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Discorsi del Papa nel viaggio in Egitto

Venerdì, 28 aprile 2017

– Saluto ai giornalisti durante il volo aereo verso l’aeroporto de Il Cairo

GREG BURKE:

Santo Padre, vogliamo dire grazie, soprattutto grazie per questo privilegio di viaggiare con Lei. A Lei che dice di dire “grazie”, “scusa”, “permesso”, chiediamo perdono per il tempo che Le rubiamo; però Mons. Maurizio Rueda mi dice che sarà poco tempo, e questo dico anche ai giornalisti: che è solo un saluto, non è il momento di fare interviste, però il Papa andrà a salutare tutti. Grazie di questo viaggio così importante.

SANTO PADRE:

Grazie a voi. Vi ringrazio della compagnia e del vostro lavoro, che sarà un lavoro per aiutare tanta gente a capire il viaggio, a conoscere cosa è stato fatto, di cosa si è parlato, tante cose… la gente ci segue.

Questo viaggio ha un’aspettativa speciale perché è un viaggio fatto per l’invito del Presidente della Repubblica, del Papa Tawadros II Patriarca di Alessandria dei Copti, dal Patriarca Copti cattolici e del Grande Imam di Al-Azhar. Tutti e quattro mi hanno invitato a fare questo viaggio. E’ un viaggio di unità, di fratellanza. Vi ringrazio per il vostro lavoro che in questi meno di due giorni sarà abbastanza, abbastanza intenso! Grazie.

– Discorso ai partecipanti alla Conferenza Internazionale sulla Pace

Al Salamò Alaikum!

È un grande dono essere qui e iniziare in questo luogo la mia visita in Egitto, rivolgendomi a voi nell’ambito di questa Conferenza Internazionale per la Pace. Ringrazio il mio fratello, il Grande Imam per averla ideata e organizzata e per avermi cortesemente invitato. Vorrei offrirvi alcuni pensieri, traendoli dalla gloriosa storia di questa terra, che nei secoli è apparsa al mondo come terra di civiltà e terra di alleanze.

Terra di civiltà. Fin dall’antichità, la civiltà sorta sulle rive del Nilo è stata sinonimo di civilizzazione: in Egitto si è levata alta la luce della conoscenza, facendo germogliare un patrimonio culturale inestimabile, fatto di saggezza e ingegno, di acquisizioni matematiche e astronomiche, di forme mirabili di architettura e di arte figurativa. La ricerca del sapere e il valore dell’istruzione sono state scelte feconde di sviluppo intraprese dagli antichi abitanti di questa terra. Sono anche scelte necessarie per l’avvenire, scelte di pace e per la pace, perché non vi sarà pace senza un’educazione adeguata delle giovani generazioni. E non vi sarà un’educazione adeguata per i giovani di oggi se la formazione loro offerta non sarà ben rispondente alla natura dell’uomo, essere aperto e relazionale.

L’educazione diventa infatti sapienza di vita quando è capace di estrarre dall’uomo, in contatto con Colui che lo trascende e con quanto lo circonda, il meglio di sé, formando identità non ripiegate su sé stesse. La sapienza ricerca l’altro, superando la tentazione di irrigidirsi e di chiudersi; aperta e in movimento, umile e indagatrice al tempo stesso, essa sa valorizzare il passato e metterlo in dialogo con il presente, senza rinunciare a un’adeguata ermeneutica. Questa sapienza prepara un futuro in cui non si mira al prevalere della propria parte, ma all’altro come parte integrante di sé; essa non si stanca, nel presente, di individuare occasioni di incontro e di condivisione; dal passato impara che dal male scaturisce solo male e dalla violenza solo violenza, in una spirale che finisce per imprigionare. Questa sapienza, rifiutando la brama di prevaricazione, pone al centro la dignità dell’uomo, prezioso agli occhi di Dio, e un’etica che dell’uomo sia degna, rifiutando la paura dell’altro e il timore di conoscere mediante quei mezzi di cui il Creatore l’ha dotato.[1]

Proprio nel campo del dialogo, specialmente interreligioso, siamo sempre chiamati a camminare insieme, nella convinzione che l’avvenire di tutti dipende anche dall’incontro tra le religioni e le culture. In questo senso il lavoro del Comitato misto per il Dialogo tra il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso e il Comitato di Al-Azhar per il Dialogo ci offre un esempio concreto e incoraggiante. Tre orientamenti fondamentali, se ben coniugati, possono aiutare il dialogo: il dovere dell’identità, il coraggio dell’alterità e la sincerità delle intenzioni. Il dovere dell’identità, perché non si può imbastire un dialogo vero sull’ambiguità o sul sacrificare il bene per compiacere l’altro; il coraggio dell’alterità, perché chi è differente da me, culturalmente o religiosamente, non va visto e trattato come un nemico, ma accolto come un compagno di strada, nella genuina convinzione che il bene di ciascuno risiede nel bene di tutti; la sincerità delle intenzioni, perché il dialogo, in quanto espressione autentica dell’umano, non è una strategia per realizzare secondi fini, ma una via di verità, che merita di essere pazientemente intrapresa per trasformare la competizione in collaborazione.

