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Discorsi nel viaggio in Colombia

-Saluto del Papa ai giornalisti sul volo verso Bogotà (6 settembre)

GREG BURKE:

Santo Padre, benvenuto. Uno, una volta, mi ha chiesto se Lei fa la conferenza stampa sia all’andata sia al ritorno. Io ho detto: “Non ancora”. Non credo che vorrà cambiare oggi…

PAPA:

No, no…

GREG BURKE:

No, bene. Però forse qualche saluto, sì…

PAPA:

Buongiorno e grazie per la compagnia, per questo lavoro che voi farete per accompagnarmi in questo viaggio, che è un po’ speciale perché è un viaggio anche per aiutare la Colombia ad andare avanti nel suo cammino di pace. E vi chiedo una preghiera per questo durante il viaggio. E grazie di tutto quello che voi farete.

E inoltre vorrei dire che nel volo sorvoleremo il Venezuela. E dunque, una preghiera anche per il Venezuela, perché vi si possa fare il dialogo e il Paese trovi una bella stabilità, mediante il dialogo con tutti. Grazie per il vostro lavoro!

– Incontro con le Autorità nella Plaza de Armas della Casa de Nariño (Bogotà – 7 settembre)

Signor Presidente, Membri del Governo della Repubblica e del Corpo Diplomatico, Distinte Autorità, Rappresentanti della società civile, Signore e Signori!

Saluto cordialmente il Signor Presidente della Colombia, Dottor Juan Manuel Santos, e lo ringrazio per il suo gentile invito a visitare questa Nazione in un momento particolarmente importante della sua storia; saluto i membri del Governo della Repubblica e del Corpo Diplomatico. E, in voi, Rappresentanti della società civile, desidero salutare affettuosamente tutto il popolo colombiano, in questi primi momenti del mio Viaggio Apostolico.

Vengo in Colombia sulle orme dei miei Predecessori, il beato Paolo VI e san Giovanni Paolo II, e come loro mi muove il desiderio di condividere con i miei fratelli colombiani il dono della fede, che tanto fortemente si è radicato in queste terre, e la speranza che palpita nel cuore di tutti. Solo così, con fede e speranza, si possono superare le numerose difficoltà del cammino e costruire un Paese che sia Patria e casa per tutti i colombiani.

La Colombia è una Nazione benedetta in moltissimi modi; la natura prodiga non solo lascia ammirati per la sua bellezza, ma invita anche ad aver cura con rispetto della sua biodiversità. La Colombia è il secondo Paese del mondo per biodiversità e, percorrendolo, si può gustare e vedere com’è stato buono il Signore (cfr Sal 33,9) a regalarvi una così immensa varietà di flora e fauna nelle sue selve piovose, nelle sue lande, nel Chocó, nei faraglioni di Cali e nelle montagne come quelle della Macarena e in tanti altri luoghi. Ugualmente esuberante è la sua cultura; e, ciò che è più importante, la Colombia è ricca per la qualità umana della sua gente, uomini e donne di spirito accogliente e buono; persone tenaci e coraggiose per superare gli ostacoli.

Questo incontro mi offre l’opportunità di esprimere l’apprezzamento per gli sforzi compiuti, negli ultimi decenni, per porre fine alla violenza armata e trovare vie di riconciliazione. Nell’ultimo anno certamente si è progredito in modo particolare; i passi avanti fanno crescere la speranza, nella convinzione che la ricerca della pace è un lavoro sempre aperto, un compito che non dà tregua e che esige l’impegno di tutti. Lavoro che ci chiede di non venir meno nello sforzo di costruire l’unità della nazione e, malgrado gli ostacoli, le differenze e i diversi approcci sul modo di raggiungere la convivenza pacifica, persistere nella lotta per favorire la cultura dell’incontro, che esige di porre al centro di ogni azione politica, sociale ed economica la persona umana, la sua altissima dignità, e il rispetto del bene comune. Che questo sforzo ci faccia rifuggire da ogni tentazione di vendetta e ricerca di interessi solo particolari e a breve termine. Poco fa abbiamo udito cantare: “…percorrere il cammino ha bisogno del suo tempo”… Un lungo termine. Quanto più difficile è il cammino che conduce alla pace e all’intesa, tanto più impegno dobbiamo mettere nel riconoscere l’altro, sanare le ferite e costruire ponti, nello stringere legami e aiutarci a vicenda (cfr Esort. ap.  Evangelii gaudium, 67).

Il motto di questo Paese recita: «Libertà e Ordine». In queste due parole è racchiuso tutto un insegnamento. I cittadini devono essere stimati nella loro libertà e protetti con un ordine stabile. Non è la legge del più forte, ma la forza della legge, quella che è approvata da tutti, a reggere la convivenza pacifica. Occorrono leggi giuste che possano garantire tale armonia e aiutare a superare i conflitti che hanno distrutto questa Nazione per decenni; leggi che non nascono dall’esigenza pragmatica di ordinare la società bensì dal desiderio di risolvere le cause strutturali della povertà che generano esclusione e violenza. Solo così si guarisce da una malattia che rende fragile e indegna la società e la lascia sempre sulla soglia di nuove crisi. Non dimentichiamo che l’ingiustizia è la radice dei mali sociali (cfr   ibid., 202).

In questa prospettiva, vi incoraggio a rivolgere lo sguardo a tutti coloro che oggi sono esclusi ed emarginati dalla società, quelli che non contano per la maggioranza e sono tenuti indietro e in un angolo. Tutti siamo necessari per creare e formare la società. Questa non si fa solo con alcuni di “sangue puro”, ma con tutti. E qui sta la grandezza e la bellezza di un Paese: nel fatto che tutti sono accolti e tutti sono importanti; come questi bambini, che con la loro spontaneità hanno voluto rendere questo protocollo molto più umano. Quindi, tutti siamo importanti. Nella diversità sta la ricchezza. Penso a quel primo viaggio di san Pietro Claver da Cartagena fino a Bogotá solcando il [fiume] Magdalena: la sua meraviglia è la nostra. Ieri e oggi, fissiamo lo sguardo sulle diverse etnie e gli abitanti delle zone più remote, sui contadini. La fissiamo sui più deboli, su quanti sono sfruttati e maltrattati, su quelli che non hanno voce perché ne sono stati privati, o non l’hanno avuta, o non è loro riconosciuta. Fissiamo lo sguardo anche sulla donna, sul suo apporto, il suo talento, il suo essere “madre” nei suoi diversi compiti. La Colombia ha bisogno di tutti per aprirsi al futuro con speranza.

La Chiesa, fedele alla sua missione, è impegnata per la pace, la giustizia e il bene comune. E’ consapevole che i principi evangelici costituiscono una dimensione significativa del tessuto sociale colombiano e per questo possono contribuire molto alla crescita del Paese; in modo speciale il sacro rispetto della vita umana, soprattutto la più debole e indifesa, è una pietra angolare nella costruzione di una società libera dalla violenza. Inoltre, non possiamo non mettere in risalto l’importanza sociale della famiglia, sognata da Dio come il frutto dell’amore degli sposi, «luogo dove si impara a convivere nella differenza e ad appartenere ad altri» (ibid., 66). E, per favore, vi chiedo di ascoltare i poveri, quelli che soffrono. Guardateli negli occhi e lasciatevi interrogare in ogni momento dai loro volti solcati di dolore e dalle loro mani supplicanti. Da loro si imparano autentiche lezioni di vita, di umanità, di dignità. Perché loro, che gemono in catene, comprendono le parole di colui che morì sulla croce – come recita il vostro inno nazionale.

Signore e Signori, avete dinanzi a voi una bella e nobile missione, che è al tempo stesso un difficile compito. Risuona nel cuore di ogni colombiano lo spirito del gran compatriota Gabriel García Marquez: «Tuttavia, davanti all’oppressione, il saccheggio e l’abbandono, la nostra risposta è la vita. Né diluvi né pestilenze, né fame né cataclismi, e nemmeno le guerre infinite lungo secoli e secoli hanno potuto ridurre il tenace vantaggio della vita sulla morte. Un vantaggio che aumenta e accelera». E’ dunque possibile – continua lo scrittore – «una nuova e travolgente utopia della vita, dove nessuno possa decidere per gli altri persino il modo di morire, dove davvero sia certo l’amore e sia possibile la felicità, e dove le stirpi condannate a cent’anni di solitudine abbiano infine e per sempre una seconda opportunità sulla terra» (Discorso in occasione del Premio Nobel, 1982).

Molto è il tempo passato nell’odio e nella vendetta… La solitudine di stare sempre gli uni contro gli altri si conta ormai a decenni e sa di cent’anni; non vogliamo che qualsiasi tipo di violenza restringa o annulli ancora una sola vita. E ho voluto venire fino a qui per dirvi che non siete soli, che siamo tanti a volervi accompagnare in questo passo; questo viaggio vuole essere un incitamento per voi, un contributo che spiani un po’ il cammino verso la riconciliazione e la pace.

Siete presenti nelle mie preghiere. Prego per voi, per il presente e per il futuro della Colombia. Grazie.

– Benedizione ai fedeli dal balcone del Palazzo Cardinalizio (Bogotà – 7 settembre)

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Vi saluto con grande gioia e vi ringrazio per il caloroso benvenuto. «In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi» (Lc 10,5-6).

Oggi entro in questa casa che è la Colombia dicendovi: “La pace sia con voi!”. [Rispondono: “E con il tuo spirito”] Questa era l’espressione di saluto di ogni ebreo e anche di Gesù. Ho desiderato venire fin qui come pellegrino di pace e di speranza, e desidero vivere questi momenti di incontro con gioia, ringraziando Dio per tutto il bene che ha compiuto in questa Nazione, nella vita di ogni persona.

Vengo anche per imparare; sì, imparare da voi, dalla vostra fede, dalla vostra fortezza di fronte alle avversità. Voi sapete che il vescovo, il sacerdote devono imparare dal loro popolo: per questo io vengo a imparare, a imparare da voi. Sono vescovo, ma vengo a imparare. Avete vissuto momenti difficili e bui, però il Signore è vicino a voi, nel cuore di ogni figlio e figlia di questo Paese. Lui non è selettivo, non esclude nessuno, il Signore abbraccia tutti; e tutti – ascoltate! – tutti siamo importanti e necessari per Lui. Durante questi giorni vorrei condividere con voi la verità più importante: che Dio ci ama con amore di Padre e vi incoraggia a continuare a cercare e a desiderare la pace, quella pace che è autentica e duratura. Dio ci ama con amore di Padre. Ripetiamo insieme: “Dio ci ama con amore di Padre”. Grazie!

Bene. Io avevo scritto qui: “Vedo qui molti giovani”. Ma anche se avessi gli occhi bendati so che questa bella confusione la possono fare solo i giovani! Bene… voi giovani – adesso mi rivolgo a voi – siete venuti da ogni parte del Paese: cachacos (originari di Bogotá), costeños (abitanti della costa), paisas (della regione di Antioquia, Caldas, Risaralda e Quindío), vallunos (dalla Valle del Cauca) e llaneros (dalle pianure). Per me è sempre motivo di gioia incontrarmi con i giovani. In questo giorno vi dico: per favore, tenete viva la gioia, perché è segno del cuore giovane, del cuore che ha incontrato il Signore. E se voi mantenete viva questa gioia con Gesù, nessuno ve la può togliere, nessuno (cfr Gv 16,22)! Ma, nel dubbio, vi consiglio: non lasciatevela rubare, abbiate cura di tale gioia che tutto unifica nel sapersi amati dal Signore. Perché, come abbiamo detto all’inizio, Dio ci ama… com’era? [rispondono: “Dio ci ama con cuore di Padre”]. Di nuovo! [rispondono: “Dio ci ama con cuore di Padre”]. E questo è il principio della gioia. Il fuoco dell’amore di Cristo rende traboccante questa gioia ed è sufficiente per incendiare il mondo intero. Che cosa dunque potrebbe impedirvi di cambiare questa società, come volete fare? Non temete il futuro! Osate sognare grandi cose! A questo grande sogno, oggi vi voglio invitare. Per favore, non fate cose “terra terra”, no: volate in alto e sognate grandi cose!

Voi giovani avete una speciale sensibilità per riconoscere la sofferenza degli altri; è interessante: voi vi rendete conto subito. Il volontariato del mondo intero si nutre di migliaia di voi che siete capaci di mettere a disposizione il vostro tempo, di rinunciare alle vostre comodità, a progetti centrati su voi stessi, per lasciarvi commuovere dalle necessità dei più fragili e dedicarvi a loro. Ma può anche succedere che siete nati in ambienti dove la morte, il dolore, la divisione sono penetrate tanto a fondo da lasciarvi quasi nauseati e come anestetizzati dal dolore: per questo vi voglio dire: lasciate che le sofferenze dei vostri fratelli colombiani vi facciano muovere! E aiutate noi anziani a non abituarci al dolore e all’abbandono. Abbiamo bisogno di voi, aiutateci a non abituarci al dolore e all’abbandono.

Anche voi, ragazzi e ragazze, che vivete in ambienti complessi, con realtà diverse e situazioni familiari le più varie, vi siete abituati a vedere che nel mondo non tutto è bianco o nero; che la vita quotidiana si risolve in un’ampia gamma di differenti tonalità di grigio, è vero. Però questo vi può esporre al rischio: al rischio di cadere in un’atmosfera di relativismo, mettendo in disparte quella potenzialità che hanno i giovani di comprendere il dolore di coloro che hanno sofferto. Voi avete la capacità non solo di giudicare, di segnalare errori, perché ve ne rendete conto subito, ma anche quell’altra capacità bella e costruttiva:  quella di comprendere. Comprendere che anche dietro un errore – poiché dobbiamo parlarci chiaro: l’errore è errore e non bisogna mascherarlo –, voi siete capaci di comprendere che anche dietro un errore c’è un’infinità di ragioni, di attenuanti. Quanto ha bisogno di voi la Colombia per mettersi nei panni di quelli che molte generazioni fa non hanno potuto o saputo farlo, o non azzeccarono il modo giusto per riuscire a comprendere!

A voi, giovani, risulta molto facile incontrarsi. Vi è facile incontrarvi. E qui ho una domanda: qui vi siete incontrati tutti, da che ora siete qui?… [rispondono] Vedete, che siete coraggiosi? Per voi è molto facile incontrarvi: vi basta, per incontrarvi, un avvenimento come questo, un buon caffè, una bibita o qualunque cosa come pretesto per far nascere l’incontro. Perché qualunque cosa è un pretesto per un incontro. I giovani si ritrovano nella musica, nell’arte… Persino una finale, una partita tra l’Atlético Nacional e l’América di Cali diventa occasione per stare insieme! Voi, avete questa facilità di incontrarvi, e per questo potete insegnarci, a noi grandi, che la cultura dell’incontro non significa pensare, vivere o reagire tutti nello stesso modo, no, non è questo. La cultura dell’incontro significa sapere che al di là delle nostre differenze siamo tutti parte di qualcosa di grande che ci unisce e ci trascende, siamo parte di questo meraviglioso Paese. Aiutateci a entrare in pieno, noi grandi, in questa cultura dell’incontro che voi praticate così bene!

Inoltre, la vostra giovinezza vi rende anche capaci di qualcosa di molto difficile nella vita: perdonare. Perdonare coloro che ci hanno ferito; è notevole vedere come voi non vi lasciate invischiare da vecchie storie, come guardate in modo strano quando noi adulti ripetiamo fatti di divisione semplicemente perché siamo attaccati a dei rancori. Voi ci aiutate in questo intento di lasciarci alle spalle quello che ci ha offeso, nel guardare avanti senza l’ostacolo dell’odio, perché voi ci fate vedere tutta la realtà che abbiamo davanti, tutta la Colombia che desidera crescere e continuare a svilupparsi; quella Colombia che ha bisogno di tutti e che noi anziani dobbiamo consegnare a voi.

E precisamente per questa capacità di perdonare [voi giovani] affrontate l’enorme sfida di aiutarci a risanare il nostro cuore. Ascoltate quello che vi chiedo: aiutarci a guarire il nostro cuore. Lo diciamo tutti insieme? [lo ripetono] E’ un aiuto che vi chiedo: di contagiarci con la giovanile speranza, la speranza che è sempre disposta a concedere agli altri una seconda opportunità. Gli ambienti di disperazione e incredulità fanno ammalare l’anima, ambienti in cui non si trovano vie d’uscita ai problemi, anzi, dove si boicottano quelli che cercano di trovarle, e danneggiano la speranza di cui ogni comunità ha bisogno per andare avanti. Che le vostre aspirazioni e progetti diano ossigeno alla Colombia e la riempiano di salutari utopie. Giovani, sognate, muovetevi, sappiate rischiare, guardate la vita con un sorriso nuovo, andate avanti! Non abbiate paura!

Solo così troverete il coraggio di scoprire il Paese che si nasconde dietro le montagne: quello che va oltre i titoli dei giornali e non rientra nelle preoccupazioni quotidiane perché è tanto lontano. Quel Paese che non si vede e che fa parte di questo corpo sociale che ha bisogno di noi: voi giovani siete capaci di scoprire la Colombia profonda. I cuori dei giovani sono stimolati davanti alle grandi sfide. Quanta bellezza naturale da contemplare senza necessità di sfruttarla! Quanti giovani come voi hanno bisogno della vostra mano tesa, della vostra spalla per intravedere un futuro migliore!

Oggi ho voluto vivere questo momento con voi; sono sicuro che in voi c’è il potenziale necessario per costruire – costruire! – la nazione che abbiamo sempre sognato. I giovani sono la speranza della Colombia e della Chiesa; nel loro camminare e nei loro passi scorgiamo quelli di Gesù, Messaggero della Pace, di Colui che sempre ci porta buone notizie.

Mi rivolgo ora a tutti voi, cari fratelli e sorelle di questo amato Paese: bambini, giovani, adulti e anziani, voi che desiderate essere portatori di speranza; che le difficoltà non vi opprimano, che la violenza non vi abbatta, che il male non vi vinca. Crediamo che Gesù, con il suo amore e la sua misericordia che rimangono per sempre, ha vinto il male, ha vinto il peccato e la morte. Lo ripetiamo? [ripetono] Basta solo andargli incontro. Andate incontro a Gesù! Vi invito all’impegno – non al risultato compiuto – all’impegno. A cosa vi invito? [rispondono: “all’impegno”] E cos’è che non dovete aspettarvi? [rispondono: “il risultato compiuto”] Bene, congratulazioni! Allora, prendetevi questo impegno per il rinnovamento della società, perché sia giusta, stabile, feconda. Da questo luogo, vi incoraggio a confidare nel Signore, che è l’unico che ci sostiene, l’unico che ci incoraggia per poter contribuire alla riconciliazione e alla pace.

