Cet Notizie
I discorsi nella visita in Cile
Saluto ai giornalisti sul volo aereo vero Santiago
Greg Burke:
Santità, grazie. Grazie prima di tutto per il pensiero di stamattina: tutti abbiamo ricevuto la cartolina [con l’immagine del bambino] di Nagasaki. E grazie soprattutto per la possibilità di viaggiare con Lei. Siamo pieni: 70 persone, inclusi, credo, 12 di Cile e Perù, quindi 12 nuovi. Approfitto per dire loro che è un saluto, non sono 70 domande, quando adesso facciamo il giro. Tutto qua. Forse Lei vuole dire qualcosa…
Papa Francesco:
Buongiorno!
Vi auguro buon viaggio. Mi hanno detto dall’Alitalia che il volo Roma-Santiago è il volo diretto più lungo che ha l’Alitalia: quindici ore e quaranta, o venti, non so… Avremo tempo per riposare, lavorare, tante cose. Grazie per il vostro lavoro che sarà impegnativo: tre giorni in un Paese, tre giorni nell’altro… Per me non sarà tanto difficile nel Cile perché ho studiato lì un anno, ho tanti amici, e conosco bene – mah, bene… conosco di più –. Invece in Perù conosco meno, perché ci sono andato due o tre volte per convegni, incontri.
Poi, Greg parlava di questo che vi ho dato [la cartolina]: questa l’ho trovata per caso. È stata scattata nel 1945, sul retro ci sono i dati. È un bambino, con il suo fratellino morto sulle spalle, mentre aspetta il suo turno davanti al crematorio, a Nagasaki, dopo la bomba. Io mi sono commosso quando ho visto questa [foto], e ho osato scrivere soltanto “Il frutto della guerra”. E ho pensato di farla ristampare e darla, perché un’immagine del genere commuove più di mille parole. Per questo ho voluto condividerla con voi.
E grazie per il vostro lavoro!
Greg Burke:
Grazie!
Incontro con le Autorità, con la Società civile e con il Corpo Diplomatico nel Palacio de la Moneda (Santiago, 16 gennaio)
E’ una gioia per me potermi trovare nuovamente sul suolo latino-americano e iniziare la visita a questa amata terra cilena, che mi ha ospitato e formato durante la mia gioventù; vorrei che questo tempo con voi fosse anche un tempo di gratitudine per tanto bene ricevuto. Mi torna alla mente quella strofa, che ho ascoltato poco fa, del vostro inno nazionale: “Puro, o Cile, è il tuo cielo azzurro / e pure brezze ti attraversano / e la tua campagna ricamata di fiori / è la copia felice dell’Eden”: un vero canto di lode per la terra che abitate, colma di promesse e di sfide, ma specialmente carica di futuro. In un certo senso quello che ha detto la Signora Presidente.
Grazie, Signora Presidente, per le parole di benvenuto che mi ha rivolto. Nella Sua persona desidero salutare e abbracciare il popolo cileno, dall’estremo nord della regione di Arica e Parinacota fino all’arcipelago sud «e al suo dissolversi in penisole e canali»[1]. La vostra diversità e ricchezza geografica ci permette di cogliere la ricchezza della polifonia culturale che vi caratterizza.
Ringrazio per la loro presenza i membri del Governo, i Presidenti del Senato, della Camera dei Deputati e della Corte Suprema, come pure le altre Autorità dello Stato e i loro collaboratori. Saluto il Presidente eletto qui presente, Signor Sebastián Piñera Echenique, che ha ricevuto recentemente il mandato del popolo cileno di governare i destini del Paese nei prossimi quattro anni.
Il Cile si è distinto negli ultimi decenni per lo sviluppo di una democrazia che gli ha consentito un notevole progresso. Le recenti elezioni politiche sono state una manifestazione della solidità e maturità civica raggiunta, e ciò acquista un particolare rilievo quest’anno nel quale si commemorano i 200 anni della dichiarazione di indipendenza. Momento particolarmente importante, poiché segnò il vostro destino come popolo, fondato sulla libertà e sul diritto, chiamato anche ad affrontare diversi periodi turbolenti riuscendo tuttavia – non senza dolore – a superarli. In questo modo voi avete saputo consolidare e irrobustire il sogno dei vostri padri fondatori.
In questo senso, ricordo le emblematiche parole del Card. Silva Henríquez quando in un Te Deum affermò: «Noi – tutti – siamo costruttori dell’opera più bella: la patria. La patria terrena che prefigura e prepara la patria senza frontiere. Tale patria non comincia oggi, con noi; e tuttavia non può crescere e fruttificare senza di noi. Perciò la riceviamo con rispetto, con gratitudine, come un compito iniziato da molti anni, come un’eredità che ci inorgoglisce e al tempo stesso ci impegna».[2]
Ogni generazione deve far proprie le lotte e le conquiste delle generazioni precedenti e condurle a mete ancora più alte. E’ il cammino. Il bene, come anche l’amore, la giustizia e la solidarietà, non si raggiungono una volta per sempre; vanno conquistati ogni giorno. Non è possibile accontentarsi di quello che si è già ottenuto nel passato e fermarsi a goderlo in modo che tale situazione ci porti a disconoscere che molti nostri fratelli soffrono ancora situazioni di ingiustizia che ci interpellano tutti.
Voi, pertanto, avete davanti una sfida grande e appassionante: continuare a lavorare perché la democrazia, il sogno dei vostri padri, ben al di là degli aspetti formali, sia veramente un luogo d’incontro per tutti. Che sia un luogo nel quale tutti, senza eccezioni, si sentano chiamati a costruire casa, famiglia e nazione. Un luogo, una casa, una famiglia, chiamata Cile: generoso, accogliente, che ama la sua storia, che lavora per il presente della sua convivenza e guarda con speranza al futuro. Ci fa bene ricordare qui le parole di San Alberto Hurtado: «Una Nazione, più che per le sue frontiere, più che la sua terra, le sue catene montuose, i suoi mari, più che la sua lingua o le sue tradizioni, è una missione da compiere».[3] È futuro. E quel futuro si gioca, in gran parte, nella capacità di ascolto che hanno il suo popolo e le sue autorità.
Tale capacità di ascolto acquista un grande valore in questa Nazione, dove la pluralità etnica, culturale e storica esige di essere custodita da ogni tentativo di parzialità o supremazia e che mette in gioco la capacità di lasciar cadere dogmatismi esclusivisti in una sana apertura al bene comune (che se non presenta un carattere comunitario non sarà mai un bene). È indispensabile ascoltare: ascoltare i disoccupati, che non possono sostenere il presente e ancor meno il futuro delle loro famiglie; ascoltare i popoli autoctoni, spesso dimenticati, i cui diritti devono ricevere attenzione e la cui cultura protetta, perché non si perda una parte dell’identità e della ricchezza di questa Nazione. Ascoltare i migranti, che bussano alle porte di questo Paese in cerca di una vita migliore e, a loro volta, con la forza e la speranza di voler costruire un futuro migliore per tutti. Ascoltare i giovani, nella loro ansia di avere maggiori opportunità, specialmente sul piano educativo e, così, sentirsi protagonisti del Cile che sognano, proteggendoli attivamente dal flagello della droga che si prende il meglio delle loro vite. Ascoltare gli anziani, con la loro saggezza tanto necessaria e il carico della loro fragilità. Non li possiamo abbandonare. Ascoltare i bambini, che si affacciano al mondo con i loro occhi pieni di meraviglia e innocenza e attendono da noi risposte reali per un futuro di dignità. E qui non posso fare a meno di esprimere il dolore e la vergogna, vergogna che sento davanti al danno irreparabile causato a bambini da parte di ministri della Chiesa. Desidero unirmi ai miei fratelli nell’episcopato, perché è giusto chiedere perdono e appoggiare con tutte le forze le vittime, mentre dobbiamo impegnarci perché ciò non si ripeta.
Con questa capacità di ascolto siamo invitati – oggi in modo speciale – a prestare un’attenzione preferenziale alla nostra casa comune. Ascoltare la nostra casa comune: far crescere una cultura che sappia prendersi cura della terra e a tale scopo non accontentarci solo di offrire risposte specifiche ai gravi problemi ecologici e ambientali che si presentano; in questo si richiede l’audacia di offrire «uno sguardo diverso, un pensiero, una politica, un programma educativo, uno stile di vita e una spiritualità che diano forma ad una resistenza di fronte all’avanzare del paradigma tecnocratico»[4] che privilegia l’irruzione del potere economico nei confronti degli ecosistemi naturali e, di conseguenza, del bene comune dei nostri popoli. La saggezza dei popoli autoctoni può offrire un grande contributo. Da loro possiamo imparare che non c’è vero sviluppo in un popolo che volta le spalle alla terra e a tutto quello e tutti quelli che la circondano. Il Cile possiede nelle proprie radici una saggezza capace di aiutare ad andare oltre la concezione meramente consumistica dell’esistenza per acquisire un atteggiamento sapienziale di fronte al futuro.
L’anima del carattere cileno – la Presidente ha detto che era un po’ scoraggiata – l’anima del carattere cileno è vocazione ad essere, quella caparbia volontà di esistere.[5] Vocazione alla quale tutti sono chiamati e rispetto alla quale nessuno può sentirsi escluso o dispensabile. Vocazione che richiede un’opzione radicale per la vita, specialmente in tutte le forme nelle quali essa si vede minacciata.
Ringrazio nuovamente per l’invito a poter venire ad incontrarmi con voi, con l’anima di questo popolo; e prego affinché la Vergine del Carmelo, Madre e Regina del Cile, continui ad accompagnare e a far crescere i sogni di questa benedetta Nazione. Grazie!
[1] Gabriela Mistral, Elogios de la tierra de Chile.
[2] Omelia nel Te Deum Ecumenico (4 novembre 1970).
[3] Te Deum (settembre 1948).
[4] Lett. enc. Laudato si’, 111.
[5] Cfr Gabriela Mistral, Breve descripción de Chile, in Anales de la Universidad de Chile (14), 1934.
Santa Messa nel Parque O’Higgins (Santiago, 16 gennaio)
«Vedendo le folle» (Mt 5,1). In queste prime parole del Vangelo che abbiamo appena ascoltato troviamo l’atteggiamento con cui Gesù vuole venirci incontro, il medesimo atteggiamento con cui Dio ha sempre sorpreso il suo popolo (cfr Es 3,7). Il primo atteggiamento di Gesù è vedere, guardare il volto dei suoi. Quei volti mettono in movimento l’amore viscerale di Dio. Non sono state idee o concetti a muovere Gesù… sono stati i volti, le persone; è la vita che grida alla Vita che il Padre ci vuole trasmettere.
Vedendo le folle, Gesù incontra il volto della gente che lo seguiva e la cosa più bella è vedere che la gente, a sua volta, incontra nello sguardo di Gesù l’eco delle sue ricerche e aspirazioni. Da tale incontro nasce questo elenco di beatitudini che sono l’orizzonte verso il quale siamo invitati e sfidati a camminare. Le beatitudini non nascono da un atteggiamento passivo di fronte alla realtà, né tantomeno possono nascere da uno spettatore che diventa un triste autore di statistiche su quanto accade. Non nascono dai profeti di sventura che si accontentano di seminare delusioni. Nemmeno da miraggi che ci promettono la felicità con un “clic”, in un batter d’occhi. Al contrario, le beatitudini nascono dal cuore compassionevole di Gesù che si incontra con il cuore compassionevole e bisognoso di compassione di uomini e donne che desiderano e anelano a una vita beata; di uomini e donne che conoscono la sofferenza, che conoscono lo smarrimento e il dolore che si genera quando “trema la terra sotto i piedi” o “i sogni vengono sommersi” e il lavoro di tutta una vita viene spazzato via; ma che ancora di più conoscono la tenacia e la lotta per andare avanti; ancora di più conoscono il ricostruire e il ricominciare.