Educare all’apertura rispettosa e al dialogo sincero con l’altro, riconoscendone i diritti e le libertà fondamentali, specialmente quella religiosa, costituisce la via migliore per edificare insieme il futuro, per essere costruttori di civiltà. Perché l’unica alternativa alla  civiltà dell’incontro è la inciviltà dello scontro, non ce n’è un’altra. E per contrastare veramente la barbarie di chi soffia sull’odio e incita alla violenza, occorre accompagnare e far maturare generazioni che rispondano alla logica incendiaria del male con la paziente crescita del bene: giovani che, come alberi ben piantati, siano radicati nel terreno della storia e, crescendo verso l’Alto e accanto agli altri, trasformino ogni giorno l’aria inquinata dell’odio nell’ossigeno della fraternità.

In questa sfida di civiltà tanto urgente e appassionante siamo chiamati, cristiani e musulmani, e tutti i credenti, a dare il nostro contributo: «viviamo sotto il sole di un unico Dio misericordioso. […] In questo senso possiamo dunque ‎chiamarci gli uni gli ‎altri fratelli e sorelle […], perché senza Dio la vita dell’uomo ‎sarebbe come il cielo senza il sole».‎[2] Si levi il sole di una rinnovata fraternità in nome di Dio e sorga da questa terra, baciata dal sole, l’alba di una civiltà della pace e dell’incontro. Interceda per questo san Francesco di Assisi, che otto secoli fa venne in Egitto e incontrò il Sultano Malik al Kamil.

Terra di alleanze. In Egitto non è sorto solo il sole della sapienza; anche la luce policromatica delle religioni ha illuminato questa terra: qui, lungo i secoli, «le differenze di religione hanno costituito «una forma di arricchimento reciproco al servizio dell’unica comunità nazionale».[3] Fedi diverse si sono incontrate e varie culture si sono mescolate, senza confondersi ma riconoscendo l’importanza di allearsi per il bene comune. Alleanze di questo tipo sono quanto mai urgenti oggi. Nel parlarne, vorrei utilizzare come simbolo il “Monte dell’Alleanza” che si innalza in questa terra. Il Sinai ci ricorda anzitutto che un’autentica alleanza sulla terra non può prescindere dal Cielo, che l’umanità non può proporsi di incontrarsi in pace escludendo Dio dall’orizzonte, e nemmeno può salire sul monte per impadronirsi di Dio (cfr Es 19,12).

Si tratta di un messaggio attuale, di fronte all’odierno perdurare di un pericoloso paradosso, per cui da una parte si tende a relegare la religione nella sfera privata, senza riconoscerla come dimensione costitutiva dell’essere umano e della società; dall’altra si confonde, senza opportunamente distinguere, la sfera religiosa e quella politica. Esiste il rischio che la religione venga assorbita dalla gestione di affari temporali e tentata dalle lusinghe di poteri mondani che in realtà la strumentalizzano. In un mondo che ha globalizzato molti strumenti tecnici utili, ma al contempo tanta indifferenza e negligenze, e che corre a una velocità frenetica, difficilmente sostenibile, si avverte la nostalgia delle grandi domande di senso, che le religioni fanno affiorare e che suscitano la memoria delle proprie origini: la vocazione dell’uomo, non fatto per esaurirsi nella precarietà degli affari terreni, ma per incamminarsi verso l’Assoluto a cui tende. Per queste ragioni, oggi specialmente, la religione non è un problema ma è parte della soluzione: contro la tentazione di adagiarci in una vita piatta, dove tutto nasce e finisce quaggiù, essa ci ricorda che è necessario elevare l’animo verso l’Alto per imparare a costruire la città degli uomini.