Vi abbraccio tutti e ciascuno, tutti quelli che siete qui, i malati, i più poveri, gli emarginati, i bisognosi, gli anziani, quelli che sono a casa… tutti; tutti siete nel mio cuore. E prego Dio che vi benedica. E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie mille!

Prima di andarmene, se voi volete, vi do la benedizione. Preghiamo tutti insieme la Vergine: “Ave Maria…”.

[Benedizione]

Arrivederci!

– Incontro con i Vescovi nel salone del Palazzo Cardinalizio (Bogotà – 7 settembre)

La pace sia con voi

Così il Risorto salutò il suo piccolo gregge dopo aver vinto la morte; e così consentitemi di salutarvi in questo modo all’inizio del mio viaggio.

Vi ringrazio per le parole di benvenuto. Sono contento perché i primi passi che compio in questo Paese mi portano a incontrare voi, Vescovi della Colombia, per abbracciare in voi tutta la Chiesa colombiana e per stringere la vostra gente al mio cuore di Successore di Pietro. Vi ringrazio moltissimo per il vostro ministero episcopale, che vi prego di continuare ad esercitare con rinnovata generosità. Rivolgo un particolare saluto ai Vescovi emeriti, incoraggiandoli a continuare a sostenere, con la preghiera e con la presenza discreta, la Sposa di Cristo alla quale si sono generosamente donati.

Vengo per annunciare Cristo e per compiere nel suo nome un cammino di pace e di riconciliazione. Cristo è la nostra pace! Egli ci ha riconciliati con Dio e tra di noi!

Sono convinto che la Colombia abbia qualcosa di originale, qualcosa di molto originale che richiama fortemente l’attenzione: non è mai stata una meta completamente realizzata, né una destinazione totalmente raggiunta, né un tesoro totalmente posseduto. La sua ricchezza umana, le sue abbondanti risorse naturali, la sua cultura, la sua luminosa sintesi cristiana, il patrimonio della sua fede e la memoria dei suoi evangelizzatori, la gioia spontanea e senza riserve della sua gente, l’impagabile sorriso della sua gioventù, la sua originale fedeltà al Vangelo di Cristo e alla sua Chiesa e, soprattutto, il suo indomabile coraggio di resistere alla morte, non solo annunciata, ma molte volte seminata: tutto questo viene sottratto – come fa il fiore della mimosa nel giardino, che ha come un pudore – diciamo che si nasconde, a quelli che si presentano come stranieri bramosi di soggiogarla, di dominarla, mentre, all’opposto, si offre generosamente a chi tocca il suo cuore con la mansuetudine del pellegrino. La Colombia è così.

Per questo, come pellegrino, mi rivolgo alla vostra Chiesa. Sono vostro fratello, desideroso di condividere Cristo Risorto, per il quale nessun muro è eterno, nessuna paura è indistruttibile, nessuna piaga è incurabile.

Non sono il primo Papa che vi parla nella vostra casa. Due dei miei più grandi predecessori sono stati ospiti qui: il beato Paolo VI, che venne poco dopo la conclusione del Concilio Vaticano II per incoraggiare l’attuazione collegiale del mistero della Chiesa in America Latina; e san Giovanni Paolo II nella sua memorabile visita apostolica del 1986. Le parole di ambedue sono una risorsa permanente, le indicazioni che delinearono e la stupenda sintesi che offrirono sul nostro ministero episcopale costituiscono un patrimonio da custodire. Non sono “invecchiati”. Vorrei che quanto vi dico venga recepito in continuità con quello che essi hanno insegnato.

Custodi e sacramento del primo passo

«Fare il primo passo» è il motto della mia visita e anche per voi questo è il mio primo messaggio. Sapete bene che Dio è il Signore del primo passo. Egli ci anticipa sempre. Tutta la Sacra Scrittura parla di Dio come esiliato da Sé stesso per amore. E’ stato così quando vi erano solo tenebre, caos e, uscendo da Sé, Egli fece in modo che tutto venisse ad essere (cfr Gen 1,1 – 2,4); è stato così quando Egli passeggiava nel giardino delle origini, e si accorse della nudità della sua creatura (cfr Gen 3,8-9); è stato così quando, pellegrino, Egli sostò nella tenda di Abramo, lasciandogli la promessa di una insperata fecondità (cfr Gen 18,1-10); è stato così quando si presentò a Mosè affascinandolo, quando non aveva più altro orizzonte che quello di pascolare le pecore di suo suocero (cfr Es 3,1-2); è stato così quando non tolse lo sguardo dalla sua amata Gerusalemme, neppure quando si prostituiva sul marciapiede dell’infedeltà (cfr Ez 16,15); è stato così quando emigrò con la sua gloria verso il suo popolo esiliato nella schiavitù (cfr Es 10,18-19).

E, nella pienezza del tempo, Egli volle rivelare il vero nome del primo passo, del suo primo passo. Si chiama Gesù ed è un passo irreversibile. Proviene dalla libertà di un amore che tutto precede. Perché il Figlio, Egli stesso, è la vivente espressione di tale amore. Coloro che lo riconoscono e lo accolgono ricevono in eredità il dono di essere introdotti nella libertà di poter compiere sempre in Lui questo primo passo, non hanno paura di perdersi se escono da sé stessi, perché possiedono la garanzia dell’amore che promana dal primo passo di Dio, una bussola che impedisce loro di perdersi.

Custodite dunque, con santo timore e con commozione, quel primo passo di Dio verso di voi e, per mezzo del vostro ministero, verso la gente che vi è stata affidata, nella consapevolezza di essere voi stessi sacramento vivente di quella libertà divina che non ha paura di uscire da sé stessa per amore, che non teme di impoverirsi mentre si dona, che non ha necessità di altra forza che l’amore.

Dio ci precede, siamo tralci e non siamo la vite. Pertanto, non fate tacere la voce di Colui che ci ha chiamati, e non pensate che siano la somma delle vostre povere virtù o le lusinghe dei potenti di turno ad assicurare il risultato della missione che Dio vi ha affidato. Al contrario, mendicate, mendicate nella preghiera quando non potete né dare, né darvi, perché abbiate qualcosa da offrire a quelli che si accostano costantemente al vostro cuore di Pastori. La preghiera nella vita del Vescovo è la linfa vitale che passa attraverso la vite, senza la quale il tralcio marcisce diventando infecondo. Pertanto, lottate con Dio, e più ancora nella notte della sua assenza, finché Egli non vi benedica (cfr Gen 32,25-27). Le ferite di questa quotidiana e prioritaria battaglia nella preghiera saranno fonte di risanamento per voi; sarete feriti da Dio per diventare capaci di curare.

Rendere visibile la vostra identità di sacramento del primo passo di Dio

Di fatto, rendere tangibile l’identità di sacramento del primo passo di Dio, esigerà un continuo esodo interiore. «Non vi è infatti invito più efficace ad amare che essere primi nell’amare» (Agostino, De cat. rud., I, 4.7, 26: PL 40), e, pertanto, nessun ambito della missione episcopale può prescindere da questa libertà di compiere il primo passo. La condizione di possibilità per l’esercizio del ministero apostolico è la disposizione ad avvicinarsi a Gesù lasciando alle spalle «ciò che siamo stati, perché possiamo essere ciò che non eravamo»(Id., En. in ps., 121,12: PL 36).

Vi raccomando di vigilare non solo individualmente ma anche collegialmente, docili allo Spirito Santo, su questo permanente punto di partenza. Senza questo nucleo i lineamenti del Maestro illanguidiscono sul volto dei discepoli, la missione si blocca e diminuisce la conversione pastorale, che non è altro che dare risposta all’urgenza dell’annuncio del Vangelo della gioia oggi, domani e il giorno seguente (cfr Lc 13,33), zelo che consumò il Cuore di Gesù lasciandolo senza nido né riparo, dedito unicamente al compimento  fino alla fine della volontà del Padre (cfr Lc 9,58.62). Quale altro futuro possiamo perseguire? A quale altra dignità possiamo aspirare?

Non misuratevi con il metro di quelli che vorrebbero che foste solo una casta di funzionari piegati alla dittatura del presente. Abbiate invece sempre fisso lo sguardo nell’eternità di Colui che vi ha scelti, pronti ad accogliere il decisivo giudizio delle sue labbra.

Nella complessità del volto di questa Chiesa colombiana, è molto importante preservare la singolarità delle sue differenti e legittime forze, le sensibilità pastorali, le peculiarità regionali, le memorie storiche, le ricchezze delle peculiari esperienze ecclesiali. La Pentecoste permette che tutti ascoltino nella propria lingua. Per tale ragione, cercate con perseveranza la comunione tra voi. Non stancatevi di costruirla attraverso il dialogo franco e fraterno, condannando come la peste i progetti nascosti. Siate solleciti nel compiere il primo passo l’uno verso l’altro. Anticipatevi nella disponibilità a comprendere le ragioni dell’altro. Lasciatevi arricchire da quello che l’altro può offrirvi e costruite una Chiesa che offra a questo Paese una testimonianza eloquente di quanto si può progredire quando si è disposti a non rimanere nelle mani di pochi. Il ruolo delle Provincie Ecclesiastiche in rapporto allo stesso messaggio di evangelizzazione è fondamentale, perché sono diverse e armonizzate le voci che lo proclamano. Per questo, non accontentatevi di un mediocre impegno minimo, che lasci i rassegnati nella tranquilla quiete della loro impotenza, mentre al tempo stesso placa quelle speranze che avrebbero bisogno del coraggio di essere riposte più sulla forza di Dio che sulla propria debolezza.

Riservate una particolare sensibilità per le radici afro-colombiane della vostra gente, che tanto generosamente hanno contribuito a disegnare il volto di questa terra.

Toccare la carne del corpo di Cristo

Vi invito a non avere paura di toccare la carne ferita della vostra storia e della storia della vostra gente. Fatelo con umiltà, senza la vana pretesa di protagonismo e con il cuore indiviso, libero da compromessi o servilismi. Solo Dio è il Signore e la nostra anima di Pastori non si deve sottomettere a nessun’altra causa.

La Colombia ha bisogno del vostro sguardo, lo sguardo proprio, tipico di Vescovi, per sostenerla nel coraggio del primo passo verso la pace definitiva, la riconciliazione, verso il ripudio della violenza come metodo, il superamento delle disuguaglianze che sono la radice di tante sofferenze, la rinuncia alla strada facile ma senza uscita della corruzione, il paziente e perseverante consolidamento della res publica, che richiede il superamento della miseria e della disuguaglianza.

Si tratta ovviamente di un compito arduo ma irrinunciabile: la strada è ripida e le soluzioni non sono ovvie. Dall’altezza di Dio, che è la croce del suo Figlio, otterrete la forza; con l’umile lucina degli occhi del Risorto percorrerete la via; ascoltando la voce dello Sposo che sussurra al cuore, riceverete i criteri per discernere di nuovo, in ogni incertezza, la giusta direzione.

Uno dei vostri illustri letterati scrisse parlando di uno dei suoi mitici personaggi: «Non immaginavo che fosse più facile iniziare una guerra che concluderla» (Gabriel García Márquez, Cent’anni di solitudine, cap. 9). Tutti sappiamo che la pace esige dagli uomini un coraggio morale diverso. La guerra deriva da quanto di più basso c’è nel nostro cuore, la pace invece ci spinge ad essere più grandi di noi stessi. Poi, lo scrittore aggiungeva: «Non pensavo che ci sarebbero volute tante parole per spiegare quello che si provava nella guerra, in realtà ne bastava una sola: paura» (ibid., cap. 10). Non è necessario che vi parli di tale paura, di questa radice avvelenata, frutto amaro e nefasta eredità di ogni conflitto. Desidero incoraggiarvi a continuare a credere che si può agire diversamente, ricordando che non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura; lo stesso Spirito testimonia che siete figli destinati alla libertà della gloria ad essi riservata (cfr Rm 8,15-16).

Voi vedete con i vostri occhi e conoscete come pochi la deformazione del volto di questo Paese, siete custodi degli elementi fondamentali che lo rendono uno, nonostante le sue lacerazioni. Proprio per questo, la Colombia ha bisogno di voi per riconoscersi nel suo vero volto carico di speranza malgrado le sue imperfezioni, per perdonarsi reciprocamente nonostante le ferite non del tutto cicatrizzate, per credere che si può percorrere un’altra strada anche quando l’inerzia spinge a ripetere gli stessi errori, per avere il coraggio di superare quanto può renderla miserabile nonostante i suoi tesori.

Vi incoraggio – questo lo sento come un dovere, mi viene dall’anima, sento di dirlo –, abbiate il coraggio – voglio proprio trasmettervi questo coraggio –, vi incoraggio a non stancarvi di fare di ciascuna delle vostre Chiese un grembo di luce, capace di generare le nuove creature di cui questa terra ha bisogno. Rifugiatevi nell’umiltà della vostra gente per rendervi conto delle loro segrete risorse umane e di fede, ascoltate quanto la loro spogliata umanità brama grazie alla dignità che soltanto il Risorto può conferire. Non abbiate paura di migrare dalle vostre apparenti certezze alla ricerca della vera gloria di Dio, che è l’uomo vivente. Coraggio! Vi incoraggio in questo cammino.

La parola della riconciliazione

Molti possono contribuire alla sfida di questa Nazione, ma la vostra missione è peculiare. Voi non siete tecnici né politici, siete Pastori. Cristo è la parola di riconciliazione scritta nei vostri cuori e avete la forza di poterla pronunciare non solo sui pulpiti, nei documenti ecclesiali o negli articoli dei periodici, ma più ancora nel cuore delle persone, nel segreto santuario delle loro coscienze, nell’ardente speranza che li attira all’ascolto della voce del cielo che proclama: «Pace agli uomini, che Dio ama» (Lc 2,14). Voi dovete pronunciarla con la fragile, umile, ma invincibile risorsa della misericordia di Dio, l’unica capace di abbattere, di sconfiggere la cinica superbia dei cuori autoreferenziali.

Alla Chiesa non interessa altro che la libertà di pronunciare questa Parola, essere libera di pronunciare questa Parola. Non servono alleanze con una parte o con l’altra, bensì la libertà di parlare ai cuori di tutti. Proprio lì avete l’autonomia e il potere di inquietare, lì avete la possibilità di sostenere una inversione di rotta.

Il cuore umano, molte volte ingannato, concepisce l’insensato progetto di fare della vita un continuo aumento di spazi per depositare ciò che accumula. Ma è un inganno. Proprio qui è necessario che risuoni la domanda: A che serve guadagnare il mondo intero se rimane il vuoto nell’anima (cfr Mt 16,26)?

Dalle vostre labbra di legittimi Pastori di Cristo, quali siete, la Colombia ha il diritto di essere interpellata dalla verità di Dio, che ripete continuamente: «Dov’è tuo fratello?» (Gen 4,9). E’ un interrogativo che non può essere taciuto, nemmeno quando chi lo ascolta non può far altro che abbassare lo sguardo, confuso, e balbettare la propria vergogna per averlo venduto, magari al prezzo di qualche dose di stupefacente o un errato concetto di ragion di Stato, oppure per la falsa coscienza che il fine giustifica i mezzi.

Vi prego di tenere sempre lo sguardo fisso all’uomo concreto. Non servite un concetto di uomo, ma la persona umana amata da Dio, fatta di carne e ossa, storia, fede, speranza, sentimenti, delusioni, frustrazioni, dolori, ferite, e vedrete che questa concretezza dell’uomo smaschera le fredde statistiche, i calcoli manipolati, le strategie cieche, le informazioni distorte, ricordandovi che «in realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo» (Gaudium et spes, 22).

Una Chiesa in missione

Tenendo conto del generoso lavoro pastorale che già svolgete, permettetemi di presentarvi ora alcune ansie che porto nel mio cuore di Pastore, desideroso di esortarvi a essere sempre di più una Chiesa in missione. I miei Predecessori hanno già insistito su alcune di queste sfide: la famiglia, la vita, i giovani, i sacerdoti, le vocazioni, i laici, la formazione. Nei decenni scorsi, nonostante il grande lavoro, forse sono diventate ancora più faticose le risposte per rendere efficace la maternità della Chiesa nel generare, nutrire e accompagnare i suoi figli.

Penso alle famiglie colombiane, alla difesa della vita dal seno materno fino alla sua fine naturale, alla piaga della violenza e dell’alcolismo, non di rado diffusa nelle famiglie, alla fragilità del vincolo matrimoniale e l’assenza dei padri di famiglia con le sue tragiche conseguenze di insicurezza e orfanezza. Penso a tanti giovani minacciati dal vuoto dell’anima e presi dalla droga come via di uscita, o dallo stile di vita facile o dalla tentazione sovversiva. Penso ai numerosi e generosi sacerdoti e alla sfida di sostenerli nella fedele e quotidiana scelta per Cristo e per la Chiesa, mentre alcuni altri continuano a portare avanti la comoda neutralità di quelli che non scelgono nulla per rimanere soli con sé stessi. Penso ai fedeli laici sparsi in tutte le Chiese particolari, che resistono faticosamente nel lasciarsi radunare da Dio che è comunione, anche quando non pochi proclamano il nuovo dogma dell’egoismo e della morte di ogni solidarietà, parola che vogliono togliere dal dizionario. Penso all’immenso sforzo di tutti per approfondire la fede e renderla luce viva per i cuori e lampada per fare il primo passo.

Non vi porto ricette né veglio lasciarvi una lista di compiti. In fondo vorrei pregarvi che, realizzando in comunione la vostra gravosa missione di Pastori in Colombia, conserviate la serenità. Non so se dirvelo ora, però, se esagero, perdonatemi, ma mi viene in mente che questa è una virtù di cui c’è più bisogno: conservate la serenità. Non perché voi non l’abbiate, ma è che c’è bisogno di averne di più. Sapete bene che di notte il maligno continua a seminare zizzania, ma abbiate la pazienza del Padrone del campo, confidando nella buona qualità dei vostri semi. Imparate dalla sua longanimità e magnanimità. I suoi tempi sono lunghi perché è smisurato il suo sguardo d’amore. Quando l’amore è scarso, il cuore diventa impaziente, turbato dall’ansia di fare cose, divorato dalla paura di aver fallito. Credete soprattutto nell’umiltà del seme di Dio. Fidatevi della potenza nascosta del suo lievito. Orientate il cuore al fascino stupendo che attrae e fa vendere tutto pur di possedere quel tesoro divino.

