animo indurito, pretendendo sempre dagli altri, ma di fare il primo passo, nella preghiera, nell’incontro fraterno, nella carità concreta. Così saremo più simili al Padre, che ama senza tornaconto. Ed egli riverserà su di noi lo Spirito di unità.

Saluti al termine della Messa

Ringrazio di cuore Mons. Morerod e la Comunità diocesana di Losanna-Ginevra-Friburgo. Grazie per la vostra accoglienza, per la preparazione e per la preghiera, che vi chiedo per favore di continuare. Anch’io pregherò per voi, perché il Signore accompagni il vostro cammino, in particolare quello ecumenico. Estendo il mio grato saluto a tutti i Pastori delle diocesi svizzere e agli altri Vescovi presenti, come pure ai fedeli venuti da varie parti della Svizzera, dalla Francia e da altri Paesi.

Saluto i cittadini di questa bella città, dove esattamente 600 anni or sono soggiornò il Papa Martino V, e che è sede di importanti Istituzioni internazionali, tra cui l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, di cui ricorrerà l’anno prossimo il centenario di fondazione.

Ringrazio vivamente il Governo della Confederazione Svizzera per il gentile invito e la squisita collaborazione. Grazie!

Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Arrivederci!