Com’è esperto il cuore cileno di ricostruzioni e di nuovi inizi! Come siete esperti voi del rialzarsi dopo tanti crolli! A questo cuore fa appello Gesù; perché questo cuore riceva le beatitudini!
Le beatitudini non nascono da atteggiamenti di facile critica né dagli “sproloqui a buon mercato” di coloro che credono di sapere tutto ma non vogliono impegnarsi con niente e con nessuno, e finiscono così per bloccare ogni possibilità di generare processi di trasformazione e di ricostruzione nelle nostre comunità, nella nostra vita. Le beatitudini nascono dal cuore misericordioso che non si stanca di sperare. E sperimenta che la speranza «è il nuovo giorno, lo sradicamento dell’immobilità, lo scuotersi da una prostrazione negativa” (Pablo Neruda, El habitante y su esperanza, 5).
Gesù, dicendo beato il povero, colui che ha pianto, l’afflitto, il sofferente, colui che ha perdonato…, viene a sradicare l’immobilità paralizzante di chi crede che le cose non possono cambiare, di chi ha smesso di credere nel potere trasformante di Dio Padre e nei suoi fratelli, specialmente nei suoi fratelli più fragili, nei suoi fratelli scartati. Gesù, proclamando le beatitudini viene a scuotere quella prostrazione negativa chiamata rassegnazione che ci fa credere che si può vivere meglio se evitiamo i problemi, se fuggiamo dagli altri, se ci nascondiamo o rinchiudiamo nelle nostre comodità, se ci addormentiamo in un consumismo tranquillizzante (cfrEsort. ap. Evangelii gaudium, 2). Quella rassegnazione che ci porta a isolarci da tutti, a dividerci, a separarci, a farci ciechi di fronte alla vita e alla sofferenza degli altri.
Le beatitudini sono quel nuovo giorno per tutti quelli che continuano a scommettere sul futuro, che continuano a sognare, che continuano a lasciarsi toccare e sospingere dallo Spirito di Dio.
Quanto ci fa bene pensare che Gesù dal Cerro Renca o da Puntilla viene a dirci: “Beati…”. Sì, beato tu e tu, ognuno di noi. Beati voi che vi lasciate contagiare dallo Spirito di Dio e lottate e lavorate per questo nuovo giorno, per questo nuovo Cile, perché vostro sarà il regno dei cieli. «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9).
E di fronte alla rassegnazione che come un ruvido brusio mina i nostri legami vitali e ci divide, Gesù ci dice: beati quelli che si impegnano per la riconciliazione. Felici quelli che sono capaci di sporcarsi le mani e lavorare perché altri vivano in pace. Felici quelli che si sforzano di non seminare divisione. In questo modo, la beatitudine ci rende artefici di pace; ci invita ad impegnarci perché lo spirito della riconciliazione guadagni spazio fra noi. Vuoi gioia? Vuoi felicità? Felici quelli che lavorano perché altri possano avere una vita gioiosa. Desideri pace? Lavora per la pace.
Non posso fare a meno di evocare quel grande Pastore che ebbe Santiago, il quale in un Te Deum disse: « “Se vuoi la pace, lavora per la giustizia” […] E se qualcuno ci domanda: “Cos’è la giustizia?”, o se per caso pensa che consista solo nel “non rubare”, gli diremo che esiste un’altra giustizia: quella che esige che ogni uomo sia trattato come uomo» (Card. Raúl Silva Henríquez, Omelia nel Te Deum Ecumenico, 18 settembre 1977).
Seminare la pace a forza di prossimità, a forza di vicinanza! A forza di uscire di casa e osservare i volti, di andare incontro a chi si trova in difficoltà, a chi non è stato trattato come persona, come un degno figlio di questa terra. Questo è l’unico modo che abbiamo per tessere un futuro di pace, per tessere di nuovo una realtà che si può sfilacciare. L’operatore di pace sa che molte volte bisogna vincere grandi o sottili meschinità e ambizioni, che nascono dalla pretesa di crescere e “farsi un nome”, di acquistare prestigio a spese degli altri. L’operatore di pace sa che non basta dire: non faccio del male a nessuno, perché, come diceva Sant’Alberto Hurtado: «Va molto bene non fare il male, ma è molto male non fare il bene” (Meditación radial, abril 1944).
Costruire la pace è un processo che ci riunisce e stimola la nostra creatività per dar vita a relazioni capaci di vedere nel mio vicino non un estraneo, uno sconosciuto, ma un figlio di questa terra.
Affidiamoci alla Vergine Immacolata che dal Cerro San Cristóbal custodisce e accompagna questa città. Che lei ci aiuti a vivere e a desiderare lo spirito delle beatitudini; affinché in tutti gli angoli di questa città si oda come un sussurro: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9).
Breve visita al Centro Penitenciario Femenino (Santiago, 16 gennaio)
Care sorelle e fratelli,
Grazie. Grazie per quello che avete fatto, e grazie per l’opportunità che mi offrite di potervi visitare: per me è importante condividere questo tempo con voi e poter essere più vicino a tanti nostri fratelli che oggi sono privi della libertà. Grazie Suor Nelly per le Sue parole e specialmente per la testimonianza che la vita trionfa sempre sulla morte. Sempre. Grazie Janeth per aver avuto il coraggio di condividere con tutti noi i tuoi dolori e quella coraggiosa richiesta di perdono. Quanto abbiamo da imparare da questo tuo atteggiamento pieno di coraggio e umiltà! Ti cito: “Chiediamo perdono a tutti quelli che abbiamo ferito con i nostri delitti”. Grazie perché ci ricordi questo atteggiamento senza il quale noi ci disumanizziamo. Tutti noi dobbiamo chiedere perdono, io per primo, tutti. Questo ci umanizza. Senza questo atteggiamento di chiedere perdono, perdiamo la coscienza di aver sbagliato e che ogni giorno siamo chiamati a ricominciare, in un modo o nell’altro.
In questo momento il cuore mi fa anche ricordare la frase di Gesù: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei» (Gv 8,7) [il Papa sente che alcune detenute la citano insieme con lui]… la conoscete bene! E sapete cosa dico spesso nelle omelie quando parlo del fatto che tutti abbiamo qualcosa dentro, o per debolezza, o perché sempre cadiamo, e l’abbiamo molto nascosto? Dico alle persone: “Tutti siamo peccatori, abbiamo tutti dei peccati. Non so: c’è qualcuno qui che non ha peccati? Alzi la mano…”. Nessuno ha il coraggio di alzare la mano! Egli ci invita – Gesù – ad abbandonare la logica semplicistica di dividere la realtà in buoni e cattivi, per entrare in quell’altra dinamica capace di assumere la fragilità, i limiti e anche il peccato, per aiutarci ad andare avanti.
Quando sono entrato, mi aspettavano le mamme con i loro figli. Sono stati loro a darmi il benvenuto, che si può esprimere in due parole: madre e figli.
Madre: molte di voi sono madri e sapete cosa significa dare la vita. Avete saputo “portare” nel vostro seno una vita e l’avete data alla luce. La maternità non è e non sarà mai un problema, è un dono, è uno dei più meravigliosi regali che potete avere. Oggi siete di fronte a una sfida molto simile: si tratta ancora di generare vita. Oggi a voi è chiesto di dare alla luce il futuro. Di farlo crescere, di aiutarlo a svilupparsi. Non solo per voi, ma per i vostri figli e per tutta la società. Voi, donne, avete una capacità incredibile di adattarvi alle situazioni e di andare avanti. Vorrei oggi fare appello alla capacità di generare futuro. Capacità di generare futuro che vive in ognuna di voi. Quella capacità che vi permette di lottare contro i tanti determinismi “cosificatori”, cioè che trasformano le persone in cose, che finiscono per uccidere la speranza. Nessuno di noi è una cosa: siamo tutti persone, e come persone abbiamo questa dimensione della speranza. Non lasciamoci “cosificare”. Non sono un numero, non sono il detenuto numero tale, sono Tizio o Caio che porta dentro di sé la speranza e vuole dare alla luce speranza.
Essere private della libertà, come ci diceva bene Janeth, non è sinonimo di perdita di sogni e di speranze. E’ vero, è molto duro, è doloroso, ma non vuol dire perdere la speranza. Non vuol dire smettere di sognare. Essere privato della libertà non è la stessa cosa che essere privo di dignità, no, non è la stessa cosa. La dignità non si tocca, a nessuno. Si cura, si custodisce, si accarezza. Nessuno può essere privato della dignità. Voi siete private della libertà. Da qui consegue che bisogna lottare contro ogni tipo di cliché, di etichetta che dica che non si può cambiare, o che non ne vale la pena, o che il risultato è sempre lo stesso. Come dice il tango argentino: “Dai, avanti così, che tutto è uguale, che là all’inferno ci ritroveremo…”. No, non è tutto lo stesso. Care sorelle, no! Non è vero che il risultato è sempre lo stesso. Ogni sforzo fatto lottando per un domani migliore – anche se tante volte potrebbe sembrare che cada nel vuoto – darà sempre frutto e vi verrà ricompensato.
La seconda parola è figli: essi sono forza, sono speranza, sono stimolo. Sono il ricordo vivo che la vita si costruisce guardando avanti e non indietro. Oggi siete private della libertà, ma ciò non vuol dire che questa situazione sia definitiva. Niente affatto. Sempre guardare l’orizzonte, in avanti, verso il reinserimento nella vita ordinaria della società. Una pena senza futuro, una condanna senza futuro non è una condanna umana: è una tortura. Ogni pena che una persona si trova a scontare per pagare un debito con la società, deve avere un orizzonte, l’orizzonte di reinserirmi di nuovo e quindi di prepararmi al reinserimento. Questo esigetelo, da voi stesse e dalla società. Guardate sempre l’orizzonte, guardate sempre avanti verso il reinserimento nella vita ordinaria della società. Per questo, apprezzo e invito a intensificare tutti gli sforzi possibili affinché i progetti come “Espacio Mandela” e “Fundación Mujer levántate” possano crescere e rafforzarsi.
Il nome di questa Fondazione mi fa ricordare quel passo evangelico in cui molti prendevano in giro Gesù perché diceva che la figlia del capo della sinagoga non era morta, ma addormentata. Lo deridevano per questo. Di fronte allo scherno, l’atteggiamento di Gesù è paradigmatico: entrando dove stava la ragazza, la prese per mano e le disse: «Fanciulla, io ti dico: alzati!» (Mc 5,41). Per tutti era morta, per Gesù no. Questo tipo di iniziative sono segno vivo di Gesù che entra nella vita di ognuno di noi, che va oltre ogni scherno, che non dà per persa nessuna battaglia, ci prende per mano e ci invita ad alzarci. Che bello che ci siano cristiani e persone di buona volontà, che ci siano persone di qualunque credenza, di qualunque scelta religiosa nella vita, o anche non religiosa, ma di buona volontà, che seguono le orme di Gesù, che hanno il coraggio di entrare ed essere segno di quella mano tesa cha fa rialzare. Io te lo chiedo: alzati! Sempre rialzarsi.
Tutti sappiamo che molte volte, purtroppo, la pena del carcere si riduce soprattutto a un castigo, senza offrire strumenti adeguati per attivare processi. E’ quello che dicevo della speranza: guardare avanti, generare processi di reinserimento. Questo dev’essere il vostro sogno: il reinserimento. E se è lungo portare avanti questo cammino, fare il meglio possibile perché sia più breve. Ma sempre reinserimento. La società ha l’obbligo – l’obbligo! – di reinserire tutte voi. Quando dico “reinserire tutte voi”, dico reinserire ognuna di voi, ognuna con un processo personale di reinserimento: una con un cammino, un’altra con un altro, una per un tempo più lungo, un’altra più corto; ma una persona che è in cammino verso il reinserimento. Questo dovete mettervelo in testa e dovete esigerlo. E questo vuol dire generare un processo, attivare un processo. E questi spazi che promuovono programmi di apprendistato lavorativo e di accompagnamento per ricomporre legami sono segno di speranza e di futuro. Adoperiamoci perché crescano. La sicurezza pubblica non va ridotta solo a misure di maggior controllo ma soprattutto va costruita con misure di prevenzione, col lavoro, l’educazione e più vita comunitaria.