In effetti, che cosa di più forte potete offrire alla famiglia colombiana della forza umile del Vangelo dell’amore generoso che unisce l’uomo e la donna, rendendoli immagine dell’unione di Cristo con la Chiesa, messaggeri e custodi della vita? Le famiglie hanno bisogno di sapere che in Cristo possono diventare alberi frondosi capaci di offrire ombra, di dare frutto in ogni stagione dell’anno, di ospitare la vita tra i loro rami. Sono molti oggi quelli che rendono omaggio ad alberi senza ombra, infecondi, a rami privi di nidi. Per voi, il punto di partenza sia la testimonianza gioiosa che la felicità sta altrove.

Che cosa potete offrire ai vostri giovani? Loro vogliono sentirsi amati, diffidano di quelli che li sottovalutano, chiedono coerenza limpida e aspettano di essere coinvolti. Accoglieteli, pertanto, con il cuore di Cristo e aprite loro spazi nella vita delle vostre Chiese. Non partecipate ad alcun negoziato che svenda le loro speranze. Non abbiate paura di alzare serenamente la voce per ricordare a tutti che una società che si lascia sedurre dal miraggio del narcotraffico trascina sé stessa in quella metastasi morale che mercanteggia l’inferno e semina dovunque la corruzione, e nello stesso tempo ingrassa i paradisi fiscali.

Che cosa potete dare ai vostri sacerdoti? Il primo dono è quello della vostra paternità, che assicuri che la mano che li ha generati e unti non sia ritirata dalla loro vita. Viviamo nell’era dell’informatica e non ci è difficile raggiungere i nostri sacerdoti in tempo reale con qualche programma di messaggi. Ma il cuore di un padre, di un Vescovo, non può limitarsi a comunicare col suo presbiterio in maniera precaria, impersonale ed esteriore. Non può lasciare il cuore del Vescovo la preoccupazione, la sana inquietudine su dove vivono i suoi sacerdoti. Vivono veramente secondo Gesù? O si sono improvvisati altre sicurezze come la stabilità economica, l’ambiguità morale, la doppia vita o l’aspirazione miope alla carriera? I sacerdoti hanno necessità, urgente e vitale, della vicinanza fisica e affettiva del loro Vescovo. Hanno bisogno di sentire che hanno un padre.

Sulle spalle dei sacerdoti pesa spesso la fatica del lavoro quotidiano della Chiesa. Essi sono in prima linea, continuamente circondati dalla gente che, abbattuta, cerca in loro il volto del Pastore. La gente si avvicina e bussa alla porta del loro cuore. Essi devono dare da mangiare alle folle e il cibo di Dio non è mai una proprietà di cui si può disporre senz’altro. Al contrario, proviene solamente dall’indigenza messa a contatto con la bontà divina. Congedare la folla e cibarsi del poco che si può indebitamente fare proprio è una tentazione permanente (cfr Lc 9,13).

Vigilate pertanto sulle radici spirituali dei vostri sacerdoti. Conduceteli continuamente a quella Cesarea di Filippo dove, dalle origini del Giordano di ciascuno, possano sentire nuovamente la domanda di Gesù: “Chi sono io per te?”. La

ragione del graduale deteriorarsi che molte volte porta alla morte del discepolo è sempre in un cuore che non può più rispondere: “Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio”  (cfr Mt 16,13-16). Da qui viene meno il coraggio della irreversibilità del dono di sé, e deriva anche il disorientamento interiore, la stanchezza di un cuore che non sa più accompagnare il Signore nel suo cammino verso Gerusalemme.

Curate specialmente, per favore, l’itinerario formativo dei sacerdoti, a partire dalla nascita della chiamata di Dio nei loro cuori. La nuova Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis, recentemente pubblicata, è una valida risorsa, ancora da applicare, affinché la Chiesa in Colombia sia all’altezza del dono di Dio che mai ha smesso di chiamare al sacerdozio tanti suoi figli.

Non trascurate, per favore, la vita dei consacrati e delle consacrate. Essi costituiscono lo schiaffo cherigmatico ad ogni mondanità e sono chiamati a bruciare qualsiasi riflusso di valori mondani nel fuoco delle beatitudini vissute sine glossa e nel totale abbassamento di sé stessi nel servizio. Per favore, non considerateli come “risorse utili” per le opere apostoliche; piuttosto, sappiate riconoscere in essi il grido dell’amore consacrato della Sposa: «Vieni, Signore Gesù» (Ap 22,20).

Riservate la stessa preoccupazione formativa ai laici, dai quali dipende non solo la solidità delle comunità di fede, ma gran parte della presenza della Chiesa negli ambiti della cultura, della politica, dell’economia. Formare nella Chiesa significa porsi in contatto con la fede vivente della Comunità viva, introdursi in un patrimonio di esperienze e di risposte suscitati dallo Spirito Santo, perché è Lui che insegna tutte le cose (cfr Gv 14,26).

E prima di concludere – è già un po’ lungo – un pensiero vorrei rivolgere alle sfide della Chiesa in Amazzonia, regione della quale siete giustamente orgogliosi, perché è parte essenziale della meravigliosa biodiversità di questo Paese. L’Amazzonia è per tutti noi una prova decisiva per verificare se la nostra società, quasi sempre ridotta al materialismo e al pragmatismo, è in grado di custodire ciò che ha ricevuto gratuitamente, non per saccheggiarlo, ma per renderlo fecondo. Penso soprattutto all’arcana sapienza dei popoli indigeni dell’Amazzonia e mi domando se siamo ancora capaci di imparare da essi la sacralità della vita, il rispetto per la natura, la consapevolezza che la ragione strumentale non è sufficiente per colmare la vita dell’uomo e rispondere alla ricerca profonda che lo interpella.

Per questo vi invito a non abbandonare a sé stessa la Chiesa in Amazzonia. Il rafforzamento, il consolidamento di un volto amazzonico per la Chiesa che qui è pellegrina è una sfida di tutti voi, che dipende dal crescente e consapevole appoggio missionario di tutte le diocesi colombiane e di tutto il suo clero. Ho ascoltato che in alcune lingue native amazzoniche per riferirsi alla parole “amico” si usa l’espressione “l’altro mio braccio”. Siate pertanto l’altro braccio dell’Amazzonia. La Colombia non la può amputare senza essere mutilata nel suo volto e nella sua anima.

Cari fratelli,

vi invito a rivolgerci spiritualmente a Nostra Signora del Rosario di Chiquinquirá, la cui immagine avete avuto la delicatezza di portare dal suo Santuario alla magnifica Cattedrale di questa città perché anch’io la potessi contemplare.

Come ben sapete, la Colombia non può dare a sé stessa il  Rinnovamento a cui aspira, senza che esso venga concesso dall’alto. Imploriamolo dunque dal Signore, per mezzo della Vergine.

Come a Chiquinquirá Dio ha rinnovato lo splendore del volto di sua Madre, Egli continui a illuminare con la sua luce celeste il volto di questo intero Paese e benedica la Chiesa in Colombia accompagnandola con la sua bontà, e benedica voi. Vi ringrazio per tutto quello che fate.

– Incontro con il Comitato Direttivo del CELAM nella Nunziatura Apostolica (Bogotà – 7 settembre)

Cari fratelli,

grazie per questo incontro e per le calorose parole di benvenuto del Presidente della Conferenza dell’Episcopato Latinoamericano. Avrei voluto incontrarvi nella sede del CELAM, ma non ho potuto per le esigenze del programma, molto fitto. Vi ringrazio per la cortesia di essere qui in questo momento.

Ringrazio per lo sforzo che fate per trasformare questa Conferenza Episcopale continentale in una casa di servizio della comunione e della missione della Chiesa in America Latina; in un centro propulsore della coscienza di discepoli e missionari; in un punto di riferimento vitale per la comprensione e l’approfondimento della “cattolicità latinoamericana”, delineata gradualmente da questo organismo di comunione durante decenni di servizio. E l’occasione mi è propizia per incoraggiare i recenti sforzi per poter esprimere tale sollecitudine collegiale mediante il “Fondo di Solidarietà della Chiesa Latinoamericana”.

Quattro anni fa, a Rio de Janeiro, ho avuto l’opportunità di parlarvi dell’eredità pastorale di Aparecida, ultimo evento sinodale della Chiesa Latinoamericana e dei Caraibi. In quella circostanza sottolineavo la permanente necessità di imparare dal suo metodo, basato essenzialmente sulla partecipazione delle Chiese locali e in sintonia con i pellegrini che camminano in cerca del volto umile di Dio che volle manifestarsi nella “Vergine pescata nelle acque”, e che si prolunga nella missione continentale, la quale vuol essere non la somma di iniziative programmatiche che riempiono le agende e disperdono anche energie preziose, bensì lo sforzo per porre la missione di Gesù nel cuore della Chiesa stessa, trasformandola in criterio per misurare l’efficacia delle strutture, i risultati del lavoro, la fecondità dei suoi ministri e la gioia che essi sono capaci di suscitare. Perché senza gioia non si attira nessuno.

Mi soffermai allora sulle tentazioni, ancora presenti, della ideologizzazione del messaggio evangelico, del funzionalismo ecclesiale e del clericalismo, perché c’è sempre in gioco la salvezza che Cristo ci porta. Questa deve arrivare al cuore dell’uomo con la forza di interpellare la sua libertà, invitandolo a un esodo permanente dalla propria autoreferenzialità verso la comunione con Dio e con i fratelli.

Dio, quando parla all’uomo in Gesù, non lo fa con un generico richiamo come a un estraneo, né con una convocazione impersonale alla maniera di un notaio, neanche con una dichiarazione di precetti da eseguire come fa qualsiasi funzionario del sacro. Dio parla con la voce inconfondibile del Padre che si rivolge al figlio, e rispetta il suo mistero perché lo ha formato con le sue stesse mani e lo ha destinato alla pienezza. La nostra più grande sfida come Chiesa è parlare all’uomo come portavoce di questa intimità di Dio, che lo considera un figlio, anche quando rinnega tale paternità, perché per Lui siamo sempre figli ritrovati.

Non si può, pertanto, ridurre il Vangelo a un programma al servizio di uno gnosticismo di moda, a un progetto di ascesa sociale o a una visione della Chiesa come burocrazia che si autopromuove, né tantomeno questa si può ridurre a un’organizzazione diretta, con moderni criteri aziendali, da una casta clericale.

La Chiesa è la comunità dei discepoli di Gesù; la Chiesa è Mistero e Popolo (Lumen gentium, 5; 9), o meglio ancora: in essa si realizza il Mistero attraverso il Popolo di Dio.

Perciò ho insistito sul discepolato missionario come una chiamata divina per questo oggi complesso e carico di tensioni, un “permanente uscire” con Gesù per conoscere come e dove vive il Maestro. E mentre usciamo in sua compagnia conosciamo la volontà del Padre, che sempre ci attende. Solo una Chiesa Sposa, Madre, Serva, che ha rinunciato alla pretesa di controllare quello che non è opera sua ma di Dio, può rimanere con Gesù anche quando il suo nido e il suo rifugio è la croce.

Vicinanza e incontro sono gli strumenti di Dio che, in Cristo, si è avvicinato e ci ha incontrato sempre. Il mistero della Chiesa è realizzarsi come sacramento di questa divina vicinanza e luogo permanente di questo incontro. Da qui la necessità della vicinanza del Vescovo a Dio, perché in Lui si trova la fonte della libertà e della forza del cuore del Pastore, così come della vicinanza al Popolo Santo che gli è stato affidato. In questa vicinanza l’anima dell’apostolo impara a rendere tangibile la passione di Dio per i suoi figli.

Aparecida è un tesoro la cui scoperta è ancora incompleta. Sono sicuro che ognuno di voi scopre quanto si è radicata la sua ricchezza nelle Chiese che portate nel cuore. Come i primi discepoli mandati da Gesù nel suo progetto missionario, anche noi possiamo raccontare con entusiasmo “tutto quanto abbiamo fatto” (cfr Mc 6,30).

Tuttavia, è necessario stare attenti. Le realtà indispensabili della vita umana e della Chiesa non sono mai un monumento ma un patrimonio vivo. Risulta molto più comodo trasformarle in ricordi di cui si celebrano gli anniversari – 50 anni di Medellín!, 20 di Ecclesia in America!, 10 di Aparecida! Invece è un’altra cosa: custodire e fare scorrere la ricchezza di tale patrimonio (pater-munus) costituiscono il munus della nostra paternità episcopale verso la Chiesa del nostro Continente.

Sapete bene che la rinnovata consapevolezza che all’inizio di tutto c’è sempre l’incontro con Cristo vivo richiede che i discepoli coltivino la familiarità con Lui; diversamente il volto del Signore si offusca, la missione perde forza, la conversione pastorale retrocede. Pregare e coltivare il rapporto con Lui è, pertanto, l’attività più improrogabile della nostra missione pastorale.

Ai suoi discepoli entusiasti della missione compiuta, Gesù disse: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto» (Mc 6,31). Noi abbiamo ancora più bisogno di questo “stare soli con il Signore” per ritrovare il cuore della missione della Chiesa in America Latina nelle attuali circostanze. C’è tanta dispersione interiore e anche esteriore! I numerosi eventi, la frammentazione della realtà, l’istantaneità e la velocità del presente, potrebbero farci cadere nella dispersione e nel vuoto. Ritrovare l’unità è un imperativo.

Dove si trova l’unità? Sempre in Gesù. Ciò che rende permanente la missione non è l’entusiasmo che infiamma il cuore generoso del missionario, benché sempre necessario; piuttosto è la compagnia di Gesù mediante il suo Spirito. Se non partiamo con Lui in missione, ben presto perderemo la strada, rischiando di confondere le nostre vane necessità con la sua causa. Se la ragione del nostro andare non è Lui, sarà facile scoraggiarsi in mezzo alla fatica del cammino, o di fronte alla resistenza dei destinatari della missione, o davanti ai mutevoli scenari delle circostanze che segnano la storia, o per la stanchezza dei piedi dovuta all’insidioso logorio provocato dal “nemico”.

Non fa parte della missione cedere allo scoraggiamento, quando forse, passato l’entusiasmo degli inizi, arriva il momento in cui toccare la carne di Cristo diventa molto duro. In una situazione come questa, Gesù non fomenta le nostre paure. E poiché sappiamo bene che da nessun altro possiamo andare perché solo Lui ha «parole di vita eterna» (Gv 6,68), è necessario di conseguenza approfondire la nostra chiamata.

Che cosa significa concretamente andare con Gesù in missione oggi in America Latina? L’avverbio “concretamente” non è un dettaglio stilistico, ma appartiene al nucleo della domanda. Il Vangelo è sempre concreto, mai un esercizio di sterili speculazioni. Conosciamo bene la ricorrente tentazione di perdersi nel bizantinismo dei “dottori della legge”, di domandarsi fino a che punto si può arrivare senza perdere il controllo del proprio territorio delimitato o del presunto potere che i limiti garantiscono.

Molto si è detto circa “la Chiesa in stato permanente di missione”. Uscire, partire con Gesù è la condizione di questa realtà. Uscire, sì, ma con Gesù. Il Vangelo parla di Gesù che, essendo uscito dal Padre, percorre con i suoi i campi e i villaggi di Galilea. Non si tratta di un percorso inutile del Signore. Mentre cammina, incontra; quando incontra, si avvicina; quando si avvicina, parla; quando parla, tocca col suo potere; quando tocca, cura e salva. Condurre al Padre coloro che incontra è la meta del suo  permanente uscire, sul quale dobbiamo riflettere continuamente e fare un esame di coscienza. La Chiesa deve riappropriarsi dei verbi che il Verbo di Dio coniuga nella sua missione divina. Uscire per incontrare, senza passare oltre; chinarsi senza noncuranza; toccare senza paura. Si tratta di mettersi giorno per giorno nel lavoro sul campo, lì dove vive il Popolo di Dio che vi è stato affidato. Non ci è lecito lasciarci paralizzare dall’aria condizionata degli uffici, dalle statistiche e dalle strategie astratte. Bisogna rivolgersi alla persona nella sua situazione concreta; da essa non possiamo distogliere lo sguardo. La missione si realizza sempre in un corpo a corpo.

Una Chiesa capace di essere sacramento di unità

Si vede tanta dispersione intorno a noi! E non mi riferisco solamente a quella della ricca diversità che ha sempre caratterizzato il continente, ma alle dinamiche di disgregazione. Bisogna stare attenti a non farsi prendere da queste trappole. La Chiesa non sta in America Latina come se avesse le valige in mano, pronta a partire dopo averla saccheggiata, come hanno fatto tanti nel corso del tempo. Quanti operano così guardano con senso di superiorità e disprezzo il suo volto meticcio; pretendono di colonizzare la sua anima con le stesse formule, fallite e riciclate, sulla visione dell’uomo e della vita; ripetono uguali ricette uccidendo il paziente mentre arricchiscono i medici che li mandano; ignorano le ragioni profonde che abitano nel cuore del popolo e che lo rendono forte proprio nei suoi sogni, nei suoi miti, malgrado i numerosi disincanti e fallimenti; manipolano politicamente e tradiscono le loro speranze, lasciando dietro di sé terra bruciata e il terreno pronto per l’eterno ritorno dello stesso, anche quando si ripresenti con un vestito nuovo. Uomini e utopie forti hanno promesso soluzioni magiche, risposte istantanee, effetti immediati. La Chiesa, senza pretese umane, rispettosa del multiforme volto del continente, che considera non uno svantaggio ma una perenne ricchezza, deve continuare a prestare l’umile servizio al vero bene dell’uomo latinoamericano. Deve lavorare senza stancarsi per costruire ponti, abbattere muri, integrare la diversità, promuovere la cultura dell’incontro e del dialogo, educare al perdono e alla riconciliazione, al senso di giustizia, al ripudio della violenza e al coraggio della pace. Nessuna costruzione duratura in America Latina può prescindere da questo fondamento invisibile ma essenziale.

La Chiesa conosce come pochi quell’unità sapienziale che precede qualunque realtà in America Latina. Convive quotidianamente con quel patrimonio morale su cui poggia l’edificio esistenziale del continente. Sono sicuro che, mentre sto parlando di questo voi, potreste dare un nome a questa realtà. Con essa dobbiamo continuamente dialogare. Non possiamo perdere il contatto con questo substrato morale, con questo humus vitale che abita nel cuore della nostra gente e in cui si percepisce la mescolanza quasi indistinta, ma al tempo stesso eloquente, del suo volto meticcio: non unicamente indigeno, né ispanico, né lusitano, né afroamericano, ma meticcio, latinoamericano!