In questo senso, volgendo ancora idealmente lo sguardo al Monte Sinai, vorrei riferirmi a quei comandamenti, là promulgati, prima di essere scritti sulla pietra.[4] Al centro delle “dieci parole” risuona, rivolto agli uomini e ai popoli di ogni tempo, il comando «non uccidere» (Es 20,13). Dio, amante della vita, non cessa di amare l’uomo e per questo lo esorta a contrastare la via della violenza, quale presupposto fondamentale di ogni alleanza sulla terra. Ad attuare questo imperativo sono chiamate, anzitutto e oggi in particolare, le religioni perché, mentre ci troviamo nell’urgente bisogno dell’Assoluto, è imprescindibile escludere qualsiasi assolutizzazione che giustifichi forme di violenza. La violenza, infatti, è la negazione di ogni autentica religiosità.

In quanto responsabili religiosi, siamo dunque chiamati a smascherare la violenza che si traveste di presunta sacralità, facendo leva sull’assolutizzazione degli egoismi anziché sull’autentica apertura all’Assoluto. Siamo tenuti a denunciare le violazioni contro la dignità umana e contro i diritti umani, a portare alla luce i tentativi di giustificare ogni forma di odio in nome della religione e a condannarli come falsificazione idolatrica di Dio: il suo nome è Santo, Egli è Dio di pace, Dio salam.[5] Perciò solo la pace è santa e nessuna violenza può essere perpetrata in nome di Dio, perché profanerebbe il suo Nome.

Insieme, da questa terra d’incontro tra Cielo e terra, di alleanze tra le genti e tra i credenti, ripetiamo un “no” forte e chiaro ad ogni forma di violenza, vendetta e odio commessi in nome della religione o in nome di Dio. Insieme affermiamo l’incompatibilità tra violenza e fede, tra credere e odiare. Insieme dichiariamo la sacralità di ogni vita umana contro qualsiasi forma di violenza fisica, sociale, educativa o psicologica. La fede che non nasce da un cuore sincero e da un amore autentico verso Dio Misericordioso è una forma di adesione convenzionale o sociale che non libera l’uomo ma lo schiaccia. Diciamo insieme: più si cresce nella fede in Dio più si cresce nell’amore al prossimo.

Ma la religione non è certo solo chiamata a smascherare il male; ha in sé la vocazione a promuovere la pace, oggi come probabilmente mai prima.[6] Senza cedere a sincretismi concilianti,[7] il nostro compito è quello di pregare gli uni per gli altri domandando a Dio il dono della pace, incontrarci, dialogare e promuovere la concordia in spirito di collaborazione e amicizia. Noi, come cristiani – e io sono cristiano – «non possiamo invocare Dio come Padre di tutti gli uomini, se ci rifiutiamo di comportarci da fratelli verso alcuni tra gli uomini che sono creati ad immagine di Dio».[8] Fratelli di tutti. Di più, riconosciamo che, immersi in una costante lotta contro il male che minaccia il mondo perché non sia più «il campo di una genuina fraternità», quanti «credono alla carità divina, sono da Lui [Dio] resi certi che la strada della carità è aperta a tutti gli uomini e che gli sforzi intesi a realizzare la fraternità universale non sono vani».[9] Anzi, sono essenziali: a poco o nulla serve infatti alzare la voce e correre a riarmarsi per proteggersi: oggi c’è bisogno di costruttori di pace, non di armi; oggi c’è bisogno di costruttori di pace, non di provocatori di conflitti; di pompieri e non di incendiari; di predicatori di riconciliazione e non di banditori di distruzione.

Si assiste con sconcerto al fatto che, mentre da una parte ci si allontana dalla realtà dei popoli, in nome di obiettivi che non guardano in faccia a nessuno, dall’altra, per reazione, insorgono populismi demagogici, che certo non aiutano a consolidare la pace e la stabilità: nessun incitamento violento garantirà la pace, ed ogni azione unilaterale che non avvii processi costruttivi e condivisi è in realtà un regalo ai fautori dei radicalismi e della violenza.

Per prevenire i conflitti ed edificare la pace è fondamentale adoperarsi per rimuovere le situazioni di povertà e di sfruttamento, dove gli estremismi più facilmente attecchiscono, e bloccare i flussi di denaro e di armi verso chi fomenta la violenza. Ancora più alla radice, è necessario arrestare la proliferazione di armi che, se vengono prodotte e commerciate, prima o poi verranno pure utilizzate. Solo rendendo trasparenti le torbide manovre che alimentano il cancro della guerra se ne possono prevenire le cause reali. A questo impegno urgente e gravoso sono tenuti i responsabili delle nazioni, delle istituzioni e dell’informazione, come noi responsabili di civiltà, convocati da Dio, dalla storia e dall’avvenire ad avviare, ciascuno nel proprio campo, processi di pace, non sottraendosi dal gettare solide basi di alleanza tra i popoli e gli Stati. Auspico che questa nobile e cara terra d’Egitto, con l’aiuto di Dio, possa rispondere ancora alla sua vocazione di civiltà e di alleanza, contribuendo a sviluppare processi di pace per questo amato popolo e per l’intera regione mediorientale.