Con questi pensieri voglio benedire tutte voi e anche salutare gli operatori pastorali, i volontari, il personale e, in modo speciale, i funzionari della Gendarmeria e le loro famiglie. Prego per voi. Voi avete un compito delicato e complesso, e per questo auspico che le Autorità possano assicurarvi anche le condizioni necessarie per svolgere il vostro lavoro con dignità. Dignità che genera dignità. La dignità si contagia, si contagia più dell’influenza; la dignità si contagia. La dignità genera dignità.
A Maria, che è Madre e per la quale siamo figli – e voi siete sue figlie –, chiediamo che interceda per voi, per ognuno dei vostri figli, per le persone che avete nel cuore, e vi copra col suo mantello. E, per favore, vi chiedo di pregare per me, perché ne ho bisogno. Grazie.
Incontro con i Sacerdoti, Religiosi/e, Consacrati e Seminaristi nella Cattedrale di Santiago (16 gennaio)
Cari fratelli e sorelle, buonasera.
Sono contento di condividere questo incontro con voi. Mi è piaciuto il modo con cui il Cardinal Ezzati vi ha presentato: “Ecco, ecco le consacrate, i consacrati, i presbiteri, i diaconi permanenti, i seminaristi…”. Eccoli. Mi è venuto in mente il giorno della nostra ordinazione o consacrazione quando, dopo la presentazione, abbiamo detto: «Eccomi, Signore, per fare la tua volontà». In questo incontro desideriamo dire al Signore: «Eccoci», per rinnovare il nostro “sì”. Vogliamo rinnovare insieme la risposta alla chiamata che un giorno scosse il nostro cuore.
E per fare questo, credo che ci possa aiutare partire dal brano del Vangelo che abbiamo ascoltato e condividere tre momenti di Pietro e della prima comunità: Pietro e la comunità abbattuta, Pietro e la comunità perdonata e Pietro e la comunità trasfigurata. Gioco con questo binomio Pietro-comunità poiché l’esperienza degli apostoli ha sempre questo duplice aspetto, quello personale e quello comunitario. Vanno insieme e non li possiamo separare. Siamo, sì, chiamati individualmente, ma sempre ad esser parte di un gruppo più grande. Non esiste il “selfie vocazionale”, non esiste. La vocazione esige che la foto te la scatti un altro: che possiamo farci? Le cose stanno così.
1. Pietro abbattuto e la comunità abbattuta
Mi è sempre piaciuto lo stile dei Vangeli di non decorare né addolcire gli avvenimenti, e nemmeno di dipingerli belli. Ci presentano la vita com’è e non come dovrebbe essere. Il Vangelo non ha paura di mostrarci i momenti difficili, e perfino conflittuali, che i discepoli hanno attraversato.
Ricomponiamo la scena. Avevano ucciso Gesù; alcune donne dicevano che era vivo (cfr Lc 24,22-24). Anche se avevano visto Gesù risorto, l’evento era talmente forte che i discepoli avevano bisogno di tempo per comprendere l’accaduto. Luca dice: “Era così grande la gioia che non potevano crederci”. Avevano bisogno di tempo per comprendere quello che era successo. Comprensione che arriverà a Pentecoste, con l’invio dello Spirito Santo. L’irruzione del Risorto prenderà tempo per calare nel cuore dei suoi.
I discepoli ritornano alla loro terra. Vanno a fare quello che sapevano fare: pescare. Non c’erano tutti, solo alcuni. Divisi? Frammentati? Non lo sappiamo. Quello che ci dice la Scrittura è che quelli che c’erano non hanno pescato niente. Hanno le reti vuote.
Ma c’era un altro vuoto che pesava inconsciamente su di loro: lo smarrimento e il turbamento per la morte del loro Maestro. Non c’è più, è stato crocifisso. Non solo Lui era stato crocifisso, ma anche loro, perché la morte di Gesù aveva messo in evidenza un vortice di conflitti nel cuore dei suoi amici. Pietro lo aveva rinnegato, Giuda lo aveva tradito, gli altri erano fuggiti o si erano nascosti. Solo un pugno di donne e il discepolo amato erano rimasti. Il resto, se n’era andato. Questione di giorni, e tutto era crollato. Sono le ore dello smarrimento e del turbamento nella vita del discepolo. Nei momenti «in cui il polverone delle persecuzioni, delle tribolazioni, dei dubbi e così via, si alza per avvenimenti culturali e storici, non è facile trovare la strada da seguire. Esistono varie tentazioni che caratterizzano questo momento: discutere di idee, non dare la dovuta attenzione al fatto, fissarsi troppo sui persecutori… e credo che la peggiore di tutte le tentazioni è fermarsi a ruminare la desolazione».[1] Sì, stare a ruminare la desolazione. Questo è quello che è successo ai discepoli.
Come ci diceva il Card. Ezzati: «La vita presbiterale e consacrata in Cile ha attraversato e attraversa ore difficili di turbolenza e sfide non indifferenti. Insieme alla fedeltà della stragrande maggioranza, è cresciuta anche la zizzania del male col suo seguito di scandalo e diserzione».
Momento di turbolenza. Conosco il dolore che hanno significato i casi di abusi contro minori e seguo con attenzione quanto fate per superare questo grave e doloroso male. Dolore per il danno e la sofferenza delle vittime e delle loro famiglie, che hanno visto tradita la fiducia che avevano posto nei ministri della Chiesa. Dolore per la sofferenza delle comunità ecclesiali; e dolore anche per voi, fratelli, che oltre alla fatica della dedizione avete vissuto il danno provocato dal sospetto e dalla messa in discussione, che in alcuni o in molti può aver insinuato il dubbio, la paura e la sfiducia. So che a volte avete subito insulti sulla metropolitana o camminando per la strada; che andare “vestiti da prete” in molte zone si sta “pagando caro”. Per questo vi invito a chiedere a Dio che ci dia la lucidità di chiamare la realtà col suo nome, il coraggio di chiedere perdono e la capacità di imparare ad ascoltare quello che Lui ci sta dicendo, e non ruminare la desolazione.
Mi piacerebbe poi aggiungere un altro aspetto importante. Le nostre società stanno cambiando. Il Cile di oggi è molto diverso da quello che conobbi al tempo della mia giovinezza, quando mi formavo. Stanno nascendo nuove e varie forme culturali che non si adattano ai contorni conosciuti. E dobbiamo riconoscere che, tante volte, non sappiamo come inserirci in queste nuove situazioni. Spesso sogniamo le “cipolle d’Egitto” e ci dimentichiamo che la terra promessa sta davanti, e non dietro. Che la promessa è di ieri, ma per domani. E allora possiamo cadere nella tentazione di chiuderci e isolarci per difendere le nostre posizioni che finiscono per essere nient’altro che bei monologhi. Possiamo essere tentati di pensare che tutto va male, e invece di professare una “buona novella”, ciò che professiamo è solo apatia e disillusione. Così chiudiamo gli occhi davanti alle sfide pastorali credendo che lo Spirito non abbia nulla da dire. Così ci dimentichiamo che il Vangelo è un cammino di conversione, ma non solo “degli altri”, ma anche nostra.
Ci piaccia o no, siamo invitati ad affrontare la realtà così come ci si presenta. La realtà personale, comunitaria e sociale. Le reti – dicono i discepoli – sono vuote, e possiamo comprendere i sentimenti che questo genera. Tornano a casa senza grandi avventure da raccontare; tornano a casa a mani vuote; tornano a casa abbattuti.
Cosa è rimasto di quei discepoli forti, coraggiosi, vivaci, che si sentivano scelti e avevano lasciato tutto per seguire Gesù (cfr Mc 1,16-20)? Cosa è rimasto di quei discepoli sicuri di sé, che sarebbero andati in prigione e avrebbero dato persino la vita per il loro Maestro (cfr Lc 22,33), che per difenderlo volevano scagliare il fuoco sulla terra (cfr Lc 9,54); che per Lui avrebbero sguainato la spada e dato battaglia (cfr Lc 22,49-51)? Cosa è rimasto del Pietro che rimproverava il suo Maestro su come avrebbe dovuto condurre la propria vita (cfr Mc 8,31-33), il suo programma di redenzione? La desolazione.
2. Pietro perdonato – la comunità perdonata
È l’ora della verità nella vita della prima comunità. È l’ora in cui Pietro si confrontò con parte di sé stesso. Con la parte della sua verità che molte volte non voleva vedere. Fece l’esperienza del suo limite, della sua fragilità, del suo essere peccatore. Pietro l’istintivo, l’impulsivo capo e salvatore, con una buona dose di autosufficienza e un eccesso di fiducia in sé stesso e nelle sue possibilità, dovette sottomettersi alla propria debolezza e al proprio peccato. Lui era tanto peccatore quanto gli altri, era tanto bisognoso quanto gli altri, era tanto fragile quanto gli altri. Pietro deluse Colui al quale aveva giurato protezione. Un’ora cruciale nella vita di Pietro.
Come discepoli, come Chiesa, ci può accadere lo stesso: ci sono momenti in cui ci confrontiamo non con le nostre glorie, ma con la nostra debolezza. Ore cruciali nella vita dei discepoli, ma quella è anche l’ora in cui nasce l’apostolo. Lasciamoci guidare dal testo.
«Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?”» (Gv 21,15).
Dopo mangiato, Gesù invita Pietro a fare due passi e l’unica parola è una domanda, una domanda di amore: Mi ami? Gesù non usa né il rimprovero né la condanna. L’unica cosa che vuole fare è salvare Pietro. Lo vuole salvare dal pericolo di restare rinchiuso nel suo peccato, di restare a “masticare” la desolazione frutto del suo limite; salvarlo dal pericolo di venir meno, a causa dei suoi limiti, a tutto il bene che aveva vissuto con Gesù. Gesù lo vuole salvare dalla chiusura e dall’isolamento. Lo vuole salvare da quell’atteggiamento distruttivo che è il vittimismo o, al contrario, dal cadere in un “tanto è tutto uguale” che finisce per annacquare qualsiasi impegno nel relativismo più dannoso. Vuole liberarlo dal considerare chiunque gli si oppone come se fosse un nemico, o dal non accettare con serenità le contraddizioni o le critiche. Vuole liberarlo dalla tristezza e specialmente dal malumore. Con quella domanda, Gesù invita Pietro ad ascoltare il proprio cuore e imparare a discernere. Perché «non era di Dio difendere la verità a costo della carità, né la carità a costo della verità, né l’equilibrio a costo di entrambe. Occorre discernere. Gesù vuole evitare che Pietro diventi un verace distruttore o un caritatevole menzognero o un perplesso paralizzato»,[2] come può capitarci in queste situazioni.
Gesù interrogò Pietro sull’amore e insistette con lui finché lui poté dargli una risposta realistica: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene» (Gv 21,17). Così Gesù lo conferma nella missione. Così lo fa diventare definitivamente suo apostolo.