Guadalupe e Aparecida sono manifestazioni programmatiche di questa creatività divina. Sappiamo bene che ciò fa parte del fondamento su cui poggia la religiosità popolare del nostro popolo; fa parte della sua singolarità antropologica; è un dono con cui Dio ha voluto farsi conoscere alla nostra gente. Le pagine più luminose della storia della nostra Chiesa sono state scritte proprio quando abbiamo saputo nutrirci di questa ricchezza, parlare a questo cuore nascosto che palpita custodendo, come un piccolo fuocherello acceso sotto apparenti ceneri, il senso di Dio e della sua trascendenza, la sacralità della vita, il rispetto per il creato, i legami di solidarietà, la gioia di vivere, la capacità di essere felici senza condizioni.

Per parlare a questa anima che è profonda, per parlare all’America Latina profonda, alla Chiesa non resta altra strada che imparare continuamente da Gesù. Dice il Vangelo che Egli parlava solo in parabole (cfr Mc 4,34). Immagini che coinvolgono e rendono partecipi, che trasformano quanti ascoltano la sua Parola in personaggi dei suoi racconti divini. Il santo Popolo fedele di Dio in America Latina non comprende altro linguaggio su di Lui. Siamo invitati ad andare in missione non con freddi concetti che si accontentano del possibile, ma con immagini che continuamente moltiplicano e dispiegano le loro forze nel cuore dell’uomo, trasformandolo in grano seminato nella terra buona, in lievito che aumenta la sua capacità di trarre il pane dalla massa, in seme che nasconde la potenzialità della pianta feconda.

Una Chiesa capace di essere sacramento di speranza

Molti si lamentano di un certo deficit di speranza nell’America Latina di oggi. A noi non è permessa la “ombrosità lamentosa”, perché la speranza che abbiamo viene dall’alto. Inoltre, sappiamo bene che il cuore latinoamericano è stato addestrato alla speranza. Come diceva un cantautore brasiliano: «La speranza è equilibrista; danza sull’instabile corda con il suo ombrello» (João Bosco, L’ubriaco e la equilibrista). Quando si pensa che sia esaurita, eccola qui nuovamente dove meno ce l’aspettavamo. Il nostro popolo ha imparato che nessuna delusione è in grado di piegarlo. Segue Cristo flagellato e mite, sa aspettare che il cielo si rischiari e sta saldo nella speranza della sua vittoria, perché – in fondo – è consapevole di non appartenere totalmente a questo mondo.

E’ fuor di dubbio che la Chiesa in queste terre sia in modo particolare un sacramento di speranza, ma è necessario vigilare sulla concretizzazione di questa speranza. Tanto più trascendente quanto più deve trasformare il volto immanente di quelli che la possiedono. Vi prego di vigilare sulla concretizzazione della speranza, e permettetemi di ricordarvi alcuni dei suoi volti già visibili in questa Chiesa latinoamericana.

La speranza in America Latina ha un volto giovane

Si parla spesso dei giovani – si declamano statistiche sul continente del futuro –; alcuni riportano notizie sulla loro presunta decadenza e su quanto siano assopiti, altri approfittano del loro potenziale come consumatori, non pochi propongono loro il ruolo di manovalanza dello spaccio della droga e della violenza. Non lasciatevi catturare da simili caricature sui giovani. Guardateli negli occhi e cercate in loro il coraggio della speranza. Non è vero che sono pronti a ripetere il passato. Aprite loro spazi concreti nelle Chiese particolari a voi affidate, investite tempo e risorse nella loro formazione. Proponete programmi educativi incisivi e obiettivi da realizzare, chiedendo loro, come i genitori chiedono ai figli, di mettere in atto le loro potenzialità ed educando il loro cuore alla gioia della profondità, non della superficialità. Non accontentatevi della retorica o di scelte scritte nei piani pastorali e mai messe in pratica.

Ho pensato a Panamá, l’istmo di questo continente, per la giornata Mondiale della Gioventù del ‘19, che sarà celebrata seguendo l’esempio della Vergine che proclama: «Ecco la serva» e «avvenga per me» (Lc 1,38). Sono sicuro che in ogni giovane si nasconde un “istmo”, nel cuore di tutti i nostri ragazzi c’è un pezzo di terreno stretto e allungato che si può percorrere per condurli verso un futuro che solo Dio conosce e a Lui appartiene. Tocca a noi presentare loro grandi proposte per suscitare in essi il coraggio di rischiare insieme a Dio e di rendersi, come la Vergine, disponibili.

La speranza in America Latina ha un volto femminile

Non è necessario che mi dilunghi per parlare del ruolo della donna nel nostro continente e nella nostra Chiesa. Dalle sue labbra abbiamo imparato la fede; quasi con il latte del suo seno abbiamo acquisito i tratti della nostra anima meticcia e l’immunità di fronte ad ogni disperazione. Penso alle madri indigene o “morenas”, penso alle donne delle città con il loro triplo turno di lavoro, penso alle nonne catechiste, penso alle consacrate e alle così discrete “artigiane” del bene. Senza le donne la Chiesa del continente perderebbe la forza di rinascere continuamente. Sono le donne che, con meticolosa pazienza, accendono e riaccendono la fiamma della fede. È un serio dovere comprendere, rispettare, valorizzare, promuovere la forza ecclesiale e sociale di quanto le donne realizzano. Hanno accompagnato Gesù missionario; non si sono allontanate dai piedi della croce; in solitudine hanno aspettato che la notte della morte restituisse il Signore della vita; hanno inondato il mondo con l’annuncio della sua presenza risuscitata. Se vogliamo una fase nuova e vitale della fede in questo continente, non la otterremo senza le donne. Per favore, non possono essere ridotte a serve del nostro recalcitrante clericalismo; esse sono, invece, protagoniste nella Chiesa latinoamericana: nel loro uscire con Gesù; nel loro perseverare, anche nelle sofferenze del suo Popolo; nel loro aggrapparsi alla speranza che vince la morte; nel loro gioioso modo di annunciare al mondo che Cristo è vivo, ed è risorto.

La speranza in America Latina passa attraverso il cuore, la mente e le braccia dei laici

Vorrei ribadire quanto recentemente ho detto alla Pontificia Commissione per l’America Latina. È indispensabile superare il clericalismo che rende infantili i Christifideles laici e impoverisce l’identità dei ministri ordinati.

Anche se si è compiuto un notevole sforzo e alcuni passi sono stati fatti, le grandi sfide del continente rimangono sul tavolo e continuano ad attendere l’attuazione serena, responsabile, competente, lungimirante, articolata, consapevole, di un laicato cristiano che, in quanto credente, sia disposto a contribuire: nei processi di un autentico sviluppo umano, nel consolidamento della democrazia politica e sociale, nel superamento strutturale della povertà endemica, nella costruzione di una prosperità inclusiva fondata su riforme durature e capaci di tutelare il bene sociale, nel superare le disuguaglianze e salvaguardare la stabilità, nel delineare modelli di sviluppo economico sostenibili che rispettino la natura e il vero futuro dell’uomo – che non si esaurisce nel consumismo illimitato –, come pure nel rifiuto della violenza e nella difesa della pace.

Di più: in questo senso la speranza deve sempre vedere il mondo con gli occhi dei poveri e a partire dalla situazione dei poveri. Essa è povera come il chicco di grano che muore (cfr Gv 12,24), ma che ha la forza di spargere i piani di Dio.

La ricchezza autosufficiente spesso priva la mente umana della capacità di vedere, sia la realtà del deserto sia le oasi che vi sono nascoste. Propone risposte da manuale e ripete certezze da talkshow

Tutto questo lo vorrei riassumere in una espressione che vi lascio come sintesi, sintesi e ricordo di questo incontro. Se vogliamo servire, come CELAM, la nostra America Latina, dobbiamo farlo con passione. Oggi c’è bisogno di passione. Mettere il cuore in tutto quello che facciamo. Passione del giovane innamorato e dell’anziano saggio, passione che trasforma le idee in utopie praticabili, passione nel lavoro delle nostre mani, passione che ci trasforma in incessanti pellegrini nelle nostre Chiese come – permettetemi di ricordarlo – san Toribio di Mogrovejo, che non si installò nella sua sede: di 24 anni di episcopato, 18 li passò nei paesini della sua diocesi. Fratelli, per favore, vi chiedo passione, passione evangelizzatrice.

Affido voi, fratelli Vescovi del CELAM, le Chiese locali che rappresentate e l’intero popolo dell’America Latina e dei Caraibi, vi affido alla protezione della Vergine, invocata con i nomi di Guadalupe e Aparecida, con la serena certezza che Dio, che ha parlato a questo continente con il volto meticcio e moreno di sua Madre, non mancherà di far risplendere la sua luce benigna nella vita di tutti. Grazie.

– Santa Messa nel Parco Simón Bolívar (Bogotà – 7 settembre)

Costruttori della pace, promotori della vita

 

L’Evangelista ricorda che la chiamata dei primi discepoli avvenne sulle rive del lago di Genesaret, lì dove la gente si affollava per ascoltare una voce capace di orientarla e illuminarla; è anche il luogo dove i pescatori terminano le loro faticose giornate, in cui cercano il sostentamento per condurre una vita senza penuria, una vita dignitosa e felice. E’ l’unica volta in tutto il Vangelo di Luca in cui Gesù predica presso il cosiddetto mare di Galilea. Nel mare aperto si confondono l’agognata fecondità del lavoro e la frustrazione per l’inutilità degli sforzi vani. E secondo un’antica interpretazione cristiana, il mare rappresenta anche l’immensità dove convivono tutti i popoli. Infine, a causa della sua agitazione e oscurità, esso evoca tutto quello che minaccia l’esistenza umana e che ha il potere di distruggerla.

Noi usiamo espressioni analoghe per definire le moltitudini: una marea umana, un mare di gente. Quel giorno, Gesù si trova ad avere alle spalle il mare e di fronte una moltitudine che lo ha seguito perché sa della sua commozione davanti al dolore umano e delle sue parole giuste, profonde, sicure. Tutti vengono ad ascoltarlo; la Parola di Gesù ha qualcosa di speciale che non lascia indifferente nessuno; la sua Parola ha il potere di convertire i cuori, di cambiare piani e progetti. E’ una Parola confermata dall’azione, non sono conclusioni scritte a tavolino, espressioni fredde e staccate dal dolore della gente, e perciò è una Parola che serve sia per la sicurezza della riva sia per la fragilità del mare.

Questa amata città, Bogotá, e questo bellissimo Paese, la Colombia, presentano molti degli scenari umani descritti nel Vangelo. Qui si trovano moltitudini che anelano a una parola di vita, che illumini con la sua luce tutti gli sforzi e mostri il senso e la bellezza dell’esistenza umana. Queste moltitudini di uomini e donne, bambini e anziani abitano una terra di inimmaginabile fecondità, che potrebbe dare frutti per tutti. Ma anche qui, come in altre parti del mondo, ci sono fitte tenebre che minacciano e distruggono la vita: le tenebre dell’ingiustizia e dell’inequità sociale; le tenebre corruttrici degli interessi personali o di gruppo, che consumano in modo egoista e sfrenato ciò che è destinato al benessere di tutti; le tenebre del mancato rispetto per la vita umana che miete quotidianamente l’esistenza di tanti innocenti, il cui sangue grida al cielo; le tenebre della sete di vendetta e di odio che macchia di sangue umano le mani di coloro che si fanno giustizia da soli; le tenebre di coloro che si rendono insensibili di fronte al dolore di tante vittime. Tutte queste tenebre, Gesù le disperde e le distrugge con il suo comando sulla barca di Pietro: «Prendi il largo» (Lc 5,4).

Noi possiamo invischiarci in discussioni interminabili, fare la conta dei tentativi falliti ed elencare gli sforzi finiti nel nulla; ma come Pietro, sappiamo cosa significa l’esperienza di lavorare senza nessun risultato. Anche questa Nazione conosce questa realtà, quando per un periodo di sei anni, al suo inizio, ebbe 16 presidenti e pagò caro le sue divisioni (la “patria boba” [lett. “patria tonta”]); anche la Chiesa in Colombia ha fatto esperienza di impegni pastorali vani e infruttuosi…, però come Pietro, siamo anche capaci di confidare nel Maestro, la cui Parola suscita fecondità persino là dove l’inospitalità delle tenebre umane rende infruttuosi tanti sforzi e fatiche. Pietro è l’uomo che accoglie con risolutezza l’invito di Gesù, che lascia tutto e lo segue, per trasformarsi in un nuovo pescatore, la cui missione consiste nel condurre i suoi fratelli al Regno di Dio, dove la vita diventa piena e felice.

Ma il comando di gettare le reti non è rivolto soltanto a Simon Pietro; a lui è toccato di prendere il largo, come quelli che nella vostra Patria hanno per primi riconosciuto quello che più urge, quelli che hanno preso iniziative di pace, di vita. Gettare le reti comporta responsabilità. A Bogotá e in Colombia si trova in cammino un’immensa comunità, che è chiamata a diventare una rete robusta che raccolga tutti nell’unità, lavorando per la difesa e la cura della vita umana, particolarmente quando è più fragile e vulnerabile: nel seno materno, nell’infanzia, nella vecchiaia, nelle condizioni di disabilità e nelle situazioni di emarginazione sociale. Anche le moltitudini che vivono a Bogotà e in Colombia possono diventare vere comunità vive, giuste e fraterne se ascoltano e accolgono la Parola di Dio. In queste moltitudini evangelizzate sorgeranno molti uomini e donne divenuti discepoli che, con cuore veramente libero, possano seguire Gesù; uomini e donne capaci di amare la vita in tutte le sue fasi, di rispettarla, di promuoverla.

E come gli apostoli, occorre chiamarci gli uni gli altri, di mandarci dei segni, come i pescatori, di tornare a considerarci fratelli, compagni di strada, soci di questa impresa comune che è la patria. Bogotá e la Colombia sono, nel medesimo tempo, riva, lago, mare aperto, città attraverso la quale Gesù è passato e passa, per offrire la sua presenza e la sua parola feconda, per farci uscire dalle tenebre e portarci alla luce e alla vita. Chiamare gli altri, tutti, perché nessuno rimanga in balìa delle tempeste; far entrare nella barca tutte le famiglie: esse sono santuari della vita; fare spazio al bene comune al di sopra degli interessi meschini o particolari, farsi carico dei più fragili promuovendo i loro diritti.

Pietro sperimenta la sua piccolezza, sperimenta la grandezza della Parola e dell’azione di Gesù; Pietro conosce le proprie fragilità, il suo buttarsi in avanti e tirarsi indietro, come pure lo conosciamo noi, come lo conosce la storia di violenza e di divisione del vostro popolo che non sempre ci ha trovati disponibili a condividere la barca, le tempeste, le disavventure. Ma, come fece con Simone, Gesù ci invita a prendere il largo, ci spinge a condividere il rischio – non temete di rischiare insieme – ci invita a lasciare i nostri egoismi e a seguirlo; ad abbandonare paure che non vengono da Dio, i timori che ci paralizzano e ritardano l’urgenza di essere costruttori della pace, promotori della vita.

«Prendi il largo», disse Gesù. E i discepoli si fecero segno per riunirsi tutti nella barca. Che sia così per questo popolo

– Parole ai militari e alla forze dell’ordine all’aeroporto di Catama (8 settembre)

Buongiorno!

Voglio ringraziarvi per la vostra presenza qui. Ringraziarvi anche per tutto quello che avete fatto, che fate e che continuerete a fare in questi giorni, durante la mia visita. Lavoro in più!… Ma soprattutto vorrei ringraziarvi per quello che avete fatto e quello che fate per la pace, mettendo a rischio la vostra vita. Ed è quello che ha fatto Gesù: ci ha riconciliato con il Padre, ha messo a rischio la sua vita e l’ha donata. Questo vi rende ancora più fratelli di Gesù: rischiare [la vita] per la pace, per ottenere la pace. Grazie di cuore per tutto questo. Grazie! Vi auguro di poter vedere consolidata la pace in questo Paese, che se la merita.

E adesso, tutti insieme, vi chiedo di pregare in silenzio per tutti i caduti e per tutti i feriti, di cui alcuni sono qui tra noi. Preghiamo un istante in silenzio, e dopo un’Ave Maria alla Vergine.

[Ave Maria …]

[Benedizione]

E per favore, vi chiedo di pregare per me, non dimenticatelo!

– Santa Messa nel terreno CATAMA (Villavicencio – 8 settembre)

Riconciliarsi in Dio, con i colombiani e con il creato

La tua nascita, Vergine Madre di Dio, è l’alba nuova che ha annunciato la gioia al mondo intero, perché da te è nato il sole di giustizia, Cristo, nostro Dio! (cfr Antifona al Benedictus). La festività della nascita di Maria proietta la sua luce su di noi, così come si irradia la dolce luce dell’alba sulla vasta pianura colombiana, bellissimo paesaggio di cui Villavicencio è la porta, come pure sulla ricca diversità dei suoi popoli indigeni.

Maria è il primo splendore che annuncia la fine della notte e, soprattutto, il giorno ormai vicino. La sua nascita ci fa intuire l’iniziativa amorosa, tenera, compassionevole dell’amore con cui Dio si china fino a noi e ci chiama a una meravigliosa alleanza con Lui, che niente e nessuno potrà rompere.

Maria ha saputo essere trasparenza della luce di Dio e ha riflesso i bagliori di questa luce nella sua casa, che condivise con Giuseppe e Gesù, e anche nel suo popolo, nella sua nazione, e in quella casa comune di tutta l’umanità che è il creato.

Nel Vangelo abbiamo ascoltato la genealogia di Gesù (cfr Mt 1,1-17), che non è una mera lista di nomi, bensì storia viva, storia di un popolo con cui Dio ha camminato e, facendosi uno di noi, ha voluto annunciarci che nel suo sangue scorre la storia di giusti e peccatori, che la nostra salvezza non è una salvezza asettica, di laboratorio, ma concreta, una salvezza di vita che cammina. Questa lunga lista ci dice che siamo piccola parte di una grande storia e ci aiuta a non pretendere protagonismi eccessivi, ci aiuta a sfuggire alla tentazione di spiritualismi evasivi, a non astrarci dalle coordinate storiche concrete che ci tocca vivere. E inoltre include, nella nostra storia di salvezza, quelle pagine più oscure o tristi, i momenti di desolazione e abbandono paragonabili all’esilio.