Che cosa fortifica Pietro come apostolo? Che cosa mantiene noi come apostoli? Una cosa sola: ci è stata usata misericordia (cfr 1 Tm 1,12-16). Siamo stati trattati con misericordia. «In mezzo ai nostri peccati, limiti, miserie; in mezzo alle nostre molteplici cadute, Gesù ci ha visto, si è avvicinato, ci ha dato la mano e ci ha usato misericordia. Ognuno di noi potrebbe fare memoria, ricordando tutte le volte in cui il Signore lo ha visto, lo ha guardato, si è avvicinato e gli ha usato misericordia».[3] E vi invito a fare questo. Non siamo qui perché siamo migliori degli altri. Non siamo supereroi che, dall’alto, scendono a incontrarsi con i “mortali”. Piuttosto siamo inviati con la consapevolezza di essere uomini e donne perdonati. E questa è la fonte della nostra gioia. Siamo consacrati, pastori nello stile di Gesù ferito, morto e risorto. Il consacrato – e quando dico “consacrati”, dico tutti quelli che sono qui – è colui e colei che incontra nelle proprie ferite i segni della Risurrezione; che riesce a vedere nelle ferite del mondo la forza della Risurrezione; che, come Gesù, non va incontro ai fratelli con il rimprovero e la condanna.
Gesù Cristo non si presenta ai suoi senza piaghe; proprio partendo dalle sue piaghe Tommaso può confessare la fede. Siamo invitati a non dissimulare o nascondere le nostre piaghe. Una Chiesa con le piaghe è capace di comprendere le piaghe del mondo di oggi e di farle sue, patirle, accompagnarle e cercare di sanarle. Una Chiesa con le piaghe non si pone al centro, non si crede perfetta, ma pone al centro l’unico che può sanare le ferite e che ha un nome: Gesù Cristo.
La consapevolezza di avere delle piaghe ci libera; sì, ci libera dal diventare autoreferenziali, di crederci superiori. Ci libera da quella tendenza «prometeica di coloro che in definitiva fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri perché osservano determinate norme o perché sono irremovibilmente fedeli ad un certo stile cattolico proprio del passato».[4]
In Gesù, le nostre piaghe sono risorte. Ci rendono solidali; ci aiutano a distruggere i muri che ci imprigionano in un atteggiamento elitario per stimolarci a gettare ponti e andare incontro a tanti assetati del medesimo amore misericordioso che solo Cristo ci può offrire. «Quante volte sogniamo piani apostolici espansionistici, meticolosi e ben disegnati, tipici dei generali sconfitti! Così neghiamo la nostra storia di Chiesa, che è gloriosa in quanto storia di sacrifici, di speranza, di lotta quotidiana, di vita consumata nel servizio, di costanza nel lavoro faticoso, perché ogni lavoro è “sudore della nostra fronte”»[5]. Vedo con una certa preoccupazione che ci sono comunità che vivono prese dall’ansia più di figurare sul cartellone, di occupare spazi, di apparire e mostrarsi, che non di rimboccarsi le maniche e andare a toccare la realtà sofferta del nostro popolo fedele.
Come ci mette in discussione la riflessione di quel santo cileno che avvertiva: «Saranno, dunque, metodi falsi tutti quelli che vengono imposti per uniformità; tutti quelli che pretendono di orientarci a Dio facendoci dimenticare i nostri fratelli; tutti quelli che ci fanno chiudere gli occhi sull’universo, invece di insegnarci ad aprirli per elevare tutto al Creatore di ogni cosa; tutti quelli che ci rendono egoisti e ci fanno ripiegare su noi stessi»[6].
Il Popolo di Dio non aspetta né ha bisogno di noi come supereroi, aspetta pastori, uomini e donne consacrati, che conoscano la compassione, che sappiano tendere una mano, che sappiano fermarsi davanti a chi è caduto e, come Gesù, aiutino ad uscire da quel giro vizioso di “masticare” la desolazione che avvelena l’anima.
3. Pietro trasfigurato – la comunità trasfigurata
Gesù invita Pietro a discernere e così iniziano a prendere forza molti avvenimenti della vita di Pietro, come il gesto profetico della lavanda dei piedi. Pietro, quello che aveva opposto resistenza a lasciarsi lavare i piedi, incominciava a capire che la vera grandezza passa per il farsi piccoli e servitori.[7]
Che pedagogia quella di nostro Signore! Dal gesto profetico di Gesù alla Chiesa profetica che, lavata dal proprio peccato, non ha paura di andare a servire un’umanità ferita.
Pietro ha sperimentato nella propria carne la ferita non solo del peccato, ma anche dei propri limiti e debolezze. Ma ha scoperto in Gesù che le sue ferite possono essere via di Risurrezione. Conoscere Pietro abbattuto per conoscere Pietro trasfigurato è l’invito a passare dall’essere una Chiesa di abbattuti desolati a una Chiesa servitrice di tanti abbattuti che vivono accanto a noi. Una Chiesa capace di porsi al servizio del suo Signore nell’affamato, nel carcerato, nell’assetato, nel senzatetto, nel denudato, nel malato… (cfr Mt 25,35). Un servizio che non si identifica con l’assistenzialismo o il paternalismo, ma con la conversione del cuore. Il problema non sta nel dar da mangiare al povero, vestire il denudato, assistere l’infermo, ma nel considerare che il povero, il denudato, il malato, il carcerato, il senzatetto hanno la dignità di sedersi alle nostre tavole, di sentirsi “a casa” tra noi, di sentirsi in famiglia. Quello è il segno che il Regno di Dio è in mezzo a noi. È il segno di una Chiesa che è stata ferita a causa del proprio peccato, colmata di misericordia dal suo Signore, e convertita in profetica per vocazione.
Rinnovare la profezia è rinnovare il nostro impegno di non aspettare un mondo ideale, una comunità ideale, un discepolo ideale per vivere o per evangelizzare, ma di creare le condizioni perché ogni persona abbattuta possa incontrarsi con Gesù. Non si amano le situazioni, né le comunità ideali, si amano le persone.
Il riconoscimento sincero, sofferto e orante dei nostri limiti, lungi dal separarci dal nostro Signore, ci permette di ritornare a Gesù sapendo che «Egli sempre può, con la sua novità, rinnovare la nostra vita e la nostra comunità, e anche se attraversa epoche oscure e debolezze ecclesiali, la proposta cristiana non invecchia mai. […] Ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo spuntano nuove strade, metodi creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale».[8] Come fa bene a tutti noi lasciare che Gesù ci rinnovi il cuore!
All’inizio di questo incontro vi dicevo che venivamo a rinnovare il nostro “sì”, con slancio, con passione. Vogliamo rinnovare il nostro “sì”, ma realistico, perché basato sullo sguardo di Gesù. Vi invito quando tornate a casa a preparare nel vostro cuore una specie di testamento spirituale, sul modello del Cardinal Raúl Silva Henríquez. Quella bella preghiera che inizia dicendo:
«La Chiesa che io amo è la Santa Chiesa di tutti i giorni… la tua, la mia, la Santa Chiesa di tutti i giorni…
…Gesù, il Vangelo, il pane, l’Eucaristia, il Corpo di Cristo umile ogni giorno. Con i volti dei poveri e i volti di uomini e donne che cantavano, che lottavano, che soffrivano. La Santa Chiesa di tutti i giorni».
Ti chiedo: Com’è la Chiesa che tu ami? Ami questa Chiesa ferita che trova vita nelle piaghe di Gesù?
Grazie per questo incontro. Grazie per l’opportunità di rinnovare il “sì” con voi. La Vergine del Carmelo vi copra col suo manto.
E per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie.
[1] Jorge M. Bergoglio, Las cartas de la tribulación, 9, Ed. Diego de Torres, Buenos Aires 1987.
[2] Cfr ibid.
[3]Videomessaggio al CELAM in occasione del Giubileo straordinario della Misericordia nel Continente americano, 27 agosto 2016.
[4] Esort. ap. Evangelii gaudium, 94.
[6] San Alberto Hurtado, Discurso a jóvenes de la Acción Católica, 1943.
[7] «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti» (Mc 9,35).
[8] Esort. ap. Evangelii gaudium, 11.
Incontro con i Vescovi nella Sagrestia della Cattedrale (Santiago, 16 gennaio)
Cari fratelli,
ringrazio per le parole che il Presidente della Conferenza Episcopale mi ha rivolto a nome di tutti voi.
Prima di tutto desidero salutare Mons. Bernardino Piñera Carvallo, che quest’anno compirà 60 anni di episcopato (è il Vescovo più anziano del mondo, tanto in età come in anni di episcopato) e che ha vissuto quattro sessioni del Concilio Vaticano II. Bella memoria vivente!
Tra poco si compirà un anno dalla vostra visita ad liminaquello che ho avuto con il “mondo consacrato”. Poiché uno dei nostri compiti principali consiste proprio nello stare vicini ai nostri consacrati, ai nostri presbiteri. Se il pastore si disperde, anche le pecore si disperderanno e saranno alla portata di qualsiasi lupo. Fratelli, la paternità del vescovo con i suoi sacerdoti, col suo presbiterio! Una paternità che non è né paternalismo né abuso di autorità. E’ un dono da chiedere. State vicini ai vostri sacerdoti nello stile di San Giuseppe. Una paternità che aiuta a crescere e a sviluppare i carismi che lo Spirito ha voluto effondere sui vostri rispettivi presbitèri.
So che eravamo rimasti d’accordo per usare poco tempo perché già nei colloqui delle due lunghe sessioni della visita ad liminaabbiamo toccato molti temi. Perciò in questo “saluto” mi piacerebbe riprendere qualche punto dell’incontro che abbiamo avuto a Roma, e lo potrei riassumere nella seguente frase: la coscienza di essere popolo, di essere Popolo di Dio.
Uno dei problemi che affrontano oggigiorno le nostre società è il sentimento di essere orfani, cioè di non appartenere a nessuno. Questo sentire “postmoderno” può penetrare in noi e nel nostro clero; allora incominciamo a pensare che non apparteniamo a nessuno, dimentichiamo che siamo parte del santo Popolo fedele di Dio e che la Chiesa non è e non sarà mai un’élite di consacrati, sacerdoti o vescovi. Non possiamo sostenere la nostra vita, la nostra vocazione o ministero senza questa coscienza di essere Popolo. Dimenticarci di questo – come mi esprimevo rivolgendomi alla Commissione per l’America Latina – «comporta vari rischi e deformazioni nella nostra stessa esperienza, sia personale sia comunitaria, del ministero che la Chiesa ci ha affidato».[1] La mancanza di consapevolezza di appartenere al Popolo fedele di Dio come servitori, e non come padroni, ci può portare a una delle tentazioni che arrecano maggior danno al dinamismo missionario che siamo chiamati a promuovere: il clericalismo, che risulta una caricatura della vocazione ricevuta.
La mancanza di consapevolezza del fatto che la missione è di tutta la Chiesa e non del prete o del vescovo limita l’orizzonte e, quello che è peggio, limita tutte le iniziative che lo Spirito può suscitare in mezzo a noi. Diciamolo chiaramente, i laici non sono i nostri servi, né i nostri impiegati. Non devono ripetere come “pappagalli” quello che diciamo. «Il clericalismo lungi dal dare impulso ai diversi contributi e proposte, va spegnendo a poco a poco il fuoco profetico di cui l’intera Chiesa è chiamata a rendere testimonianza nel cuore dei suoi popoli. Il clericalismo dimentica che la visibilità e la sacramentalità della Chiesa appartengono a tutto il Popolo fedele di Dio (cfr Lumen gentium, 9-14) e non solo a pochi eletti e illuminati».[2]
Vigiliamo, per favore, contro questa tentazione, specialmente nei seminari e in tutto il processo formativo. Vi confesso, mi preoccupa la formazione dei seminaristi: che siano pastori al servizio del Popolo di Dio; come dev’essere un pastore, con la dottrina, con la disciplina, con i Sacramenti, con la vicinanza, con le opere di carità, ma che abbiano questa coscienza di Popolo. I seminari devono porre l’accento sul fatto che i futuri sacerdoti siano capaci di servire il santo Popolo fedele di Dio, riconoscendo la diversità di culture e rinunciando alla tentazione di qualsiasi forma di clericalismo. Il sacerdote è ministro di Cristo, il quale è il protagonista che si rende presente in tutto il Popolo di Dio. I sacerdoti di domani devono formarsi guardando al domani: il loro ministero si svilupperà in un mondo secolarizzato e, pertanto, chiede a noi pastori di discernere come prepararli a svolgere la loro missione in questo scenario concreto e non nei nostri “mondi o stati ideali”. Una missione che avviene in unione fraterna con tutto il Popolo di Dio. Gomito a gomito, dando impulso e stimolando il laicato in un clima di discernimento e sinodalità, due caratteristiche essenziali del sacerdote di domani. No al clericalismo e a mondi ideali che entrano solo nei nostri schemi ma che non toccano la vita di nessuno.
E qui chiedere allo Spirito Santo il dono di sognare; per favore, non smettete di sognare, sognare e lavorare per una opzione missionaria e profetica che sia capace di trasformare tutto, affinché le abitudini, gli stili, gli orari, il linguaggio ed ogni struttura ecclesiale diventino strumenti adatti per l’evangelizzazione del Cile più che per un’autoconservazione ecclesiastica. Non abbiamo paura di spogliarci di ciò che ci allontana dal mandato missionario.[3]
[2] Ibid.
[3] Cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 27.
Santa Messa nell’Aeroporto di Maquehue (Temuco, 17 gennaio)
«Mari, Mari» (buongiorno)
«Küme tünngün ta niemün» «La pace sia con voi» (Lc 24,36).
Ringrazio Dio per avermi permesso di visitare questa bella parte del nostro continente, l’Araucanía: terra benedetta dal Creatore con la fertilità dei immensi campi verdi, foreste colme di imponenti araucarie – il quinto elogio fatto da Gabriela Mistral a questa terra cilena –,[1] i suoi maestosi vulcani innevati, i suoi laghi e fiumi pieni di vita. Questo paesaggio ci eleva a Dio ed è facile vedere la sua mano in ogni creatura. Molte generazioni di uomini e donne hanno amato e amano questo suolo con gelosa gratitudine. E voglio soffermarmi e salutare in modo speciale i membri del popolo Mapuche, così come gli altri popoli indigeni che vivono in queste terre australi: Rapanui (Isola di Pasqua), Aymara, Quechua e Atacama, e molti altri.
Questa terra, se la guardiamo con gli occhi dei turisti, ci lascerà estasiati, però dopo continueremo la nostra strada come prima, ricordandoci dei bei paesaggi che abbiamo visto; se invece ci avviciniamo al suolo lo sentiremo cantare: «Arauco ha un dolore che non posso tacere, sono ingiustizie di secoli che tutti vedono commettere».[2]
In questo contesto di ringraziamento per questa terra e per la sua gente, ma anche di sofferenza e di dolore, celebriamo l’Eucaristia. E lo facciamo in questo aerodromo di Maqueue, nel quale si sono verificate gravi violazioni di diritti umani. Offriamo questa celebrazione per tutti coloro che hanno sofferto e sono morti e per quelli che, ogni giorno, portano sulle spalle il peso di tante ingiustizie. E ricordando queste cose, rimaniamo un istante in silenzio, pensando a tanto dolore e a tanta ingiustizia. Il sacrificio di Gesù sulla croce è carico di tutto il peccato e il dolore dei nostri popoli, un dolore da riscattare.
Nel Vangelo che abbiamo ascoltato, Gesù prega il Padre che «tutti siano una cosa sola» (Gv 17,21). In un’ora cruciale della sua vita si ferma a chiedere l’unità. Il suo cuore sa che una delle peggiori minacce che colpisce e colpirà il suo popolo e tutta l’umanità sarà la divisione e lo scontro, la sopraffazione degli uni sugli altri. Quante lacrime versate! Oggi vogliamo fare nostra questa preghiera di Gesù, vogliamo entrare con Lui in questo orto di dolore, anche con i nostri dolori, per chiedere al Padre con Gesù: che anche noi siamo una cosa sola. Non permettere che ci vinca lo scontro o la divisione.
Questa unità, implorata da Gesù, è un dono che va chiesto con insistenza per il bene della nostra terra e dei suoi figli. Ed bisogna stare attenti a possibili tentazioni che possono apparire e “inquinare dalla radice” questo dono che Dio ci vuole fare e con cui ci invita ad essere autentici protagonisti della storia. Quali sono queste tentazioni? Una è quella dei falsi sinonimi.
1. I falsi sinonimi
Una delle principali tentazioni da affrontare è quella di confondere unità con uniformità. Gesù non chiede a suo Padre che tutti siano uguali, identici; perché l’unità non nasce né nascerà dal neutralizzare o mettere a tacere le differenze. L’unità non è un simulacro né di integrazione forzata né di emarginazione armonizzatrice. La ricchezza di una terra nasce proprio dal fatto che ogni componente sappia condividere la propria sapienza con le altre. Non è e non sarà un’uniformità asfissiante che nasce normalmente dal predominio e dalla forza del più forte, e nemmeno una separazione che non riconosca la bontà degli altri. L’unità domandata e offerta da Gesù riconosce ciò che ogni popolo, ogni cultura è invitata ad apportare a questa terra benedetta. L’unità è una diversità riconciliata perché non tollera che in suo nome si legittimino le ingiustizie personali o comunitarie. Abbiamo bisogno della ricchezza che ogni popolo può offrire, e dobbiamo lasciare da parte la logica di credere che ci siano culture superiori e culture inferiori. Un bel chamal (manto) richiede tessitori che conoscano l’arte di armonizzare i diversi materiali e colori; che sappiano dare tempo ad ogni cosa e ad ogni fase. Potrà essere imitato in modo industriale, ma tutti riconosceremo che è un indumento confezionato sinteticamente. L’arte dell’unità esige e richiede autentici artigiani che sappiano armonizzare le differenze nei “laboratori” dei villaggi, delle strade, delle piazze e dei vari paesaggi. Non è un’arte da scrivania l’unità, né fatta solo di documenti, è un’arte dell’ascolto e del riconoscimento. In questo è radicata la sua bellezza e anche la sua resistenza al passare del tempo e delle intemperie che dovrà affrontare.
L’unità di cui i nostri popoli hanno bisogno richiede che ci ascoltiamo, ma soprattutto che ci riconosciamo, il che non significa solo «ricevere informazioni sugli altri […] ma raccogliere quello che lo Spirito ha seminato in loro come un dono anche per noi».[3]Questo ci introduce sulla via della solidarietà come modo di tessere l’unità, come modo di costruire la storia; quella solidarietà che ci porta a dire: abbiamo bisogno gli uni degli altri nelle nostre differenze affinché questa terra continui a essere bella. È l’unica arma che abbiamo contro la “deforestazione” della speranza. Ecco perché chiediamo: Signore, rendici artigiani di unità.
Un’altra tentazione può venire dalla considerazione di quali sono le armi dell’unità.
2. Le armi dell’unità
L’unità, se vuole essere costruita a partire dal riconoscimento e dalla solidarietà, non può accettare qualsiasi mezzo per questo scopo. Ci sono due forme di violenza che più che far avanzare i processi di unità e riconciliazione finiscono per minacciarli. In primo luogo, dobbiamo essere attenti all’elaborazione di accordi “belli” che non giungono mai a concretizzarsi. Belle parole, progetti conclusi sì – e necessari – ma che non diventando concreti finiscono per “cancellare con il gomito quello che si è scritto con la mano”. Anche questa è violenza. Perché? Perché frustra la speranza.
In secondo luogo, è imprescindibile sostenere che una cultura del mutuo riconoscimento non si può costruire sulla base della violenza e della distruzione che alla fine chiedono il prezzo di vite umane. Non si può chiedere il riconoscimento annientando l’altro, perché questo produce come unico risultato maggiore violenza e divisione. La violenza chiama violenza, la distruzione aumenta la frattura e la separazione. La violenza finisce per rendere falsa la causa più giusta. Per questo diciamo “no alla violenza che distrugge”, in nessuna delle sue due forme.
Questi atteggiamenti sono come lava di vulcano che tutto distrugge, tutto brucia, lasciando dietro di sé solo sterilità e desolazione. Cerchiamo, invece, e non stanchiamoci di cercare il dialogo per l’unità. Per questo diciamo con forza: Signore, rendici artigiani della tua unità.
Tutti noi che, in una certa misura, siamo gente tratta dalla terra (Gen 2,7), siamo chiamati al buon vivere (Küme Mongen), come ci ricorda la saggezza ancestrale del popolo Mapuche. Quanta strada da percorrere, quanta strada per imparare! Küme Monge, un anelito profondo che scaturisce non solo dai nostri cuori, ma risuona come un grido, come un canto in tutto il creato. Perciò, fratelli, per i figli di questa terra, per i figli dei loro figli, diciamo con Gesù al Padre: che anche noi siamo una cosa sola: Signore, rendici artigiani di unità.
[1] Cfr Elogios de la tierra de Chile.
[2] Violeta Parra, Arauco tiene una pena.
[3] Esort. ap. Evangelii gaudium, 246.
Incontro con i giovani nel Santuario di Maipú (Santiagp, 17 gennaio)
Anch’io, Ariel, sono felice di essere con voi. Grazie per le tue parole di benvenuto a nome di tutti i presenti. Sono davvero grato di poter condividere questo momento con voi che, come ho letto lì [su uno striscione], “siete scesi dal divano e vi siete messi le scarpe”. Grazie! Considero per me molto importante incontrarci, camminare un po’ insieme, che ci aiutiamo a guardare in avanti! E penso che anche per voi è importante. Grazie!
E sono felice che questo incontro si svolga qui a Maipú. In questa terra dove, con un abbraccio di fraternità, è stata fondata la storia del Cile; in questo Santuario che sorge all’incrocio delle strade tra il Nord e il Sud, che unisce la neve e l’oceano, e fa che il cielo e la terra abbiano una casa. Una casa per il Cile, una casa per voi, cari giovani, dove la Vergine del Carmelo vi aspetta e vi accoglie con il cuore aperto. E come accompagnò la nascita di questa nazione e accompagnò tanti cileni nel corso di questi duecento anni, così vuole continuare ad accompagnare quei sogni che Dio pone nel vostro cuore: sogni di libertà, sogni di gioia, sogni di un futuro migliore. Questi desideri, come dicevi tu Ariel, di «essere i protagonisti del cambiamento». Essere protagonisti. La Vergine del Carmelo vi accompagna perché siate i protagonisti del Cile che i vostri cuori sognano. E io so che il cuore dei giovani cileni sogna, e sogna in grande, non solo quando siete un po’ brilli, no, sempre sognate in grande, perché da queste terre sono nate esperienze che si sono allargate e moltiplicate attraverso diversi Paesi del nostro continente. E chi le ha promosse? Giovani come voi che hanno saputo vivere l’avventura della fede. Perché la fede provoca nei giovani sentimenti di avventura, che invita a viaggiare attraverso paesaggi incredibili, per niente facili, per niente tranquilli…, ma a voi piacciono le avventure e le sfide…, tranne a quelli che non sono ancora scesi dal divano: scendete alla svelta!, così possiamo continuare… Voi che siete specialisti, mettetegli le scarpe… Anzi, vi annoiate quando non avete delle sfide che vi stimolano. Questo si vede ad esempio, ogni volta che succede una catastrofe naturale: avete una enorme capacità di mobilitarvi che parla della generosità dei vostri cuori. Grazie.
E ho voluto iniziare da questo riferimento alla patria, perché il cammino in avanti, i sogni che devono essere realizzati, il guardare sempre all’orizzonte si devono fare con i piedi per terra, e si inizia con i piedi sulla terra della patria. E se voi non amate la vostra patria, io non credo che possiate amare Gesù e che possiate amare Dio. L’amore per la patria è un amore per la madre: la chiamiamo “madre patria” perché qui siamo nati; ma essa stessa, come ogni madre, ci insegna a camminare e si dona a noi perché la facciamo vivere in altre generazioni. Per questo ho voluto iniziare con questo riferimento alla madre, alla madre patria. Se non siete patrioti – non nazionalisti, patrioti – non farete nulla nella vita. Amate la vostra terra, ragazzi e ragazze, amate il vostro Cile! Date il meglio di voi per il vostro Cile.