La menzione delle donne – nessuna di quelle evocate nella genealogia appartiene alla gerarchia delle grandi donne dell’Antico Testamento – ci permette un avvicinamento speciale: sono esse, nella genealogia, quelle che annunciano che nelle vene di Gesù scorre sangue pagano, e a ricordare storie di emarginazione e sottomissione. In comunità dove tuttora trasciniamo atteggiamenti patriarcali e maschilisti, è bene annunciare che il Vangelo comincia evidenziando donne che hanno tracciato una tendenza e hanno fatto storia.

E in mezzo a tutto ciò, Gesù, Maria e Giuseppe. Maria col suo generoso “sì” ha permesso che Dio si facesse carico di questa storia. Giuseppe, uomo giusto, non ha lasciato che l’orgoglio, le passioni e lo zelo lo gettassero fuori da quella luce. Per la modalità della narrazione, noi sappiamo prima di Giuseppe quello che è successo a Maria, e lui prende decisioni dimostrando la sua qualità umana prima ancora di essere aiutato dall’angelo e arrivare a comprendere tutto ciò che accadeva intorno a lui. La nobiltà del suo cuore gli fa subordinare alla carità quanto ha imparato per legge; e oggi, in questo mondo nel quale la violenza psicologica, verbale e fisica sulla donna è evidente, Giuseppe si presenta come figura di uomo rispettoso, delicato che, pur non possedendo tutte le informazioni, si decide per la reputazione, la dignità e la vita di Maria. E nel suo dubbio su come agire nel modo migliore, Dio lo ha aiutato a scegliere illuminando il suo giudizio.

Questo popolo della Colombia è popolo di Dio; anche qui possiamo fare genealogie piene di storie, molte piene di amore e di luce; altre di scontri, di offese, anche di morte… Quanti di voi possono raccontare esperienze di esilio e di desolazione! Quante donne, in silenzio, sono andate avanti da sole, e quanti uomini per bene hanno cercato di mettere da parte astio e rancore volendo coniugare giustizia e bontà! Come faremo per lasciare che entri la luce? Quali sono le vie di riconciliazione? Come Maria, dire “sì” alla storia completa, non a una parte; come Giuseppe, mettere da parte passioni e orgoglio; come Gesù Cristo, farci carico, assumere, abbracciare questa storia, perché qui ci siete voi, tutti i colombiani, qui c’è quello che siamo… e quello che Dio può fare con noi se diciamo “sì” alla verità, alla bontà, alla riconciliazione. E questo è possibile solo se riempiamo della luce del Vangelo le nostre storie di peccato, violenza e scontro.

La riconciliazione non è una parola che dobbiamo considerare astratta; se fosse così, porterebbe solo sterilità, porterebbe maggiore distanza. Riconciliarsi è aprire una porta a tutte e ciascuna delle persone che hanno vissuto la drammatica realtà del conflitto. Quando le vittime vincono la comprensibile tentazione della vendetta, quando sconfiggono questa comprensibile tentazione della vendetta, diventano i protagonisti più credibili dei processi di costruzione della pace. Bisogna che alcuni abbiano il coraggio di fare il primo passo in questa direzione, senza aspettare che lo facciano gli altri. Basta una persona buona perché ci sia speranza! Non dimenticatelo: basta una persona buona perché ci sia speranza! E ognuno di noi può essere questa persona! Ciò non significa disconoscere o dissimulare le differenze e i conflitti. Non è legittimare le ingiustizie personali o strutturali. Il ricorso alla riconciliazione concreta non può servire per adattarsi a situazioni di ingiustizia. Piuttosto, come ha insegnato san Giovanni Paolo II, «è un incontro tra fratelli disposti a superare la tentazione dell’egoismo e a rinunciare ai tentativi di pseudo-giustizia; è frutto di sentimenti forti, nobili e generosi, che conducono a instaurare una convivenza fondata sul rispetto di ogni individuo e dei valori propri di ogni società civile» (Lettera ai Vescovi del Salvador, 6 agosto 1982). La riconciliazione, pertanto, si concretizza e si consolida con il contributo di tutti, permette di costruire il futuro e fa crescere la speranza. Ogni sforzo di pace senza un impegno sincero di riconciliazione sarà sempre un fallimento.

Il testo evangelico che abbiamo ascoltato culmina chiamando Gesù l’Emmanuele, che significa il Dio con noi. Così come comincia, ugualmente Matteo conclude il suo Vangelo: «Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine dei tempi» (28,20). Gesù è l’Emmanuele che nasce e l’Emmanuele che ci accompagna ogni giorno, è il Dio con noi che nasce e il Dio che cammina con noi fino alla fine del mondo. Tale promessa si realizza anche in Colombia: Mons. Jesús Emilio Jaramillo Monsalve, Vescovo di Arauca, e il sacerdote Pedro María Ramírez Ramos, martire di Armero, sono segni di questo, l’espressione di un popolo che vuole uscire dal pantano della violenza e del rancore.

In questo ambiente meraviglioso, tocca a noi dire “sì” alla riconciliazione concreta; che il “sì” comprenda anche la nostra natura. Non è casuale che anche su di essa abbiamo scatenato le nostre passioni possessive, la nostra ansia di dominio. Un vostro compatriota lo canta con bellezza: «Gli alberi stanno piangendo, sono testimoni di tanti anni di violenza. Il mare è marrone, mescola sangue con la terra» (Juanes, Minas piedras). La violenza che c’è nel cuore umano, ferito dal peccato, si manifesta anche nei sintomi di malattia che riscontriamo nel suolo, nell’acqua, nell’aria e negli esseri viventi (cfr Lett. enc.  Laudato si’, 2). Tocca a noi dire “sì” come Maria e cantare con lei le “meraviglie del Signore”, perché, come ha promesso ai nostri padri, Egli aiuta tutti i popoli e aiuta ogni popolo, e aiuta la Colombia che oggi vuole riconciliarsi e la sua discendenza per sempre.

Parole del Santo Padre al termine della Santa Messa

Ringrazio per le parole che mi ha rivolto mons. Oscar Urbina Ortega, arcivescovo di Villavicencio, a nome di tutti voi.

In questo momento, desidero manifestare la mia vicinanza spirituale a tutti coloro che soffrono le conseguenze del terremoto che ha colpito il Messico la scorsa notte, provocando morti e ingenti danni materiali. Assicuro la mia preghiera per coloro che hanno perso la vita e per le loro famiglie.

Inoltre, seguo da vicino lo sviluppo dell’uragano Irma che sta colpendo la zona dei Caraibi lasciando dietro di sé numerose vittime e ingenti danni materiali, come pure causando migliaia di sfollati. Li porto nel mio cuore e prego per loro.

A voi chiedo di unirvi a queste intenzioni; e, per favore, non dimenticatevi di pregare per me.

– Grande Incontro di preghiera per la Riconciliazione Nazionale nel Parque Las Malocas a Villavicencio

Cari fratelli e sorelle!

Fin dal primo giorno desideravo che venisse questo momento del nostro incontro. Voi portate nel vostro cuore e nella vostra carne delle impronte, le impronte della storia viva e recente del vostro popolo, segnata da eventi tragici ma anche piena di gesti eroici, di grande umanità e di alto valore spirituale di fede e di speranza. Lo abbiamo ascoltato. Vengo qui con rispetto e con la chiara consapevolezza di trovarmi, come Mosè, a posare i piedi su una terra sacra (cfr Es 3,5). Una terra irrigata con il sangue di migliaia di vittime innocenti e col dolore lacerante dei loro familiari e conoscenti. Ferite che stentano a cicatrizzarsi e che ci addolorano tutti, perché ogni violenza commessa contro un essere umano è una ferita nella carne dell’umanità; ogni morte violenta ci “diminuisce” come persone.

Io sono qui non tanto per parlare ma per stare vicino a voi e guardarvi negli occhi, per ascoltarvi e aprire il mio cuore alla vostra testimonianza di vita e di fede. E, se me lo permettete, vorrei anche abbracciarvi e, se Dio me ne dà la grazia – perché è una grazia – vorrei piangere con voi, vorrei che pregassimo insieme e che ci perdoniamo – anch’io devo chiedere perdono – e che così, tutti insieme, possiamo guardare e andare avanti con fede e speranza.

Ci siamo riuniti ai piedi del Crocifisso di Bojayá, che il 2 maggio 2002 assistette e patì il massacro di decine di persone rifugiate nella sua chiesa. Questa immagine ha un forte valore simbolico e spirituale. Guardandola contempliamo non solo ciò che accadde quel giorno, ma anche tanto dolore, tanta morte, tante vite spezzate e tanto sangue versato nella Colombia degli ultimi decenni. Vedere Cristo così, mutilato e ferito, ci interpella. Non ha più braccia e il suo corpo non c’è più, ma conserva il suo volto e con esso ci guarda e ci ama. Cristo spezzato e amputato, per noi è ancora “più Cristo”, perché ci mostra ancora una volta che è venuto a soffrire per il suo popolo e con il suo popolo; e anche ad insegnarci che l’odio non ha l’ultima parola, che l’amore è più forte della morte e della violenza. Ci insegna a trasformare il dolore in fonte di vita e risurrezione, affinché insieme a Lui e con Lui impariamo la forza del perdono, la grandezza dell’amore.

Grazie a voi quattro, nostri fratelli, che avete voluto condividere la vostra testimonianza, a nome di tanti e tanti altri. Come ci fa bene – sembra egoista – ma come ci fa bene ascoltare le vostre storie! Sono commosso. Sono storie di sofferenza e di amarezza, ma anche, e soprattutto, sono storie di amore e di perdono che ci parlano di vita e di speranza, di non lasciare che l’odio, la vendetta e il dolore si impadroniscano del nostro cuore.

L’oracolo finale del Salmo 85: «Amore e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno» (v. 11) viene dopo il ringraziamento e la supplica in cui si chiede a Dio: Rinnovaci! Grazie, Signore, per la testimonianza di coloro che hanno inflitto dolore e chiedono perdono; di quanti hanno sofferto ingiustamente e perdonano. Questo è possibile solo con il tuo aiuto e con la tua presenza, ed è già un segno enorme che tu vuoi ricostruire la pace e la concordia in questa terra colombiana.

Pastora Mira, tu lo hai detto molto bene: vuoi mettere tutto il tuo dolore, e quello di migliaia di vittime, ai piedi di Gesù Crocifisso, perché si unisca al suo e così sia trasformato in benedizione e capacità di perdono per spezzare la catena della violenza che ha regnato in Colombia. E hai ragione: la violenza genera violenza, l’odio genera altro odio, e la morte altra morte. Dobbiamo spezzare questa catena che appare ineluttabile, e ciò è possibile soltanto con il perdono e la riconciliazione concreta. E tu, cara Pastora, e tanti altri come te, ci avete dimostrato che questo è possibile. Con l’aiuto di Cristo, di Cristo vivo in mezzo alla comunità, è possibile vincere l’odio, è possibile vincere la morte, è possibile cominciare di nuovo e dare vita a una Colombia nuova. Grazie, Pastora; che gran bene fai oggi a tutti noi con la testimonianza della tua vita! E’ il Crocifisso di Bojayá che ti ha dato la forza di perdonare e di amare, e ti ha aiutato a vedere nella camicia che tua figlia Sandra Paola ha regalato a tuo figlio Jorge Aníbal, non solo il ricordo della loro morte ma la speranza che la pace trionfi definitivamente in Colombia. Grazie, grazie!

Ci commuove anche quello che ha detto Luz Dary nella sua testimonianza: che le ferite del cuore sono più profonde e difficili da sanare di quelle del corpo. E’ così. E ciò che è più importante, ti sei resa conto che non si può vivere nel rancore, che solo l’amore libera e costruisce. E in questo modo hai cominciato a guarire anche le ferite di altre vittime, a ricostruire la loro dignità. Questo uscire da te stessa ti ha arricchito, ti ha aiutato a guardare in avanti, a trovare pace e serenità e anche un motivo per continuare a camminare. Ti ringrazio per la stampella che offri. Benché ti rimangano ancora ferite, ti rimangano conseguenze fisiche delle tue ferite, la tua andatura spirituale è veloce e salda. Questa andatura spirituale non ha bisogno di stampelle; ed è rapida e salda perché pensi agli altri – grazie! – e vuoi aiutarli. Questa tua stampella è un simbolo di quell’altra stampelle più importante, di cui tutti abbiamo bisogno, che è l’amore e il perdono. Col tuo amore e il tuo perdono stai aiutando tante persone a camminare nella vita, e a camminare rapidamente come te. Grazie!

Voglio ringraziare anche per la testimonianza eloquente di Deisy e Juan Carlos. Ci hanno fatto comprendere che tutti, alla fine, in un modo o nell’altro, siamo vittime, innocenti o colpevoli, ma tutti vittime, da una parte e dall’altra: tutti vittime. Tutti accomunati in questa perdita di umanità che la violenza e la morte comportano. Deisy lo ha detto chiaramente: hai capito che tu stessa eri stata una vittima e avevi bisogno che ti fosse concessa un’opportunità. Quando l’hai detto, questa parola mi è risuonata nel cuore. E hai cominciato a studiare, e adesso lavori per aiutare le vittime e perché i giovani non cadano nelle reti della violenza e della droga, che è un’altra forma di violenza. C’è speranza anche per chi ha fatto il male; non tutto è perduto. Gesù è venuto per questo: c’è speranza per chi ha fatto il male. Certamente, in questa rigenerazione morale e spirituale dei carnefici la giustizia deve compiersi. Come ha detto Deisy, si deve contribuire positivamente a risanare questa società che è stata lacerata dalla violenza.

Risulta difficile accettare il cambiamento di quanti si sono appellati alla violenza crudele per promuovere i loro fini, per proteggere traffici illeciti e arricchirsi o per credere, illusoriamente, di stare difendendo la vita dei propri fratelli. Sicuramente è una sfida per ciascuno di noi avere fiducia che possano fare un passo avanti coloro che hanno procurato sofferenza a intere comunità e a tutto un paese. E’ chiaro che in questo grande campo che è la Colombia c’è ancora spazio per la zizzania. Non inganniamoci. Fate attenzione ai frutti: abbiate cura del grano e non perdete la pace a causa della zizzania. Il seminatore, quando vede spuntare la zizzania in mezzo al grano, non ha reazioni allarmistiche. Trova il modo per far sì che la Parola si incarni in una situazione concreta e dia frutti di vita nuova, benché in apparenza siano imperfetti e incompleti (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 24). Anche quando perdurano conflitti, violenza, o sentimenti di vendetta, non impediamo che la giustizia e la misericordia si incontrino in un abbraccio che assuma la storia di dolore della Colombia. Risaniamo quel dolore e accogliamo ogni essere umano che ha commesso delitti, li riconosce, si pente e si impegna a riparare, contribuendo alla costruzione dell’ordine nuovo in cui risplendano la giustizia e la pace.

Come ha lasciato intravedere nella sua testimonianza Juan Carlos, in tutto questo processo, lungo, difficile, ma ricco di speranza di riconciliazione, risulta anche indispensabile accettare la verità. E’ una sfida grande ma necessaria. La verità è una compagna inseparabile della giustizia e della misericordia. Tutt’e tre unite, sono essenziali per costruire la pace e, d’altra parte, ciascuna di esse impedisce che le altre siano alterate e si trasformino in strumenti di vendetta contro chi è più debole. La verità non deve, di fatto, condurre alla vendetta, ma piuttosto alla riconciliazione e al perdono. Verità è raccontare alle famiglie distrutte dal dolore quello che è successo ai loro parenti scomparsi. Verità è confessare che cosa è successo ai minori reclutati dagli operatori di violenza. Verità è riconoscere il dolore delle donne vittime di violenza e di abusi.

Vorrei, infine, come fratello e come padre, dire: Colombia, apri il tuo cuore di popolo di Dio e lasciati riconciliare. Non temere la verità né la giustizia. Cari colombiani: non abbiate paura di chiedere e di offrire il perdono. Non fate resistenza alla riconciliazione che vi fa avvicinare, ritrovare come fratelli e superare le inimicizie. E’ ora di sanare ferite, di gettare ponti, di limare differenze. E’ l’ora di spegnere gli odi, rinunciare alle vendette e aprirsi alla convivenza basata sulla giustizia, sulla verità e sulla creazione di un’autentica cultura dell’incontro fraterno. Che possiamo abitare in armonia e fraternità, come vuole il Signore! Chiediamogli di essere costruttori di pace; che là dove c’è odio e risentimento, possiamo mettere amore e misericordia (cfr Preghiera attribuita a san Francesco di Assisi).

E tutte queste intenzioni, le testimonianze ascoltate, le cose che ognuno di voi conosce nel suo cuore, storie di decenni di dolore e di sofferenza, le voglio porre davanti all’immagine del Crocifisso, il Cristo nero di Bojayá:

O Cristo nero di Bojayá,che ci ricordi la tua passione e morte;insieme con le tue braccia e i tuoi piediti hanno strappato i tuoi figliche cercarono rifugio in te. O Cristo nero di Bojayá,che ci guardi con tenerezzae con volto sereno;palpita anche il tuo cuoreper accoglierci nel tuo amore. O Cristo nero di Bojayá,fa’ che ci impegniamoa restaurare il tuo corpo. Che siamotuoi piedi per andare incontroal fratello bisognoso;tue braccia per abbracciarechi ha perso la propria dignità;tue mani per benedire e consolarechi piange nella solitudine. Fa’ che siamo testimonidel tuo amore e della tua infinita misericordia.Amen.

[Dopo la preghiera:]

Abbiamo pregato Gesù, il Cristo, il Cristo mutilato. Prima di darvi la benedizione vi invito a pregare nostra Madre, che ha avuto il cuore trafitto dal dolore: “Ave, o Maria…”

[Benedizione]

– Santa Messa nell’Aeroporto Enrique Olaya Herrera di Medellín (9 settembre)

Cari fratelli e sorelle!

Nella Messa di giovedì a Bogotá abbiamo ascoltato la chiamata di Gesù ai suoi primi discepoli; questa parte del Vangelo di Luca che comincia con quel racconto, culmina nella chiamata dei Dodici. Che cosa ricordano gli Evangelisti tra i due avvenimenti? Che questo cammino di sequela ha richiesto nei primi seguaci di Gesù molto sforzo di purificazione. Alcuni precetti, divieti e comandi li facevano sentire sicuri; compiere determinati riti e pratiche li dispensava da una inquietudine, l’inquietudine di chiedersi: Che cosa piace al nostro Dio? Gesù, il Signore, indica loro che obbedire è camminare dietro a Lui, e che quel camminare li poneva davanti a lebbrosi, paralitici, peccatori. Questa realtà domandava molto più che una ricetta, o una norma stabilita. Impararono che andare dietro a Gesù comporta altre priorità, altre considerazioni per servire Dio. Per il Signore, anche per la prima comunità, è di somma importanza che quanti ci diciamo discepoli non ci attacchiamo a un certo stile, a certe pratiche che ci avvicinano più al modo di essere di alcuni farisei di allora che a quello di Gesù. La libertà di Gesù si contrappone alla mancanza di libertà dei dottori della legge di quell’epoca, che erano paralizzati da un’interpretazione e da una pratica rigoristica della legge. Gesù non si ferma ad un’attuazione apparentemente “corretta”; Egli porta la legge alla sua pienezza e perciò vuole porci in quella direzione, in quello stile di sequela che suppone andare all’essenzialerinnovarsi e coinvolgersi. Sono tre atteggiamenti che dobbiamo plasmare nella nostra vita di discepoli.

Il primo, andare all’essenziale. Non vuol dire “rompere con tutto”, rompere con ciò che non si adatta a noi, perché nemmeno Gesù è venuto “ad abolire la Legge, ma a portarla al suo compimento” (cfr Mt 5,17). Andare all’essenziale è piuttosto andare in profondità, a ciò che conta e ha valore per la vita. Gesù insegna che la relazione con Dio non può essere un freddo attaccamento a norme e leggi, né tantomeno un compiere certi atti esteriori che non portano a un cambiamento reale di vita. Nemmeno il nostro discepolato può essere motivato semplicemente da una consuetudine, perché abbiamo un certificato di battesimo, ma deve partire da un’esperienza viva di Dio e del suo amore. Il discepolato non è qualcosa di statico, ma un continuo cammino verso Cristo; non è semplicemente attaccarsi alla spiegazione di una dottrina, ma l’esperienza della presenza amichevole, viva e operante del Signore, un apprendistato permanente per mezzo dell’ascolto della sua Parola. E tale Parola, lo abbiamo ascoltato, ci si impone nei bisogni concreti dei nostri fratelli: sarà la fame dei più vicini nel testo oggi proclamato (cfr Lc 6,1-5), o la malattia in ciò che narra Luca in seguito.

La seconda parola, rinnovarsi. Come Gesù “scuoteva” i dottori della legge perché uscissero dalla loro rigidità, ora anche la Chiesa è “scossa” dallo Spirito perché lasci le sue comodità e i suoi attaccamenti. Il rinnovamento non deve farci paura. La Chiesa è sempre in rinnovamento – Ecclesia semper renovanda –. Non si rinnova a suo capriccio, ma lo fa fondata e ferma nella fede, irremovibile nella speranza del Vangelo che ha ascoltato (cfr Col 1,23). Il rinnovamento richiede sacrificio e coraggio, non per sentirsi migliori o impeccabili, ma per rispondere meglio alla chiamata del Signore. Il Signore del sabato, la ragion d’essere di tutti i nostri comandamenti e precetti, ci invita a ponderare le norme quando è in gioco il seguire Lui; quando le sue piaghe aperte, il suo grido di fame e sete di giustizia ci interpellano e ci impongono risposte nuove. E in Colombia ci sono tante situazioni che chiedono ai discepoli lo stile di vita di Gesù, particolarmente l’amore tradotto in atti di nonviolenza, di riconciliazione e di pace.

La terza parola, coinvolgersi. Anche se per qualcuno questo può sembrare sporcarsi o macchiarsi. Come Davide e i suoi che entrarono nel tempio perché avevano fame e i discepoli di Gesù entrarono nel campo di grano e mangiarono le spighe, così oggi a noi è chiesto di crescere in audacia, in un coraggio evangelico che scaturisce dal sapere che sono molti quelli che hanno fame, hanno fame di Dio – quanta gente ha fame di Dio! -, fame di dignità, perché sono stati spogliati. E mi chiedo se la fame di Dio in tanta gente forse non venga perché con i nostri atteggiamenti noi li abbiamo spogliati. E, come cristiani, aiutarli a saziarsi di Dio; non ostacolare o proibire loro l’incontro. Fratelli, la Chiesa non è una dogana; richiede porte aperte, perché il cuore del suo Dio è non solo aperto, ma trafitto dall’amore che si è fatto dolore. Non possiamo essere cristiani che alzano continuamente il cartello “proibito il passaggio”, né considerare che questo spazio è mia proprietà, impossessandomi di qualcosa che non è assolutamente mio. La Chiesa non è nostra, fratelli, è di Dio; Lui è il padrone del tempio e della messe; per tutti c’è posto, tutti sono invitati a trovare qui e tra noi il loro nutrimento. Tutti. E Lui, che ha preparato le nozze per il suo Figlio, comanda di chiamare tutti: sani e malati, buoni e cattivi, tutti. Noi siamo semplici “servitori” (cfr Col 1,23) e non possiamo essere quelli che ostacolano tale incontro. Al contrario, Gesù ci chiede, come fece coi suoi discepoli: «Voi stessi date loro da mangiare» (Mt 14,16); questo è il nostro servizio. Mangiare il pane di Dio, mangiare l’amore di Dio, mangiare il pane che ci aiuta a sopravvivere. Lo ha capito bene Pietro Claver, che oggi celebriamo nella liturgia e che domani venererò a Cartagena. «Schiavo dei neri per sempre» fu il motto della sua vita, perché comprese, come discepolo di Gesù, che non poteva rimanere indifferente davanti alla sofferenza dei più abbandonati e oltraggiati del suo tempo e che doveva fare qualcosa per alleviarla.

Fratelli e sorelle, la Chiesa in Colombia è chiamata a impegnarsi con maggiore audacia nella formazione di discepoli missionari, come abbiamo indicato noi Vescovi riuniti ad Aparecida. Discepoli che sappiano vedere, giudicare e agire, come proponeva il documento latinoamericano nato proprio qui, in queste terre (cfr Medellín, 1968). Discepoli missionari che sanno vedere, senza miopie ereditarie; che esaminano la realtà secondo gli occhi e il cuore di Gesù, e da lì giudicano. E che rischiano, che agiscono, che si impegnano.

Sono venuto fin qui proprio per confermarvi nella fede e nella speranza del Vangelo: rimanete saldi e liberi in Cristo, saldi e liberi in Cristo, perché ogni fermezza in Cristo ci dà libertà, così da rifletterlo in tutto quello che fate. Abbracciate con tutte le vostre forze la sequela di Gesù, conoscetelo, lasciatevi chiamare e istruire da Lui, cercatelo nella preghiera e lasciatevi cercare da Lui nella preghiera, annunciatelo con la più grande gioia possibile.

Chiediamo, per intercessione della nostra Madre, la Madonna “de la Candelaria”, che ci accompagni nel nostro cammino di discepoli, affinché ponendo la nostra vita in Cristo, siamo sempre missionari che portiamo la luce e la gioia del Vangelo a tutte le genti.

– Incontro nel Hogar San José (Medellín  – 9 settembre)

Cari fratelli e sorelle,cari bambini e bambine!

Sono contento di trovarmi con voi in questo “Hogar de San José”. Grazie per l’accoglienza che mi avete preparato. Ringrazio per le parole del Direttore, Monsignor Armando Santamaria.

Dico grazie a te, Claudia Yesenia, per la tua coraggiosa testimonianza, davvero coraggiosa. Ascoltando tutte le difficoltà che hai passato, mi veniva alla memoria del cuore la sofferenza ingiusta di tanti bambini e bambine in tutto il mondo, che sono stati e sono ancora vittime innocenti della cattiveria di alcuni.

Anche Gesù Bambino è stato vittima dell’odio e della persecuzione; anche Lui ha dovuto scappare con la sua famiglia, lasciare la sua terra e la sua casa, per sfuggire alla morte. Veder soffrire i bambini fa male all’anima perché i bambini sono i prediletti di Gesù. Non possiamo accettare che siano maltrattati, che siano privati del diritto di vivere la loro infanzia con serenità e gioia, che si neghi loro un futuro di speranza.

Ma Gesù non abbandona nessuno che soffre, tanto meno voi, bambini e bambine, che siete i suoi preferiti. Claudia Yesenia, accanto a tanti orrori accaduti, Dio ti ha donato una zia che si è presa cura di te, un ospedale che ti ha assistito e infine una comunità che ti ha accolto. Questa casa è una prova dell’amore che Gesù ha per voi e del suo desiderio di starvi molto vicino. Lo fa attraverso la cura amorevole di tutte le persone buone che vi accompagnano, che vi vogliono bene e vi educano. Penso ai responsabili di questa casa, alle suore, al personale e a tante altre persone che ormai fanno parte della vostra famiglia perché siete integrati con loro, vi conoscono. Perché è questo che fa sì che questo luogo sia una casa: il calore di una famiglia dove ci sentiamo amati, protetti, accettati, curati e accompagnati.

E mi piace molto che questa casa porti il nome di San Giuseppe, e gli altri [le altre] “Gesù lavoratore” e “Betlemme”. Direi che siete in buone mani! Ricordate quello che scrive san Matteo nel suo Vangelo, quando racconta che Erode, nella sua follia, aveva deciso di uccidere Gesù appena nato? Come Dio parlò in sogno a San Giuseppe, per mezzo di un angelo, e affidò alla sua custodia e protezione i suoi tesori più preziosi: Gesù e Maria? San Matteo ci dice che, appena l’angelo gli parlò, Giuseppe obbedì immediatamente e fece quanto Dio gli aveva ordinato: «Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto» (2,14). Sono sicuro che come san Giuseppe ha protetto e difeso dai pericoli la santa Famiglia, così pure difende voi, vi custodisce e vi accompagna. E con lui anche Gesù e Maria, perché san Giuseppe non può stare senza Gesù e Maria.

A voi fratelli e sorelle, religiosi, religiose e laici che, in questa e nelle altre case, accogliete e curate con amore questi bambini che fin da piccoli hanno sperimentato la sofferenza e il dolore, vorrei ricordare due realtà che non devono mancare perché fanno parte dell’identità cristiana: l’amore che sa vedere Gesù presente nei più piccoli e nei più deboli, e il sacro dovere di portare i bambini a Gesù. In questo compito, con le sue gioie e le sue pene, affido anche voi alla protezione di san Giuseppe. Imparate da lui: il suo esempio vi ispiri e vi aiuti nella cura amorevole di questi piccoli, che sono il futuro della società colombiana, del mondo e della Chiesa, affinché, come Gesù stesso, possano crescere e rafforzarsi in sapienza e grazia davanti a Dio e agli uomini (cfr Lc 2,52). Gesù e Maria, insieme a san Giuseppe, vi accompagnino e vi proteggano, vi colmino di tenerezza, di gioia e di fortezza.

Mi impegno a pregare per voi, perché in questo ambiente di amore familiare cresciate in amore, pace e felicità, e così possiate guarire le ferite del corpo e del cuore. Dio non vi abbandona, vi protegge e vi assiste. E il Papa vi porta nel suo cuore. E non dimenticatevi di pregare per me. Con questo vi ringrazio.

– Incontro con Sacerdoti, Religiosi e Seminaristi e le loro famiglie di provenienza nello Stadio Coperto La Macarena (Medellín  – 9 settembre)

Cari fratelli Vescovi,cari sacerdoti, consacrati, consacrate, seminaristi,care famiglie, cari amici colombiani!

L’allegoria della vera vite, che abbiamo appena ascoltato dal Vangelo di Giovanni, si colloca nel contesto dell’Ultima Cena di Gesù. In quel clima di intimità, di una certa tensione ma carica di amore, il Signore lavò i piedi dei suoi, volle perpetuare la sua memoria nel pane e nel vino, e inoltre parlò dal profondo del suo cuore a quelli che più amava.

In quella prima sera “eucaristica”, in quel primo tramonto del sole dopo il gesto di servizio, Gesù apre il suo cuore; consegna loro il suo testamento. E come in quel cenacolo continuarono poi a riunirsi gli Apostoli, con alcune donne e Maria, la Madre di Gesù (cfr At1,13-14), così oggi qui in questo luogo ci siamo riuniti per ascoltarlo, e per ascoltarci. Suor Leidy di San Giuseppe, María Isabel e padre Juan Felipe ci hanno dato la loro testimonianza; anche ognuno di noi che siamo qui potrebbe raccontare la propria storia vocazionale. E tutti avremmo in comune l’esperienza di Gesù che ci viene incontro, ci precede e in questo modo ci ha “catturato” il cuore. Come dice il Documento di Aparecida: «Conoscere Gesù è il più bel regalo che qualunque persona può ricevere; averlo incontrato è per noi la cosa migliore che ci è capitata nella vita, e farlo conoscere con le nostre parole e opere è per noi una gioia», la gioia di evangelizzare (n. 29).

Molti di voi, giovani, avete scoperto questo Gesù vivo nelle vostre comunità; comunità con un fervore apostolico contagioso, che entusiasmano e suscitano attrazione. Dove c’è vita, fervore, voglia di portare Cristo agli altri, nascono vocazioni genuine; la vita fraterna e fervente della comunità è quella che suscita il desiderio di consacrarsi interamente a Dio e all’evangelizzazione (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 107). I giovani sono per natura inquieti, in ricerca – o mi sbaglio? –. E qui voglio fermarmi un momento e fare una memoria dolorosa. E’ una parentesi, questa. I giovani sono naturalmente inquieti, inquietudine tante volte ingannata, distrutta dai sicari della droga. Medellín mi porta questo ricordo, mi evoca tante vite giovani stroncate, scartate, distrutte. Vi invito a ricordare, ad accompagnare questo luttuoso corteo, a chiedere perdono per chi ha distrutto le aspirazioni di tanti giovani, chiedere al Signore che converta i loro cuori, che abbia fine questa sconfitta dell’umanità giovane. I giovani sono per natura inquieti, in ricerca, e, benché assistiamo a una crisi dell’impegno e dei legami comunitari, sono molti i giovani che si mobilitano insieme di fronte ai mali del mondo e si dedicano a diverse forme di militanza e di volontariato. Sono molti. E alcuni, sì, sono cattolici praticanti, molti sono cattolici “all’acqua di rose”, come diceva mia nonna; altri non sanno se credono o non credono… Ma questa inquietudine li porta a fare qualcosa per gli altri, questa inquietudine riempie il volontariato di tutto il mondo di volti giovani. Bisogna incanalare l’inquietudine. Quando lo fanno per amore di Gesù, sentendosi parte della comunità, diventano “viandanti della fede”, felici di portare Gesù in ogni strada, in ogni piazza, in ogni angolo della terra (cfr ibid., 107). E quanti, senza sapere che lo stanno portando, lo portano! E’ questa ricchezza di andare per le strade servendo, di essere viandanti di una fede che forse loro stessi non capiscono del tutto; è testimonianza, testimonianza che ci apre all’azione dello Spirito Santo che entra e lavorerà nei nostri cuori.

In uno dei viaggi della Giornata della Gioventù in Polonia [Cracovia 2016], in un pranzo che ho fatto con i giovani – con 15 giovani e l’Arcivescovo – uno mi ha chiesto: “Cosa posso dire a un mio compagno, giovane, che è ateo, che non crede? Che argomenti posso portargli?”. E mi è venuto spontaneo rispondergli: “Guarda, l’ultima cosa che devi fare è dirgli qualcosa!”. E’ rimasto sorpreso. Comincia a fare, comincia a comportarti in maniera tale che l’inquietudine che lui ha dentro di sé lo renda curioso e ti domandi; e quando ti chiede la tua testimonianza, lì puoi incominciare a dire qualcosa. E’ tanto importante questo essere viandanti, viandanti della fede, viandanti della vita.

La vite a cui si riferisce Gesù, nel testo che è stato proclamato, è la vite che è tutto il “popolo dell’alleanza”. Profeti come Geremia, Isaia ed Ezechiele si riferiscono ad esso paragonandolo a una vite; e anche un salmo, l’80, canta dicendo: «Hai sradicato una vite dall’Egitto […]. Le hai preparato il terreno, hai affondato le sue radici ed essa ha riempito la terra» (vv. 9-10). A volte esprimono la gioia di Dio per la sua vite, altre volte la sua collera, la delusione o il dispetto […]; mai, mai Dio si disinteressa della sua vite, mai smette di soffrire per i suoi allontanamenti – se io mi allontano Lui soffre nel suo cuore – mai smette di andare incontro a questo popolo che, quando si separa da Lui si secca, brucia e si distrugge.

Com’è la terra, il nutrimento, il sostegno dove cresce questa vite in Colombia? In quali contesti si generano i frutti delle vocazioni di speciale consacrazione? Sicuramente in ambienti pieni di contraddizioni, di chiaroscuri, di situazioni relazionali complesse. Ci piacerebbe avere a che fare con un mondo, con famiglie e legami più sereni, ma siamo dentro questo cambiamento epocale, questa crisi culturale, e in mezzo ad essa, tenendo conto di essa, Dio continua a chiamare. E non venite qui a raccontarmi: “No, certo, non ci sono tante vocazioni di speciale consacrazione, perché, è chiaro, con questa crisi che stiamo vivendo…”. Sapete cos’è questa? E’ una favoletta! Chiaro? Anche in mezzo a questa crisi, Dio continua a chiamare. Sarebbe quasi illusorio pensare che tutti voi avete ascoltato la chiamata del Signore all’interno di famiglie sostenute da un amore forte e pieno di valori come la generosità, l’impegno, la fedeltà e la pazienza (cfr Esort. ap. Amoris laetitia, 5). Alcuni sì, ma non tutti. Alcune famiglie, Dio voglia molte, sono così. Ma tenere i piedi per terra vuol dire riconoscere che i nostri percorsi vocazionali, il sorgere della chiamata di Dio, ci trova più vicino a ciò che riporta la Parola di Dio e che ben conosce la Colombia: «un sentiero di sofferenza e di sangue […] la violenza fratricida di Caino su Abele e i vari litigi tra i figli e tra le spose dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe, per giungere poi alle tragedie che riempiono di sangue la famiglia di Davide, fino alle molteplici difficoltà familiari che solcano il racconto di Tobia o l’amara confessione di Giobbe abbandonato» (ibid., 20). E fin dall’inizio è stato così: non pensate alla situazione ideale, questa è la situazione reale. Dio manifesta la sua vicinanza e la sua elezione dove vuole, nella terra che vuole, così com’è in quel momento, con le contraddizioni concrete, come Lui vuole. Egli cambia il corso degli avvenimenti chiamando uomini e donne nella fragilità della storia personale e comunitaria di ciascuno. Non abbiamo paura in di questa terra complessa. Ieri sera, una ragazza con capacità speciali, nel gruppo che mi ha dato il benvenuto, che mi ha accolto alla Nunziatura, ha detto che nel nucleo dell’umano c’è la vulnerabilità, e spiegava perché. E mi è venuto in mente di chiederle: “Siamo tutti vulnerabili? – “Sì, tutti” – “Ma c’è qualcuno che non è vulnerabile?”. E lei ha risposto: “Dio”. Ma Dio ha voluto farsi vulnerabile, ha voluto uscire a camminare con noi per la strada, vivere la nostra storia così com’era; ha voluto farsi uomo in mezzo a una contraddizione, in mezzo a qualcosa di incomprensibile, con il consenso di una ragazza che non comprendeva ma obbedisce e di un uomo giusto che ha seguito quello che gli era stato comandato; ma tutto questo in mezzo a tante contraddizioni. Non abbiamo paura in questa terra complessa! Dio ha sempre fatto il miracolo di generare buoni grappoli, come le buone focacce a colazione. Che non manchino vocazioni in nessuna comunità, in nessuna famiglia di Medellín! E quando a colazione trovate una di queste belle sorprese, dite: “Ah, che bello! E Dio è capace di fare qualcosa con me?”. Chiedetevelo, prima di mangiarla! Chiedetevelo.