Nel mio lavoro come vescovo, ho potuto scoprire che ci sono molte, ma veramente molte buone idee nei cuori e nelle menti dei giovani. E’ vero, voi siete inquieti, cercatori, idealisti. Sapete chi ha problemi? Il problema l’abbiamo noi adulti, quando ascoltiamo questi ideali, queste inquietudini dei giovani, e con la faccia da sapientoni diciamo: “Pensa così perché è giovane; presto maturerà”, o peggio: “si corromperà”. Ed è così, dietro il “presto maturerà”, contro queste illusioni e sogni, si nasconde il tacito “presto si corromperà”. Attenti a questo! Maturare vuol dire crescere e far crescere i sogni e far crescere le aspirazioni, non abbassare la guardia e lasciarsi comprare per due soldi, questo non è maturare. Quindi, quando noi adulti pensiamo questo, non ascoltateci. Sembra che in questo “presto maturerà” detto da noi grandi, sembra che vi buttiamo addosso una coperta bagnata per farvi tacere, sembra nascondersi il fatto che maturare voglia dire accettare le ingiustizie, credere che non possiamo fare nulla, che tutto è sempre stato così: “Perché dobbiamo cambiare, se è sempre stato così, se si è sempre fatto così?” Questo è corruzione. Maturare, la vera maturità significa portare avanti i sogni, le vostre aspirazioni, insieme, confrontandosi reciprocamente, discutendo tra di voi, ma sempre guardando avanti, non abbassando la guardia, non vendendo queste aspirazioni. E’ chiaro? [gridano: “Sì!”]
Tenendo conto di tutta questa realtà dei giovani, ecco perché si sta realizzando… [si interrompe perché una ragazza si sente male]… Aspettiamo un minutino che prendano questa nostra sorella che si è sentita male e la accompagniamo con una piccola preghiera perché si rimetta subito… Per questa realtà di voi giovani, vorrei annunciarvi che ho convocato il Sinodo sulla fede e il discernimento in voi giovani, e inoltre l’Incontro dei giovani. Perché il Sinodo lo facciamo noi vescovi, riflettendo sui giovani, ma, sapete, io ho paura dei filtri, perché a volte le opinioni dei giovani per arrivare a Roma devono passare attraverso varie connessioni e queste proposte possono arrivare molto filtrate, non dalle compagnie aeree, ma da quelli che le trascrivono. Per questo voglio ascoltare i giovani, e per questo si fa questo Incontro dei giovani, incontro in cui voi sarete protagonisti: giovani di tutto il mondo, giovani cattolici e giovani non cattolici; giovani cristiani e di altre religioni; e giovani che non sanno se credono o non credono: tutti. Per ascoltarli, per ascoltarci, direttamente, perché è importante che voi parliate, che non vi lasciate mettere a tacere. A noi spetta aiutarvi perché siate coerenti con quello che dite, questo è il lavoro con cui vi possiamo aiutare; ma se voi non parlate, come potremo aiutarvi? E parlate con coraggio, e dite quello che pensate. Questo dunque lo potrete fare nella settimana di incontro prima della Domenica delle Palme, in cui verranno [a Roma] delegazioni di giovani da tutto il mondo, per aiutarci a far sì che la Chiesa abbia un volto giovane.
Una volta, recentemente, una persona mi ha detto: “Io non so se parlare della Santa Madre Chiesa – parlava di un luogo specifico – o della Santa Nonna Chiesa!”. No, no, la Chiesa deve avere un volto giovane, e in questo voi ci dovete aiutare. Però, naturalmente, un volto giovane reale, pieno di vita, non giovane perché truccato con creme che ringiovaniscono, no, questo non serve, ma giovane perché dal profondo del cuore si lascia interpellare. Ed è questo di cui noi, la Santa Madre Chiesa, oggi ha bisogno da parte vostra: che ci interpelliate. E poi, preparatevi per la risposta; ma noi abbiamo bisogno che ci interpelliate, la Chiesa ha bisogno che voi diventiate maggiorenni, spiritualmente maggiorenni, e abbiate il coraggio di dirci: “Questo mi piace; questa strada mi sembra sia quella da fare; questo non va bene, questo non è un ponte ma è un muro”, e così via. Diteci quello che sentite, quello che pensate, e questo elaboratelo tra di voi nei gruppi di questo incontro, e poi questo andrà al Sinodo, dove certamente ci sarà una vostra rappresentanza, ma il Sinodo lo faranno i vescovi con la vostra rappresentanza, che raccoglierà tutti. E quindi preparatevi a questo incontro, e a quelli che andranno a questo incontro date le vostre idee, le vostre aspettative, quello che sentite nel cuore. Quanto ha bisogno di voi la Chiesa, e la Chiesa cilena, per “scuoterci” e aiutarci ad essere più vicini a Gesù! Questo è ciò che vi chiediamo: di scuoterci se siamo statici, di aiutarci a essere più vicini a Gesù. Le vostre domande, il vostro voler sapere, voler essere generosi esigono da noi che siamo più vicini a Gesù. Tutti siamo chiamati, sempre di nuovo, ad essere vicini a Gesù. Se un’attività, un piano pastorale, se questo incontro non ci aiuta a essere più vicini a Gesù, abbiamo perso tempo, abbiamo perso un pomeriggio, ore di preparazione. Aiutateci a essere più vicini a Gesù. E questo lo chiediamo a chi ci può condurre per mano. Guardiamo alla Madre [rivolto alla statua della Vergine]: ognuno nel proprio cuore le dica con le sue parole, a lei che è la prima discepola, che ci aiuti a essere più vicini a Gesù. Dal cuore, ognuno personalmente.
E permettetemi di raccontarvi un aneddoto. Parlando un giorno con un giovane gli ho chiesto che cosa potesse metterlo di cattivo umore: “Che cosa ti mette di cattivo umore?” – perché il contesto era tale per poter fare questa domanda. E lui mi ha detto: “Quando al cellulare si scarica la batteria o quando perdo il segnale internet”. Gli ho chiesto: “Perché?”. Mi ha risposto: “Padre, è semplice, mi perdo tutto quello che succede, resto fuori dal mondo, come appeso. In quei momenti, vado di corsa a cercare un caricabatterie o una rete wi-fi e la password per riconnettermi”. Quella risposta mi ha insegnato, mi ha fatto pensare che con la fede può succederci la stessa cosa. Siamo tutti entusiasti, la fede si rinnova – un ritiro, una predica, un incontro, la visita del Papa – la fede cresce, ma dopo un primo tempo di cammino e di slancio iniziale, ci sono momenti in cui, senza accorgerci, comincia a calare la nostra “larghezza di banda”, a poco a poco, e quell’entusiasmo, quel voler rimanere connessi con Gesù si incomincia a perdere, e iniziamo a restare senza connessione, senza batteria, e allora ci prende il cattivo umore, diventiamo sfiduciati, tristi, senza forza, e incominciamo a vedere tutto negativo. Quando rimaniamo senza questa “connessione” che è quella che dà vita ai nostri sogni, il cuore inizia a perdere forza, a restare anch’esso senza carica e, come dice quella canzone, «il rumore intorno e la solitudine della città ci isolano da tutto. Il mondo che si capovolge cerca di immergermi in esso annegando le mie idee»[1]. Vi è successo qualche volta? Ognuno risponda dentro di sé…, non voglio far vergognare quelli a cui non è successo… A me è successo.
Senza connessione, senza la connessione con Gesù, senza questa connessione finiamo per annegare le nostre idee, annegare i nostri sogni, annegare la nostra fede e dunque ci riempiamo di malumore. Da protagonisti – quali siamo e vogliamo essere – possiamo arrivare a pensare che è lo stesso fare qualcosa o non farlo. “Ma perché perdi tempo? – dice il giovane pessimista – divertiti, lascia perdere, tutte queste cose sappiamo come vanno a finire, il mondo non cambia, prendilo come viene a vai avanti…”. E rimaniamo disconnessi da ciò che sta accadendo nel “mondo”. E restiamo, sentiamo che restiamo “fuori dal mondo”, nel mio piccolo mondo dove sto tranquillo, lì, sul mio divano… Mi preoccupa quando, perdendo il “segnale”, molti pensano di non avere niente da dare e rimangono come persi. “Su, tu hai qualcosa da dare!” – “No, no, questo è un disastro… Io cerco di studiare, prendere un diploma, sposarmi, e poi basta, non voglio problemi, tanto tutto finisce male…”. Questo è quando si perde la connessione. Non pensare mai che non hai niente da dare o che non hai bisogno di nessuno. Molta gente ha bisogno di te, pensaci. Ognuno di voi lo pensi nel suo cuore: molta gente ha bisogno di me. Quel pensiero, come amava dire Hurtado, «è il consiglio del diavolo» – “nessuno ha bisogno di me” -, che vuole farti credere che non vali nulla… ma per lasciare le cose come stanno. Per questo ti fa credere che non vali niente: perché nulla cambi. Perché l’unico che può fare un cambiamento nella società è il giovane, uno di voi. Noi, siamo già “dall’altra parte”… [Un altro giovane sviene] Grazie, tra parentesi, perché questi svenimenti sono segno di quello che provano molti di voi… Da quanto tempo siete qui? Me lo dite? [alcuni rispondono] Grazie! Tutti, dicevo, siamo importanti e tutti abbiamo qualcosa da dare… con un momentino di silenzio ognuno di voi si può chiedere, seriamente, nel proprio cuore: “Che cosa ho io da dare nella vita?”. E quanti di voi hanno voglia di dire: “Non lo so”. Non sai che cosa hai da dare? Lo hai dentro e non lo conosci. Cerca di trovarlo in fretta per darlo. Il mondo ha bisogno di te, la patria ha bisogno di te, la società ha bisogno di te. Tu hai qualcosa da dare. Non perdere la connessione.
I giovani del Vangelo che abbiamo ascoltato oggi volevano quel “segnale, cercavano quel segnale che li aiutasse a mantenere vivo il fuoco nei loro cuori. Quei giovani, che stavano con Giovanni il Battista, volevano sapere come caricare la batteria del cuore. Andrea e l’altro discepolo – che non dice il nome, e possiamo pensare che quell’altro discepolo può essere ognuno di noi – cercavano la password per connettersi con Colui che è «Via, Verità e Vita» (Gv 14,6). Erano guidati da Giovanni il Battista. E penso che voi abbiate un grande santo che può guidarvi, un santo che cantava con la sua vita: «Contento, Signore, contento!». Hurtado aveva una regola d’oro, una regola per accendere il suo cuore con quel fuoco capace di mantenere viva la gioia. Perché Gesù è quel fuoco che infiamma chi gli si avvicina.