E questa vite – che è quella di Gesù – ha la caratteristica di essere quella vera. Egli ha già utilizzato questo aggettivo in altre occasioni nel Vangelo di Giovanni: la luce vera, il vero pane del cielo, la vera testimonianza. Ora, la verità non è qualcosa che riceviamo – come il pane o la luce – ma qualcosa che scaturisce dall’interno. Siamo popolo eletto per la verità, e la nostra chiamata dev’essere nella verità. Se siamo tralci di questa vite, se la nostra vocazione è innestata in Gesù, non c’è posto per l’inganno, la doppiezza, le scelte meschine. Tutti dobbiamo essere attenti affinché ogni tralcio serva a ciò per cui è stato pensato: per portare frutto. Io, sono pronto a portare frutto? Fin dall’inizio, coloro a cui spetta il compito di accompagnare i percorsi vocazionali, dovranno motivare la retta intenzione, cioè il desiderio autentico di configurarsi a Gesù, il pastore, l’amico, lo sposo. Quando i percorsi non sono alimentati da questa vera linfa che è lo Spirito di Gesù, allora facciamo esperienza dell’aridità e Dio scopre con tristezza quei polloni già morti. Le vocazioni di speciale consacrazione muoiono quando vogliono nutrirsi di onori, quando sono spinte dalla ricerca di una tranquillità personale e di promozione sociale, quando la motivazione è “salire di categoria”, attaccarsi a interessi materiali, che arrivano anche all’errore della brama di guadagno. L’ho già detto in altre occasioni, e voglio ripeterlo come qualcosa che è vero e sicuro, non dimenticatelo: il diavolo entra dal portafoglio. Sempre. Questo non riguarda solo gli inizi, tutti dobbiamo stare attenti, perché la corruzione negli uomini e nelle donne che sono nella Chiesa comincia così, poco a poco, e poi – lo dice Gesù stesso – mette radici nel cuore e finisce per allontanare Dio dalla propria vita. «Non potete servire Dio e la ricchezza» (Mt 6,24). Gesù dice: “Non si può servire due signori”. Due signori: è come se ci fossero due signori nel mondo. Non si può servire Dio e il denaro. Gesù dà il titolo di “signore” al denaro. Che cosa vuol dire? Che se ti prende non ti lascia andare: sarà il tuo signore partendo dal tuo cuore. Attenzione! Non possiamo approfittare della nostra condizione religiosa e della bontà della nostra gente per essere serviti e ottenere benefici materiali.

Ci sono situazioni, atteggiamenti e scelte che mostrano i segni dell’aridità e della morte – quando avviene questo? -: non possono continuare a rallentare il flusso della linfa che nutre e dà vita! Il veleno della menzogna, delle cose nascoste, della manipolazione e dell’abuso del popolo di Dio, dei più fragili e specialmente degli anziani e dei bambini non può trovare spazio nella nostra comunità. Quando un consacrato o una consacrata o una comunità, un’istituzione – che sia la parrocchia o qualsiasi – sceglie di seguire questo stile, è un ramo secco; bisogna solo sedersi e aspettare che Dio venga a tagliarlo.

Ma Dio non solo taglia; l’allegoria continua dicendo che Dio pota la vite dalle imperfezioni. E’ così bella la potatura! Fa male però è bella. La promessa è che daremo frutto, e in abbondanza, come il chicco di grano, se siamo capaci di donarci, di dare liberamente la vita. In Colombia abbiamo esempi del fatto che questo è possibile. Pensiamo a santa Laura Montoya, una religiosa mirabile le cui reliquie sono qui. Lei da questa città si è prodigata in una grande opera missionaria in favore degli indigeni di tutto il Paese. Quanto ci insegna questa donna consacrata nella dedizione silenziosa, vissuta con abnegazione, senza altro interesse che manifestare il volto materno di Dio! E così possiamo ricordare il beato Mariano di Gesù Euse Hoyos, uno dei primi alunni del Seminario di Medellín, e altri sacerdoti e religiose colombiani, i cui processi di canonizzazioni sono stati introdotti; come pure tanti altri, migliaia di colombiani anonimi che nella semplicità della loro vita quotidiana hanno saputo donarsi per il Vangelo e di cui voi sicuramente conserverete la memoria e vi saranno stimolo di dedizione. Tutti ci mostrano che è possibile seguire fedelmente la chiamata del Signore, che è possibile portare molto frutto, anche adesso, in questo tempo e in questo luogo.

La buona notizia è che Lui è disposto a purificarci; la buona notizia è che non siamo ancora “finiti”, siamo ancora nel “processo di fabbricazione” e come buoni discepoli siamo in cammino. E in che modo Gesù taglia i fattori di morte che attecchiscono nella nostra vita e distorcono la chiamata? Invitandoci a rimanere in Luistare, bensì indica mantenere una relazione vitale, esistenziale, assolutamente necessaria; è vivere e crescere in unione feconda con Gesù, fonte di vita eterna. Rimanere in Gesù non può essere un atteggiamento meramente passivo o un semplice abbandono senza conseguenze nella vita quotidiana. C’è sempre una conseguenza, sempre. E permettetemi di proporvi – perché sta diventando un po’ lungo… [gridano: “No!”] Naturalmente non direte “sì”, e allora non vi credo! – permettetemi di proporvi tre modi di rendere effettivo questo rimanere, che vi possono aiutare a rimanere in Gesù.

1. Rimaniamo in Gesù toccando l’umanità di Gesù

Con lo sguardo e i sentimenti di Gesù, che contempla la realtà non come giudice, ma come buon samaritano; che riconosce i valori del popolo con cui cammina, come pure le sue ferite e i suoi peccati; che scopre la sofferenza silenziosa e si commuove davanti alle necessità delle persone, soprattutto quando queste si trovano succubi dell’ingiustizia, della povertà disumana, dell’indifferenza, o dell’azione perversa della corruzione e della violenza.

Con i gesti e le parole di Gesù, che esprimono amore ai vicini e ricerca dei lontani; tenerezza e fermezza nella denuncia del peccato e nell’annuncio del Vangelo; gioia e generosità nella dedizione e nel servizio, soprattutto ai più piccoli, respingendo con forza la tentazione di dare tutto per perduto, di accomodarci o di diventare solo amministratori di sventure. Quante volte ascoltiamo uomini e donne consacrati, che sembra che invece di amministrare gioia, crescita, vita, amministrano disgrazie, e passano il tempo a lamentarsi delle disgrazie di questo mondo. E’ la sterilità, la sterilità di chi è incapace di toccare la carne sofferente di Gesù.

2. Rimaniamo contemplando la sua divinità

Suscitando e sostenendo la stima per lo studio che accresce la conoscenza di Cristo, perché, come ricorda sant’Agostino, non si può amare chi non si conosce (cfr La Trinità, Libro X, cap. I, 3).

Privilegiando per questa conoscenza l’incontro con la Sacra Scrittura,  specialmente con il Vangelo, dove Cristo ci parla, ci rivela il suo amore incondizionato al Padre, ci contagia la gioia che sgorga dall’obbedienza alla sua volontà e dal servizio ai fratelli. Voglio farvi una domanda, ma non rispondete, ognuno risponde per conto suo. Quanti minuti o quante ore io leggo il Vangelo o la Scrittura ogni giorno? Datevi la risposta. Chi non conosce le Scritture, non conosce Gesù. Chi non ama le Scritture, non ama Gesù (cfr Girolamo, Prologo al commento sul profeta IsaiaPL 24, 17). Diamo tempo a una lettura orante della Parola!, ad ascoltare in essa che cosa Dio vuole per noi e per il nostro popolo.

Che tutto il nostro studio ci aiuti ad essere capaci di interpretare la realtà con gli occhi di Dio; che non sia uno studio evasivo rispetto a ciò che vive la nostra gente e neppure segua le onde delle mode e delle ideologie. Che non viva di nostalgie e non voglia ingabbiare il mistero; non cerchi di rispondere a domande che nessuno si pone più per lasciare nel vuoto esistenziale quelli che ci interpellano dalle coordinate dei loro mondi e delle loro culture.

Rimanere e contemplare la sua divinità facendo della preghiera la parte fondamentale della nostra vita e del nostro servizio apostolico. La preghiera ci libera dalla zavorra della mondanità, ci insegna a vivere in modo gioioso, a scegliere tenendoci lontani dalla superficialità, in un esercizio di autentica libertà. Nella preghiera cresciamo in libertà, nella preghiera impariamo a essere liberi. La preghiera ci toglie dalla tendenza a centrarci su noi stessi, nascosti in un’esperienza religiosa vuota, e ci conduce a porci con docilità nelle mani di Dio per compiere la sua volontà e corrispondere al suo progetto di salvezza. E nella preghiera, voglio anche consigliarvi una cosa: chiedete, contemplate, ringraziate, intercedete, ma abituatevi anche ad adorare. Non è molto di moda, adorare. Abituatevi ad adorare. Imparare ad adorare in silenzio. Imparate a pregare così.

Siamo uomini e donne riconciliati per riconciliare. Essere stati chiamati non ci dà un certificato di buona condotta e impeccabilità; non siamo rivestiti di un’aura di santità. Guai al religioso, al consacrato, al prete, alla suora che vive con una faccia da santino, guai! Tutti siamo peccatori, tutti. E abbiamo bisogno del perdono e della misericordia di Dio per rialzarci ogni giorno; Egli strappa ciò che non va bene e abbiamo fatto male, lo getta fuori dalla vigna e lo brucia. Ci purifica perché possiamo portare frutto. Così è la fedeltà misericordiosa di Dio con il suo popolo, di cui siamo parte. Lui non ci abbandonerà mai sul bordo della strada, mai. Dio fa di tutto per evitare che il peccato ci vinca e chiuda le porte della nostra vita a un futuro di speranza e di gioia. Lui fa di tutto per evitare questo. E se non ci riesce, rimane lì accanto, finché mi viene in mente di guardare in alto, perché mi rendo conto che sono caduto. Lui è così.

3. Infine, occorre rimanere in Cristo per vivere nella gioia. Terzo: rimanere per vivere nella gioia.

Se rimaniamo in Lui, la sua gioia sarà in noi. Non saremo discepoli tristi e apostoli avviliti. Leggete la fine della “Evangelii nuntiandi” [esortazione apostolica di Paolo VI]: ve lo consiglio. Al contrario, rifletteremo e porteremo la gioia vera, quella gioia piena che nessuno potrà toglierci, diffonderemo la speranza di vita nuova che Cristo ci ha donato. La chiamata di Dio non è un carico pesante che ci toglie la gioia. E’ pesante? A volte sì, però non ci toglie la gioia. Anche attraverso questo peso ci dà la gioia. Dio non ci vuole sommersi nella tristezza – uno dei cattivi spiriti che si impadroniscono dell’anima, come già denunciavano i monaci del deserto–; Dio non ci vuole sommersi nella stanchezza, tristezza e stanchezza che provengono dalle attività vissute male, senza una spiritualità che renda felice la nostra vita e persino le nostre fatiche. La nostra gioia contagiosa dev’essere la prima testimonianza della vicinanza e dell’amore di Dio. Siamo veri dispensatori della grazia di Dio quando lasciamo trasparire la gioia dell’incontro con Lui.

Nella Genesi, dopo il diluvio, Noè pianta una vite come segno del nuovo inizio; e al termine dell’Esodo, quelli che Mosè ha inviato a ispezionare la terra promessa ritornano con un grappolo d’uva di questa dimensione [indica l’altezza], segno della terra dove scorrono latte e miele. Dio è stato attento a noi, alle nostre comunità e alle nostre famiglie: sono qui presenti, e mi sembra molto bello che ci siano i padri e le madri dei consacrati, dei sacerdoti e dei seminaristi. Dio ha rivolto il suo sguardo su di noi, sulle nostre comunità e famiglie. Il Signore ha rivolto il suo sguardo alla Colombia: voi siete segno di questo amore di predilezione. A noi spetta adesso offrire tutto il nostro amore e il nostro servizio uniti a Gesù Cristo, che è la nostra vite. Ed essere promessa di un nuovo inizio per la Colombia, che si lascia alle spalle un diluvio – come quello di Noè -, un diluvio di scontri e violenze, e che vuole portare molti frutti di giustizia e di pace, di incontro e di solidarietà. Che Dio vi benedica! che Dio benedica la vita consacrata in Colombia! E non dimenticatevi di pregare per me, perché benedica anche me. Grazie!

– Discorso dalla Nunziatura apostolica di Bogotà (9 settembre)

Ognuno di quelli che sono venuti ha sentito che Gesù gli diceva qualcosa, che Gesù diceva qual era il suo nome e che lo voleva in quella strada. E quando all’inizio i sacerdoti hanno cantato quello che Gesù disse a Pietro, mi sono detto: come sarà stato contento Pietro quando gli fu detto così; e io penso che tutti noi siamo contenti quando Gesù ci dice: ti voglio per il tal posto, per questo, per quello, per questa strada, che tu ti faccia monaca, che ti sposi e formi una famiglia, che ti prendi cura…, e così via.

Mi viene da pensare che quando Pietro sentì che Gesù gli disse: “Ecco, tu sei la pietra”, gli diede il nome, lui avrà pensato: “questo me l’ha detto quando mi ha conosciuto, mi ha detto che io ero Pietro”, e avrà cominciato a rendersi conto che quello stesso nome aveva diverse melodie, diverse musiche. Come diverse musiche ha il canto che voi avete cantato. E così Pietro andò avanti, tutto contento e baldanzoso, ma 15 minuti dopo Gesù gli disse il contrario, gli disse: allontanati che sei un satana per me. [Pietro] Aveva sbagliato.

E poi penso alle volte in cui Pietro avrà ricordato quello che gli aveva detto Gesù quella notte del giovedì [santo], quando poi, così sicuro di sé, lui disse: “Quello non lo conosco”. Come avrà pensato a quello che gli aveva detto. E come avrà ricordato ciò che gli aveva detto Gesù, quando lo vide uscire dalla cella, lo guardò e si mise a piangere.

Vale a dire, ciò che Gesù ci dice, lo si vive nel corso della vita. La stessa parola, la stessa vocazione, in diverse maniere. La vita ci porta a viverla nella gioia, nel dolore, nel peccato, in una grazia maggiore… Cosa avrà fatto Pietro quella notte del giovedì piangendo, si sarà nascosto per la vergogna, sarà andato a trovare la madre di Gesù, a chiederle consiglio, non sappiamo.

E poi, stava lì chiuso e pauroso, e dopo Gesù gli domanda tre volte se lo ama, e si ricorda e dice: io non capisco niente, ed è un’altra melodia del suo stesso nome. Io vorrei che ciascuno di noi ricordasse la prima chiamata, quando Gesù ci diede un nome, la prima vocazione, il primo amore, e che lo coniugasse nelle differenti musiche della vita. In quella che ci porta la vita, momenti belli, momenti pieni, momenti di errore, momenti di peccato, momenti oscuri, momenti di voler rompere tutto e ricominciare un’altra cosa… Ma il nome non perderlo. Gesù ha dato un nome ad ognuno di noi e ci ha messo su una strada, una strada di consacrazione: nella vita della famiglia e nella famiglia consacrata. Una strada di donazione a Lui e ai fratelli in nome Suo. Dunque ogni volta bisogna coniugare di nuovo quel nome nelle diverse situazioni che ci è dato di vivere. Quando Gesù ci chiama e ci dà il nome, non ci dà l’assicurazione sulla vita, questa dobbiamo difenderla noi con l’umiltà, la preghiera e mendicarla dal Signore. Dacci forza, Signore, perché possiamo andare avanti ciascuno sulla strada in cui ci hai chiamato. Ma nessuno possiede la sicurezza della perseveranza in quel nome, bisogna chiederla. E Lui la dà, perché ci vuole molto bene, e vuole che rimaniamo, però bisogna mendicarla. Non dimenticatelo. Se volete trionfare nella vita come vuole Gesù, mendicate, perché il protagonista della storia è il mendicante, il protagonista della storia della salvezza è il mendicante, quello che ognuno di noi porta dentro di sé. Grazie per questo! E che questa testimonianza che date possiate portarla avanti e che porti molto frutto. Grazie!

– Benedizione della prima pietra delle case per i senzatetto e dell’Opera Talitha Qum nella Piazza S. Francesco d’Assisi (Cartagena – 10 settembre)

Preghiamo.Benedetto sii Tu, o Signore, Dio della misericordia,che in tuo Figlio ci hai datoun esempio ammirevole di caritàe per mezzo di Lui ci hai vivamente raccomandatoil mandato dell’amore;degnati di ricolmare con le tue benedizioni questi tuoi servitori,che desiderano dedicarsi generosamenteall’aiuto dei fratelli;fa’ in modo che, nel bisogno immediato,possano servirti fedelmente e pienamentenella persona del loro prossimo. Per Cristo nostro Signore.Amen

– Angelus davanti alla chiesa di San Pietro Claver (Cartagena – 10 settembre)

Cari fratelli e sorelle!

Poco prima di entrare in questa chiesa, dove si conservano le reliquie di san Pietro Claver, ho benedetto le prime pietre di due istituzioni destinate a persone con gravi necessità e ho visitato la casa della signora Lorenza, dove accoglie ogni giorno molti nostri fratelli e sorelle per dare loro cibo e affetto. Questi incontri mi hanno fatto tanto bene perché lì si può toccare con mano l’amore di Dio che si fa concreto, si fa quotidiano.