E la password di Hurtado per riconnettersi, per mantenere il segnale era molto semplice… Di sicuro nessuno di voi ha portato il telefono… vediamo… Mi piacerebbe che la appuntaste sui vostri cellulari. Se volete, io ve la detto. Hurtado si domanda – e questa è la password –: “Cosa farebbe Cristo al mio posto?”. Chi può se la segni. “Cosa farebbe Cristo al mio posto?”. Cosa farebbe Cristo al mio posto a scuola, all’università, per strada, a casa, cogli amici, al lavoro; davanti a quelli che fanno i bulli: “Cosa farebbe Cristo al mio posto?”. Quando andate a ballare, quando fate sport o andate allo stadio: “Cosa farebbe Cristo al mio posto?”. Questa è la password. Questa è la carica per accendere il nostro cuore, accendere la fede e la scintilla nei nostri occhi. Che non vada via. Questo è essere protagonisti della storia. Occhi scintillanti perché abbiamo scoperto che Gesù è fonte di vita e di gioia. Protagonisti della storia, perché vogliamo contagiare quella scintilla in tanti cuori spenti, opachi, che hanno dimenticato cosa significa sperare; in tanti che sono apatici e aspettano che qualcuno li inviti e li provochi con qualcosa che valga la pena. Essere protagonisti è fare ciò che ha fatto Gesù. Lì dove sei, con chiunque ti trovi e a qualsiasi ora: “Cosa farebbe Gesù al mio posto?”. Avete memorizzato la password? [rispondono: “Sì!”] E l’unico modo per non dimenticare la password è usarla, altrimenti ci succede – chiaramente è più per quelli della mia età, non della vostra, però così lo sapete – quello capitò a quei tre pazzi di quel film che fanno un colpo, una rapina a una cassaforte, tutto studiato, e quando arrivano… si sono dimenticati la combinazione, si sono dimenticati la chiave. Se non usate la password la dimenticherete. Memorizzatela nel cuore! Com’era la password? [rispondono: “Cosa farebbe Cristo al mio posto?”]… Non si sente bene in spagnolo… Com’era? [la ripetono] Questa è la password. Ripetetela, ma usatela, usatela! Cosa farebbe Cristo al mio posto? E bisogna usarla tutti i giorni. Verrà il momento in cui la saprete a memoria; e verrà il giorno in cui, senza che ve ne rendiate conto, arriverà il giorno in cui, senza rendervene conto, il cuore di ognuno di voi batterà come il cuore di Gesù.
Non basta ascoltare un insegnamento religioso o imparare una dottrina; quello che vogliamo è vivere come Gesù ha vissuto. Cosa farebbe Cristo al mio posto? Tradurre Gesù nella mia vita. Per questo i giovani del Vangelo gli chiedono: «Signore, dove abiti?»[2] – lo abbiamo ascoltato poco fa -, come vivi? Io lo chiedo a Gesù? Vogliamo vivere come Gesù, questo sì che fa vibrare il cuore.
Fa vibrare il cuore e ti mette sulla strada del rischio. Correre il rischio, rischiare. Cari amici, siate coraggiosi, andate spediti incontro ai vostri amici, a quelli che non conoscete o che si trovano in un momento difficile.
E andate con l’unica promessa che abbiamo: in mezzo al deserto, alla strada, all’avventura, ci sarà sempre la “connessione”, esisterà un “caricabatterie”. Non saremo soli. Sempre godremo della compagnia di Gesù e di sua Madre e di una comunità. Certamente una comunità che non è perfetta, ma ciò non significa che non abbia molto da amare e da offrire agli altri. Com’era la password? [rispondono: “Cosa farebbe Cristo al mio posto?”] Bene, la ricordate ancora.
Cari amici, cari giovani, «siate voi – ve lo chiedo per favore – siate voi i giovani samaritani che non lasciano mai nessuno a terra lungo la strada. Nel cuore, un’altra domanda: qualche volta ho lasciato qualcuno a terra per la strada? Un parente, un amico, un’amica…? Siate samaritani, non abbandonate mai l’uomo a terra lungo la strada. Siate i giovani cirenei che aiutano Cristo a portare la sua croce e condividono la sofferenza dei fratelli. Siate come Zaccheo che trasformò il suo nanismo spirituale in grandezza e lasciò che Gesù trasformasse il suo cuore materialista in un cuore solidale. Siate come la giovane Maddalena, appassionata cercatrice dell’amore, che solo in Gesù trova le risposte di cui ha bisogno. Abbiate il cuore di Pietro, per lasciare le reti in riva al lago. Abbiate l’affetto di Giovanni, per riporre in Gesù tutti i vostri affetti. Abbiate la disponibilità di nostra Madre, la prima discepola, per cantare con gioia e fare la sua volontà»[3].
Cari amici, mi piacerebbe rimanere più a lungo. Quelli che hanno il telefono, lo prendano in mano: è un segno, per non dimenticarsi della password. Qual era la password? [rispondono: “Cosa farebbe Cristo al mio posto?”]. E così vi riconnettete e non rimanete senza campo. Mi piacerebbe rimanere di più. Grazie per questo incontro e per la vostra gioia. Grazie! E vi chiedo per favore di non dimenticarvi di pregare per me.
[1] La Ley, Aquí.
[2] Gv 1,38.
[3] Card. Raúl Silva Henríquez, Mensaje a los jóvenes (7 ottobre 1979).
Visita alla Pontificia Università Cattolica del Cile (Santiago, 17 gennaio)
Sono contento di trovarmi con voi in questa Casa di Studio che, nei suoi quasi 130 anni di vita, ha offerto un servizio inestimabile al Paese. Ringrazio il Signor Rettore per le sue parole di benvenuto a nome di tutti. E inoltre ringrazio Lei, Signor Rettore, per il bene che fa con il Suo stile “sapianziale” nel governo dell’Università e nel difendere con coraggio l’identità dell’università cattolica. Grazie!
La storia di questa Università si intreccia, in un certo modo, con la storia del Cile. Sono migliaia gli uomini e le donne che, formatisi qui, hanno svolto compiti importanti per lo sviluppo della patria. Vorrei ricordare in particolare la figura di San Alberto Hurtado, in quest’anno centenario da quando egli cominciò i suoi studi qui. La sua vita diventa una chiara testimonianza di come l’intelligenza, l’eccellenza accademica e la professionalità nell’operare, armonizzate con la fede, la giustizia e la carità, lungi dall’essere sminuite, acquistano una forza che è profezia, capace di aprire orizzonti e illuminare il cammino, soprattutto per gli scartati dalla società, soprattutto oggi, quando è in voga questa cultura dello scarto.
Parlare di sfide è ammettere che ci sono situazioni che hanno raggiunto un punto che richiede un ripensamento. Ciò che fino a ieri poteva essere un fattore di unità e coesione, oggi esige nuove risposte. Il ritmo accelerato e l’avvio quasi vertiginoso di alcuni processi e cambiamenti che si impongono nelle nostre società ci invitano in modo sereno, ma senza indugio, a una riflessione che non sia ingenua, utopistica e ancor meno volontaristica. Il che non significa frenare lo sviluppo della conoscenza, ma fare dell’università uno spazio privilegiato «per praticare la grammatica del dialogo che forma all’incontro»[1]. Poiché «la vera sapienza [è] frutto della riflessione, del dialogo e dell’incontro generoso fra le persone»[2].
La convivenza nazionale è possibile – tra le altre cose – nella misura in cui diamo vita a processi educativi che sono anche trasformatori, inclusivi e di convivenza. Educare alla convivenza non significa solo aggiungere valori al lavoro educativo, ma generare una dinamica di convivenza all’interno del sistema educativo stesso. Non è tanto una questione di contenuti, ma di insegnare a pensare e ragionare in modo integrante. Quello che i classici chiamavano forma mentis.
E per raggiungere ciò è necessario sviluppare una alfabetizzazione integrale, che sappia adattare i processi di trasformazione che avvengono all’interno delle nostre società.
Un tale processo di alfabetizzazione richiede di lavorare contemporaneamente all’integrazione delle diverse lingue che ci costituiscono come persone, ossia un’educazione (alfabetizzazione) che integri e armonizzi l’intelletto, gli affetti e l’azione, ovvero la testa, il cuore e le mani. Ciò offrirà e consentirà agli studenti a crescere in maniera armonica non solo a livello personale ma, contemporaneamente, a livello sociale. È urgente creare spazi in cui la frammentazione non sia lo schema dominante, nemmeno del pensiero; per questo è necessario insegnare a pensare ciò che si sente e si fa; a sentire ciò che si pensa e si fa; a fare ciò che si pensa e si sente. Un dinamismo di capacità al servizio della persona e della società.
L’alfabetizzazione, basata sull’integrazione dei diversi linguaggi che ci costituiscono, coinvolgerà gli studenti nel loro processo educativo, processo di fronte alle sfide che il prossimo futuro presenterà loro. Il “divorzio” dei saperi e dei linguaggi, l’analfabetismo su come integrare le diverse dimensioni della vita, non produce altro che frammentazione e rottura sociale.
In questa società liquida[3] o leggera[4], come alcuni pensatori l’hanno definita, vanno scomparendo i punti di riferimento a partire dai quali le persone possono costruirsi individualmente e socialmente. Sembra che oggi la “nuvola” sia il nuovo punto di incontro, caratterizzato dalla mancanza di stabilità poiché tutto si volatilizza e quindi perde consistenza.
E tale mancanza di consistenza potrebbe essere una delle ragioni della perdita di consapevolezza dello spazio pubblico. Uno spazio che richiede un minimo di trascendenza sugli interessi privati (vivere di più e meglio), per costruire su basi che rivelino quella dimensione importante della nostra vita che è il “noi”. Senza quella consapevolezza, ma soprattutto senza quel sentimento e quindi senza quella esperienza è e sarà molto difficile costruire la nazione, e dunque sembrerebbe che sia importante e valido solo ciò che riguarda l’individuo, mentre tutto ciò che rimane al di fuori di questa giurisdizione diventa obsoleto. Una cultura di questo tipo ha perso la memoria, ha perso i legami che sostengono e rendono possibile la vita. Senza il “noi” di un popolo, di una famiglia, di una nazione e, nello stesso tempo, senza il “noi” del futuro, dei bambini e di domani; senza il “noi” di una città che “mi” trascenda e sia più ricca degli interessi individuali, la vita sarà non solo sempre più frammentata ma anche più conflittuale e violenta.
L’Università, in questo senso, vive la sfida di generare, all’interno del proprio stesso ambito, le nuove dinamiche che superino ogni frammentazione del sapere e stimolino una vera universitas.
2. Progredire in comunità
Da qui, il secondo elemento molto importante per questa casa di studio: la capacità di progredire in comunità.
Mi ha rallegrato sapere dello sforzo evangelizzatore e della gioiosa vitalità della vostra pastorale universitaria, segno di una Chiesa giovane, viva e “in uscita”. Le missioni che realizzate tutti gli anni in diverse parti del Paese sono un punto forte e molto arricchente. In queste occasioni, voi riuscite ad allargare l’orizzonte del vostro sguardo e ad entrare in contatto con varie situazioni che, aldilà dell’evento specifico, vi lasciano mobilitati. Il “missionario” – nel senso etimologico della parola – infatti non ritorna mai dalla missione uguale a prima; sperimenta il passaggio di Dio nell’incontro con tanti volti, che non conosceva, che non gli erano familiari oppure che gli erano lontani.
Queste esperienze non possono rimanere isolate dal percorso universitario. I metodi classici di ricerca sperimentano certi limiti, tanto più quando si tratta di una cultura come la nostra che stimola la partecipazione diretta e istantanea dei soggetti. La cultura attuale richiede nuove forme capaci di includere tutti gli attori che danno vita alla realtà sociale e quindi educativa. Da qui l’importanza di ampliare il concetto di comunità educativa.
La comunità deve affrontare la sfida di non rimanere isolata da [nuove] forme di conoscenza; come pure di non costruire conoscenza al margine dei destinatari della stessa. È necessario che l’acquisizione della conoscenza sia in grado di generare un’interazione tra l’aula e la sapienza dei popoli che costituiscono questa terra benedetta. Una sapienza carica di intuizioni, di “odori”, che non si possono ignorare quando si pensa al Cile. Così si produrrà quella sinergia così arricchente tra rigore scientifico e intuizione popolare. La stretta interazione reciproca impedisce il divorzio tra la ragione e l’azione, tra il pensare e il sentire, tra il conoscere e il vivere, tra la professione e il servizio. La conoscenza deve sempre sentirsi al servizio della vita e confrontarsi con essa per poter continuare a progredire. Di conseguenza, la comunità educativa non si può limitare ad aule e biblioteche, ma deve tendere continuamente alla partecipazione. Un tale dialogo può essere condotto solo da un episteme capace di assumere una logica plurale, quella cioè che fa propria l’interdisciplinarità e l’interdipendenza del sapere. «In questo senso, è indispensabile prestare speciale attenzione alle comunità aborigene con le loro tradizioni culturali. Non sono una semplice minoranza tra le altre, ma piuttosto devono diventare i principali interlocutori, soprattutto nel momento in cui si procede con grandi progetti che interessano i loro spazi»[5].
La comunità educativa porta in sé un numero infinito di possibilità e potenzialità quando si lascia arricchire e interpellare da tutti gli attori che compongono la realtà educativa. Ciò richiede uno sforzo maggiore in termini di qualità e di integrazione. Infatti, il servizio universitario deve sempre puntare ad essere di qualità e di eccellenza poste al servizio della convivenza nazionale. Potremmo dire che l’università diventa un laboratorio per il futuro del Paese, perché sa incorporare in sé la vita e il cammino del popolo superando ogni logica antagonistica ed elitaria del sapere.
Un’antica tradizione cabalistica racconta che l’origine del male si trova nella scissione prodotta dall’essere umano quando mangiò dell’albero della scienza del bene e del male. In questo modo, la conoscenza acquistò un primato sulla Creazione, sottoponendola ai propri schemi e desideri[6]. Sarà la tentazione latente in ogni ambito accademico, quella di ridurre la Creazione ad alcuni schemi interpretativi, privandola del Mistero che le è proprio e che ha spinto generazioni intere a cercare ciò che è giusto, buono, bello e vero. E quando il professore, per la sua sapienza, diventa “maestro” allora è in grado di risvegliare la capacità di stupore nei nostri studenti. Stupore davanti a un mondo e un universo da scoprire!
Oggi la missione che vi è affidata risulta profetica. Siete chiamati a generare processi che illuminino la cultura attuale proponendo un umanesimo rinnovato che eviti di cadere in ogni tipo di riduzionismi di qualunque tipo. E questa profezia che ci viene chiesta ci spinge a cercare spazi sempre nuovi di dialogo più che di scontro; spazi di incontro più che di divisione; strade di amichevole discrepanza, perché ci si differenzia con rispetto tra persone che camminano cercando lealmente di progredire in comunità verso una rinnovata convivenza nazionale.
E, se lo chiederete, non dubito che lo Spirito Santo guiderà i vostri passi affinché questa Casa continui a dare frutti per il bene del Popolo del Cile e per la Gloria di Dio.
Vi ringrazio ancora per questo incontro, e vi chiedo per favore di non dimenticarvi di pregare per me.
[1] Discorso alla Plenaria della Congregazione per l’Educazione Cattolica
[2] Lett. enc. Laudato si’, 47.
[3] Cfr Zygmunt Bauman, Modernidad líquida, 1999.
[4] Cfr Gilles Lipovetsky, De la ligereza, 2016.
[5] Lettera enc. Laudato si’, 146.
[6] Cfr Gershom Scholem, La mystique juive, Paris 1985, 86.
Santa Messa nel Campus Lobito (Iquique, 18 gennaio)
«Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù» (Gv 2,11).
Così termina il Vangelo che abbiamo ascoltato, e che ci mostra la prima apparizione pubblica di Gesù: né più né meno che in una festa. Non potrebbe essere altrimenti, dal momento che il Vangelo è un costante invito alla gioia. Fin dall’inizio l’Angelo dice a Maria: «Rallegrati» (Lc 1,28). Rallegratevi, disse ai pastori; rallegrati, disse a Elisabetta, donna anziana e sterile…; rallegrati, fece sentire Gesù al ladrone, perché oggi sarai con me in paradiso (cfr Lc 23,43).
Il messaggio del Vangelo è fonte di gioia: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv15,11). Una gioia che si propaga di generazione in generazione e della quale siamo eredi. Perché siamo cristiani.
Come sapete bene questo, voi, cari fratelli del nord cileno! Come sapete vivere la fede e la vita in un clima di festa! Vengo come pellegrino a celebrare con voi questo modo bello di vivere la fede. Le vostre feste patronali, i vostri balli religiosi – che si prolungano anche per una settimana –, la vostra musica, i vostri vestiti fanno di questa zona un santuario di pietà e di spiritualità popolare. Perché non è una festa che rimane chiusa all’interno del tempio, ma voi riuscite a rivestire a festa tutto il villaggio. Voi sapete celebrare cantando e danzando «la paternità, la provvidenza, la presenza amorosa e costante di Dio; e in questo modo generate atteggiamenti interiori raramente osservati altrove al medesimo grado in chi non possiede questa religiosità: pazienza, senso della croce nella vita quotidiana, distacco, apertura agli altri, devozione».[1] Prendono vita le parole del profeta Isaia: «Allora il deserto diventerà un giardino e il giardino sarà considerato una selva» (32,15). Questa terra, abbracciata dal deserto più arido del mondo, sa vestirsi a festa.
In questo clima di festa, il Vangelo ci presenta l’azione di Maria affinché la gioia prevalga. Lei è attenta a tutto quello che succede intorno e, come buona madre, non sta tranquilla e così si accorge che nella festa, nella gioia condivisa, stava accadendo qualcosa: c’era qualcosa che stava per “annacquare” la festa. E accostandosi a suo Figlio, le uniche parole che le sentiamo dire sono: «Non hanno vino» (Gv 2,3).
E così Maria va per i nostri villaggi, per le vie, le piazze, le case, gli ospedali. Maria è la Virgen de la Tirana; la Virgen Ayquina a Calama; la Virgen de las Peñas ad Arica, che passa per tutti i nostri problemi familiari, quelli che sembrano soffocarci il cuore, per accostarsi all’orecchio di Gesù e dirgli: vedi, «non hanno vino».
E poi non rimane zitta, si avvicina agli inservienti della festa e dice loro: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (Gv 2,5). Maria, donna di poche parole, ma molto concreta, si avvicina anche ad ognuno di noi per dirci solamente: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». E in questo modo si apre la strada al primo miracolo di Gesù: far sentire ai suoi amici che anch’essi partecipano al miracolo. Perché Cristo «è venuto in questo mondo non per fare la sua opera da solo, ma con noi; il miracolo lo fa con noi, con tutti noi, per essere il capo di un grande corpo le cui cellule vive siamo noi: libere e attive».[2] Così Gesù fa il miracolo: con noi.
Il miracolo comincia quando gli inservienti avvicinano le anfore dell’acqua che erano destinate alla purificazione. Così anche ognuno di noi può cominciare il miracolo, di più, ognuno di noi è invitato a partecipare al miracolo per gli altri.
Fratelli, Iquique è una “terra di sogni” (questo significa il nome in lingua aymara
Questa terra è terra di sogni, ma facciamo in modo che continui a essere anche terra di ospitalità. Ospitalità festosa, perché sappiamo bene che non c’è gioia cristiana quando si chiudono le porte; non c’è gioia cristiana quando si fa sentire agli altri che sono di troppo o che tra di noi non c’è posto per loro (cfr Lc 16,31).
Come Maria a Cana, cerchiamo di imparare ad essere attenti nelle nostre piazze e nei nostri villaggi e riconoscere coloro che hanno una vita “annacquata”; che hanno perso – o ne sono stati derubati – le ragioni per celebrare. E non abbiamo paura di alzare le nostre voci per dire: «Non hanno vino». Il grido del popolo di Dio, il grido del povero, che ha forma di preghiera e allarga il cuore e ci insegna ad essere attenti. Siamo attenti a tutte le situazioni di ingiustizia e alle nuove forme di sfruttamento che espongono tanti fratelli a perdere la gioia della festa. Siamo attenti di fronte alla precarizzazione del lavoro che distrugge vite e famiglie. Siamo attenti a quelli che approfittano dell’irregolarità di molti migranti, perché non conoscono la lingua o non hanno i documenti in regola. Siamo attenti alla mancanza di casa, terra e lavoro di tante famiglie. E come Maria diciamo: non hanno vino.
Come i servi della festa, portiamo quello che abbiamo, per quanto sembri poco. Come loro, non abbiamo paura a “dare una mano”, e che la nostra solidarietà e il nostro impegno per la giustizia facciano parte del ballo e del canto che oggi possiamo intonare a nostro Signore. Approfittiamo anche per imparare e lasciarci impregnare dai valori, dalla sapienza e dalla fede che i migranti portano con sé. Senza chiuderci a quelle “anfore” piene di sapienza e di storia che portano quanti continuano ad arrivare in queste terre. Non priviamoci di tutto il bene che hanno da offrire.
E poi, lasciamo che Gesù possa completare il miracolo, trasformando le nostre comunità e i nostri cuori in segno vivo della sua presenza, che è gioiosa e festosa perché abbiamo sperimentato che Dio-è-con-noi, perché abbiamo imparato a ospitarlo in mezzo a noi, nel nostro cuore. Gioia e festa contagiosa che ci porta a non escludere nessuno dall’annuncio di questa Buona Notizia, e a trasmetterla. Tutto quello che è della nostra cultura originaria, dobbiamo condividerlo con la nostra tradizione, con la nostra sapienza ancestrale perché colui che venga incontri sapienza. Questa è la festa. Questa è acqua trasformata in vino. Questo è il miracolo che fa Gesù.
Maria, coi diversi titoli con cui è invocata in questa benedetta terra del nord, continui a sussurrare all’orecchio del suo Figlio Gesù: «Non hanno vino», e in noi continuino a farsi carne le sue parole: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela».
Al termine di questa celebrazione, desidero ringraziare Mons. Guillermo Vera Soto, Vescovo di Iquique, per le gentili parole che mi ha rivolto a nome dei fratelli Vescovi e di tutto il popolo di Dio. Ed ecco che ci salutiamo.
Ringrazio, ancora una volta, la Signora Presidente Michelle Bachelet per l’invito a visitare il Paese. Esprimo in modo speciale la mia gratitudine a tutti coloro che hanno reso possibile questa visita; alle autorità civili e, tra loro, ad ogni funzionario che con professionalità ha contribuito affinché tutti potessimo godere di questo tempo di incontro.
Grazie anche per il lavoro sacrificato e silenzioso di migliaia di volontari: più di 20 mila volontari! Senza il loro impegno e la loro collaborazione sarebbero mancate le anfore d’acqua perché il Signore potesse fare il miracolo del vino della gioia. Grazie a coloro che in molti modi e forme hanno accompagnato questo pellegrinaggio specialmente con la preghiera. Conosco il sacrificio che hanno dovuto fare per partecipare alle celebrazioni e agli incontri. Lo apprezzo e ne ringrazio di cuore. Grazie ai membri della commissione organizzatrice. Tutti hanno lavorato, mille grazie!
Proseguo il mio pellegrinaggio in Perù. Popolo amico e fratello di questa Patria Grande di cui siamo invitati ad avere cura e che dobbiamo difendere. Una Patria che trova la sua bellezza nel volto multiforme dei suoi popoli.
Cari fratelli, in ogni Eucaristia diciamo: «Guarda [Signore] la fede della tua Chiesa e donale unità e pace secondo la tua volontà». Che cosa posso augurarvi di più che terminare la mia visita dicendo al Signore: Guarda la fede di questo popolo e donagli unità e pace.
Vi ringrazio, e vi chiedo di non dimenticarvi di pregare per me.
E voglio ringraziare per la presenza di tanti pellegrini dei popoli fratelli della Bolivia, del Perù e – non siate gelosi – specialmente per la presenza degli argentini, perché l’Argentina è la mia patria! Grazie ai miei fratelli argentini che mi hanno accompagnato a Santiago, a Temuco e qui a Iquique. Grazie tante!
[Benedizione]
[1] Paolo VI, Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 48.
[2] Sant’Alberto Hurtado, Meditación Semana Santa para jóvenes (1946).