Tutti insieme pregheremo l’Angelus, ricordando l’incarnazione del Verbo. E pensiamo a Maria, che ha concepito Gesù e lo ha portato al mondo. La contempliamo stamattina invocandola come Nostra Signora di Chiquinquirá. Come sapete, per un lungo periodo di tempo questa immagine è stata abbandonata, ha perso il colore ed era rotta e bucata. Era trattata come un pezzo di sacco vecchio, usata senza alcun rispetto finché finì tra le cose scartate.

Fu allora che una donna semplice, che secondo la tradizione si chiamava María Ramos, la prima devota della Vergine di Chiquinquirá, vide in quella tela qualcosa di diverso. Ebbe il coraggio e la fede di collocare quell’immagine rovinata e corrosa in un luogo a parte, restituendole la sua dignità perduta. Seppe trovare e onorare Maria, che portava il Figlio tra le braccia, proprio in quell’oggetto che per gli altri era spregevole e inutile.

In tal modo, si fece paradigma di tutti coloro che, in vari modi, cercano di recuperare la dignità del fratello caduto per il dolore delle ferite della vita, di quelli che non si rassegnano e lavorano per costruire loro un’abitazione dignitosa, per assisterli nei bisogni impellenti e, soprattutto, pregano con perseveranza perché possano recuperare lo splendore di figli di Dio che è stato loro strappato.

Il Signore ci insegna mediante l’esempio degli umili e di quelli che non contano. Se a María Ramos, una donna semplice, ha concesso la grazia di accogliere l’immagine della Vergine nella povertà di quella tela rotta, a Isabel, una donna indigena, e a suo figlio Miguel, ha dato la capacità di essere i primi a vedere trasformata e rinnovata quella tela della Vergine. Essi furono i primi a vedere con occhi semplici quel pezzo di panno totalmente nuovo, e in esso lo splendore della luce divina, che trasforma e fa nuove tutte le cose. Sono i poveri, gli umili, quelli che contemplano la presenza di Dio, coloro a cui si rivela il Mistero dell’amore di Dio con maggiore nitidezza. Essi, poveri e semplici, furono i primi a vedere la Vergine di Chiquinquirá e diventarono suoi missionari, annunciatori della bellezza e della santità della Vergine.

E in questa chiesa pregheremo María, che ha chiamato sé stessa “la serva del Signore”, e san Pietro Claver, lo “schiavo dei neri per sempre”, come si fece chiamare nel giorno della sua professione solenne. Egli aspettava le navi che arrivavano dall’Africa al principale mercato di schiavi del nuovo mondo. Molte volte li accoglieva solamente con gesti, gesti evangelizzatori, per l’impossibilità di comunicare, per la diversità delle lingue. Ma una carezza va al di là di tutte le lingue. Tuttavia, san Pietro Claver sapeva che il linguaggio della carità, della misericordia era capito da tutti. Di fatto, la carità aiuta a comprendere la verità e la verità esige gesti di carità: vanno insieme, non si possono separare. Quando sentiva ripugnanza verso di loro – perché poveretti arrivavano in uno stato che era ripugnante – Pietro Claver baciava le loro piaghe.

Austero e caritatevole fino all’eroismo, dopo aver confortato la solitudine di centinaia di migliaia di persone, non morì onorato, si dimenticarono di lui, e trascorse gli ultimi quattro anni della sua vita malato e nella sua cella e in uno spaventoso stato di abbandono. Così ripaga il mondo; Dio lo ha ripagato in un’altra maniera.

Effettivamente, san Pietro Claver ha testimoniato in modo formidabile la responsabilità e l’attenzione che ognuno di noi deve avere per i suoi fratelli. Questo santo è stato, dagli altri, accusato ingiustamente di essere indiscreto nel suo zelo e ha dovuto affrontare dure critiche e una persistente opposizione da parte di quanti temevano che il suo ministero minacciasse il ricco commercio degli schiavi.

Ancora oggi, in Colombia e nel mondo, milioni di persone sono vendute come schiavi, oppure vanno mendicando un po’ di umanità, un momento di tenerezza, prendono la via del mare o si mettono in cammino perché hanno perso tutto, a cominciare dalla loro dignità e dai loro diritti.

María de Chiquinquirá e Pietro Claver ci invitano a lavorare per la dignità di tutti i nostri fratelli, specialmente per i poveri e gli scartati dalla società, per quelli che sono abbandonati, per gli emigranti, per quelli che subiscono la violenza e la tratta. Tutti costoro hanno la loro dignità e sono immagine viva di Dio. Tutti siamo stati creati a immagine e somiglianza di Dio, e tutti la Vergine ci tiene tra le braccia come figli amati.

Rivolgiamo ora la nostra preghiera alla Vergine Madre, perché ci faccia scoprire in ognuno degli uomini e delle donne del nostro tempo il volto di Dio.

[Angelus Domini…]

 Dopo l’Angelus 

Cari fratelli e sorelle,

da questa località, desidero assicurare la mia preghiera per ciascuno dei Paesi dell’America Latina, e in modo speciale per il vicino Venezuela. Esprimo la mia vicinanza ad ognuno dei figli e delle figlie di quella amata nazione, come pure a coloro che hanno trovato in questa terra colombiana un luogo di accoglienza. Da questa città, sede dei diritti umani, faccio appello affinché si respinga ogni tipo di violenza nella vita politica e si trovi una soluzione alla grave crisi che si sta vivendo e che tocca tutti, specialmente i più poveri e svantaggiati della società. La Vergine Santissima interceda per tutte le necessità del mondo e di ciascuno dei suoi figli.

Saluto anche voi qui presenti, venuti da diversi luoghi, come pure quanti seguono questa visita mediante la radio e la televisione. A tutti auguro una buona domenica. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me.

E adesso vorrei darvi la benedizione. Ognuno di noi, prima di ricevere la benedizione, in un momento di silenzio, metta nel proprio cuore i nomi delle persone che più amiamo, e anche i nomi delle persone che non amiamo; i nomi delle persone che ci vogliono bene, e i nomi delle persone che sappiamo che non ci vogliono bene; per tutti e per ognuno chiediamo la benedizione, per tutti.

[preghiera silenziosa]

[Benedizione]

– Santa Messa nell’area portuale del Contecar (Cartagena – 10 settembre

Dignità della persona e diritti umani

 

In questa città, che è stata chiamata “l’eroica” per la sua tenacia 200 anni fa nel difendere la libertà ottenuta, celebro l’ultima Eucaristia di questo viaggio. Inoltre, da 32 anni, Cartagena de Indias è in Colombia la sede dei diritti umani, perché qui come popolo si stima che «grazie al gruppo missionario formato dai sacerdoti gesuiti Pedro Claver y Corberó, Alonso de Sandoval e il fratello Nicolás González, accompagnati da molti figli della città di Cartegena de Indias nel secolo XVII, nacque la preoccupazione per alleviare la situazione degli oppressi dell’epoca, essenzialmente quella degli schiavi, per i quali reclamarono il rispetto e la libertà» (Congresso della Colombia, 1985, legge 95, art. 1).

Qui, nel Santuario di san Pietro Claver, dove in maniera continua e sistematica si attua il riscontro, la riflessione e il perseguimento dei progressi e del vigore dei diritti umani in Colombia, oggi la Parola di Dio ci parla di perdono, correzione, comunità e preghiera.

Nel quarto discorso del Vangelo di Matteo, Gesù parla a noi, che abbiamo deciso di puntare sulla comunità, che apprezziamo la vita in comune e sogniamo un progetto che includa tutti. Il testo che precede è quello del pastore buono che lascia le 99 pecore per andare dietro a quella perduta, e quell’aroma profuma tutto il discorso che abbiamo appena ascoltato: non c’è nessuno talmente perduto che non meriti la nostra sollecitudine, la nostra vicinanza e il nostro perdono. Da questa prospettiva, si capisce dunque che una mancanza, un peccato commesso da uno, ci interpella tutti ma coinvolge, prima di tutto, la vittima del peccato del fratello; e costui è chiamato a prendere l’iniziativa perché chi gli fatto del male non si perda. Prendere l’iniziativa: chi prende l’iniziativa è sempre il più coraggioso.

In questi giorni ho sentito tante testimonianze di persone che sono andate incontro a coloro che avevano fatto loro del male. Ferite terribili che ho potuto contemplare nei loro stessi corpi; perdite irreparabili che ancora fanno piangere, e tuttavia queste persone sono andate, hanno fatto il primo passo su una strada diversa da quelle già percorse. Perché la Colombia da decenni sta cercando la pace per tentativi e, come insegna Gesù, non è stato sufficiente che due parti si avvicinassero, dialogassero; c’è stato bisogno che si inserissero molti altri attori in questo dialogo riparatore dei peccati. «Se [il tuo fratello] non ti ascolterà, prendi ancora con te una o due persone» (Mt 18,16), ci dice il Signore nel Vangelo.

Abbiamo imparato che queste vie di pacificazione, di primato della ragione sulla vendetta, di delicata armonia tra la politica e il diritto, non possono ovviare ai percorsi della gente. Non è sufficiente il disegno di quadri normativi e accordi istituzionali tra gruppi politici o economici di buona volontà. Gesù trova la soluzione al male compiuto nell’incontro personale tra le parti. Inoltre, è sempre prezioso inserire nei nostri processi di pace l’esperienza di settori che, in molte occasioni, sono stati resi invisibili, affinché siano proprio le comunità a colorare i processi di memoria collettiva. «L’autore principale, il soggetto storico di questo processo, è la gente e la sua cultura, non una classe, una frazione, un gruppo, un’élite – tutta la gente e la sua cultura –. Non abbiamo bisogno di un progetto di pochi indirizzato a pochi, o di una minoranza illuminata o testimoniale che si appropri di un sentimento collettivo. Si tratta di un accordo per vivere insieme, di un patto sociale e culturale» (Esort. ap.  Evangelii gaudium, 239).

Noi possiamo dare un grande contributo a questo nuovo passo che la Colombia vuole fare. Gesù ci indica che questo cammino di reinserimento nella comunità comincia con un dialogo a due. Nulla potrà sostituire questo incontro riparatore; nessun processo collettivo ci dispensa della sfida di incontrarci, di spiegarci, di perdonare. Le ferite profonde della storia esigono necessariamente istanze dove si faccia giustizia, dove sia possibile alle vittime conoscere la verità, il danno sia debitamente riparato e si agisca con chiarezza per evitare che si ripetano tali crimini. Ma tutto ciò ci lascia ancora sulla soglia delle esigenze cristiane. A noi cristiani è richiesto di generare “a partire dal basso” un cambiamento culturale: alla cultura della morte, della violenza, rispondere con la cultura della vita e dell’incontro. Ce lo diceva già quello scrittore così vostro e così di tutti: «Questo disastro culturale non si rimedia né col piombo né coi soldi, ma con una educazione alla pace, costruita con amore sulle macerie di un paese infiammato dove ci alziamo presto per continuare ad ammazzarci a vicenda… una legittima rivoluzione di pace che canalizzi verso la vita l’immensa energia creatrice che per quasi due secoli abbiamo usato per distruggerci e che rivendichi ed esalti il predominio dell’immaginazione» (Gabriel García Marquez, Messaggio sulla pace, 1998).

Quanto abbiamo agito in favore dell’incontro, della pace? Quanto abbiamo omesso, permettendo che la barbarie si facesse carne nella vita del nostro popolo? Gesù ci comanda di confrontarci con quei modelli di comportamento, quegli stili di vita che fanno male al corpo sociale, che distruggono la comunità. Quante volte si “normalizzano” – si vivono come cose normali – processi di violenza, esclusione sociale, senza che la nostra voce si alzi né le nostre mani accusino profeticamente! Accanto a san Pietro Claver c’erano migliaia di cristiani, molti di loro consacrati; ma solo un pugno di persone iniziò una corrente contro-culturale di incontro. San Pietro Claver seppe restaurare la dignità e la speranza di centinaia di migliaia di neri e di schiavi che arrivavano in condizioni assolutamente disumane, pieni di terrore, con tutte le loro speranze perdute. Non possedeva titoli accademici rinomati; si arrivò persino ad affermare che era “mediocre” di ingegno, ma ebbe il “genio” di vivere pienamente il Vangelo, di incontrarsi con quelli che altri consideravano solo uno scarto. Secoli più tardi, l’impronta di questo missionario e apostolo della Compagnia di Gesù è stata seguita da santa María Bernarda Bütler, che dedicò la sua vita al servizio dei poveri e degli emarginati in questa stessa città di Cartagena.[1]

Nell’incontro tra di noi riscopriamo i nostri diritti, ricreiamo la vita perché torni ad essere autenticamente umana. «La casa comune di tutti gli uomini deve continuare a sorgere su una retta comprensione della fraternità universale e sul rispetto della sacralità di ogni vita umana, di ogni uomo e di ogni donna; dei poveri, degli anziani, dei bambini, degli ammalati, dei non nati, dei disoccupati, degli abbandonati, di quelli che vengono giudicati scartabili perché li si considera nient’altro che numeri di questa o quella statistica. La casa comune di tutti gli uomini deve edificarsi anche sulla comprensione di una certa sacralità della natura creata» (Discorso alle Nazioni Unite, 25 settembre 2015).

Gesù, nel Vangelo, ci fa presente anche la possibilità che l’altro si chiuda, si rifiuti di cambiare, persista nel suo male. Non possiamo negare che ci sono persone che persistono in peccati che feriscono la convivenza e la comunità: «Penso al dramma lacerante della droga, sulla quale si lucra in spregio a leggi morali e civili». Questo male minaccia direttamente la dignità della persona umana e spezza progressivamente l’immagine che il Creatore ha plasmato in noi. Condanno fermamente questa piaga che ha spento tante vite e che è mantenuta e sostenuta da uomini senza scrupoli. Non si può giocare con la vita del nostro fratello, né manipolare la sua dignità. Faccio appello affinché si cerchino i modi per porre fine al narcotraffico, che non fa che seminare morte dappertutto stroncando tante speranze e distruggendo tante famiglie. Penso anche a un altro dramma: «alla devastazione delle risorse naturali e all’inquinamento in atto; alla tragedia dello sfruttamento del lavoro; penso ai traffici illeciti di denaro come alla speculazione finanziaria, che spesso assume caratteri predatori e nocivi per interi sistemi economici e sociali, esponendo alla povertà milioni di uomini e donne; penso alla prostituzione che ogni giorno miete vittime innocenti, soprattutto tra i più giovani rubando loro il futuro; penso all’abominio del traffico di esseri umani, ai reati e agli abusi contro i minori, alla schiavitù che ancora diffonde il suo orrore in tante parti del mondo, alla tragedia spesso inascoltata dei migranti sui quali si specula indegnamente nell’illegalità» (Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2014

Infine Gesù ci chiede di pregare insieme; che la nostra preghiera sia sinfonica, con toni personali, accenti diversi, ma che levi in modo concorde un unico grido. Sono sicuro che oggi preghiamo insieme per il riscatto di coloro che sono stati nell’errore, e non per la loro distruzione, per la giustizia e non per la vendetta, per la riparazione nella verità e non nella dimenticanza. Preghiamo per realizzare il motto di questa visita: «Facciamo il primo passo!», e che questo primo passo sia in una direzione comune.

“Fare il primo passo” è, soprattutto, andare incontro agli altri con Cristo, il Signore. Ed Egli ci chiede sempre di fare un passo deciso e sicuro verso i fratelli, rinunciando alla pretesa di essere perdonati senza perdonare, di essere amati senza amare. Se la Colombia vuole una pace stabile e duratura, deve fare urgentemente un passo in questa direzione, che è quella del bene comune, dell’equità, della giustizia, del rispetto della natura umana e delle sue esigenze. Solo se aiutiamo a sciogliere i nodi della violenza, districheremo la complessa matassa degli scontri: ci è chiesto di far il passo dell’incontro con i fratelli, avendo il coraggio di una correzione che non vuole espellere ma integrare; ci è chiesto di essere, con carità, fermi in ciò che non è negoziabile; in definitiva, l’esigenza è costruire la pace, «parlando non con la lingua ma con le mani e le opere» (San Pietro Claver), e alzare insieme gli occhi al cielo: Lui è capace di sciogliere quello che a noi appare impossibile, Lui ci ha promesso di accompagnarci sino alla fine dei tempi, e Lui non lascerà sterile uno sforzo così grande.

Congedo al termine della S. Messa

Al termine di questa celebrazione, desidero ringraziare Mons. Jorge Enrique Jiménez Carvajal, Arcivescovo di Cartegena, per le gentili parole che mi ha rivolto a nome dei fratelli nell’episcopato e di tutto il popolo di Dio.

Ringrazio il Signor Presidente Juan Manuel Santos per il suo invito a visitare il Paese, le Autorità civili, e tutti coloro che hanno voluto unirsi a noi in questa celebrazione eucaristica, qui o attraverso i mezzi di comunicazione.

Ringrazio dell’impegno e della collaborazione che hanno reso possibile questa visita. Sono tanti quelli che hanno collaborato offrendo il proprio tempo e la propria disponibilità. Sono state giornate intense e belle, nelle quali ho potuto incontrare tante persone e conoscere tante realtà che mi hanno toccato il cuore. Voi mi avete fatto tanto bene!

Cari fratelli, vorrei lasciarvi un’ultima parola: non fermiamoci a “fare il primo passo”, ma continuiamo a camminare insieme ogni giorno per andare incontro all’altro, nella ricerca dell’armonia e della fraternità. Non possiamo fermarci. L’8 settembre 1654 moriva proprio qui san Pietro Claver; dopo quarant’anni di schiavitù volontaria, di instancabile lavoro in favore dei più poveri. Egli non rimase fermo, dopo il primo passo ne seguirono altri e altri ancora. Il suo esempio ci fa uscire da noi stessi e andare incontro al prossimo. Colombia, il tuo fratello ha bisogno di te, vagli incontro portando l’abbraccio di pace, libera da ogni violenza, “schiavi della pace, per sempre”.

[1] Anch’essa ebbe l’intelligenza della carità e seppe trovare Dio nel prossimo; nessuno dei due si paralizzò davanti all’ingiustizia e alle difficoltà. Perché «di fronte al conflitto, alcuni semplicemente lo guardano e vanno avanti come se nulla fosse, se ne lavano le mani per poter continuare con la loro vita. Altri entrano nel conflitto in modo tale che ne rimangono prigionieri, perdono l’orizzonte, proiettano sulle istituzioni le proprie confusioni e insoddisfazioni e così l’unità diventa impossibile. Vi è però un terzo modo, il più adeguato, di porsi di fronte al conflitto. È accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo» (Esort. ap.  Evangelii gaudium, 227).