Al Salamò Alaikum!

[1] ‎«D’altronde, un’etica di fraternità e di coesistenza pacifica tra le persone e tra i ‎popoli non può basarsi sulla logica della paura, della violenza e della ‎chiusura, ma sulla responsabilità, sul rispetto e sul dialogo sincero»‎: La nonviolenza: stile di una politica per la pace, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2017, 5.

[2] Giovanni Paolo II,  Discorso alle autorità musulmane, Kaduna (Nigeria), 14 febbraio 1982.

[3] ‎ Id., Discorso nella cerimonia di arrivo, Il Cairo, 24 febbraio 2000.

[4] «Furono inscritti nel cuore dell’uomo come Legge morale universale, valida in ogni tempo e in ogni luogo». Essi offrono la «base autentica per la vita degli individui, delle società e delle nazioni; […] sono l’unico futuro della famiglia umana. Salvano l’uomo dalla forza distruttiva dell’egoismo, dell’odio e della menzogna. Evidenziano tutte le false divinità che lo riducono in schiavitù: l’amore di sé fino all’esclusione di Dio, l’avidità di potere e di piacere che sovverte l’ordine della giustizia e degrada la nostra dignità umana e quella del nostro prossimo»: Id., Omelia nella celebrazione della Parola al Monte Sinai, Monastero di Santa Caterina, 26 febbraio 2000.

[5] Cfr Discorso nella Moschea Centrale di Koudoukou, Bangui (Repubblica Centrafricana), 30 novembre 2015.

[6] «Forse mai come ora nella storia dell’umanità è divenuto a tutti evidente il legame intrinseco tra un atteggiamento autenticamente religioso e il grande bene della pace» (Giovanni Paolo II, Discorso ai Rappresentanti delle Chiese cristiane e Comunità ecclesiali e delle religioni mondiali, Assisi, 27 ottobre 1986: Insegnamenti IX, 2 (1986), 1268.

[7] Cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 251.

[8] Conc. Ecum. Vat. II, Dich.  Nostra aetate, 5.

[9] Id., Cost. past. Gaudium et spes, 37-38.

– Incontro con le Autorità

Signor Presidente,Signor Grande Imam di Al-Azhar,Onorevoli Membri del Governo e del Parlamento,Illustri Ambasciatori e membri del Corpo Diplomatico,Cari Signori e Signore,

Al Salamò Alaikum!

La ringrazio, Signor Presidente, per le Sue cordiali parole di benvenuto e per l’invito che mi ha gentilmente rivolto a visitare il vostro caro Paese. Conservo viva la memoria della Sua visita a Roma, nel novembre 2014, come pure del fraterno incontro con Sua Santità Papa Tawadros II, nel 2013, e con il Grande Imam dell’Università dell’Al-Azhar, Dott. Ahmad Al-Tayyib, lo scorso anno.

Sono lieto di trovarmi in Egitto, terra di antichissima e nobile civiltà, le cui vestigia possiamo ammirare ancora oggi e che, nella loro maestosità, sembrano voler sfidare i secoli. Questa terra rappresenta molto per la storia dell’umanità e per la Tradizione della Chiesa, non solo per il suo prestigioso passato storico – dei faraoni, copto e musulmano –, ma anche perché tanti Patriarchi vissero in Egitto o lo attraversarono. Infatti, esso è menzionato un gran numero di volte nelle Sacre Scritture. In questa terra Dio si è fatto sentire, «ha rivelato il suo nome a Mosè»[1] e sul monte Sinai ha affidato al suo popolo e all’umanità i Comandamenti divini. Sul suolo egiziano trovò rifugio e ospitalità la Santa Famiglia: Gesù, Maria e Giuseppe.

L’ospitalità data con generosità più di duemila anni fa, rimane nella memoria collettiva dell’umanità ed è fonte di abbondanti benedizioni che ancora si estendono. L’Egitto, quindi, è una terra che, in un certo senso, sentiamo tutti come nostra! E come dite voi: “Misr um al dugna / L’Egitto è la madre dell’universo”. Anche oggi vi trovano accoglienza milioni di rifugiati provenienti da diversi Paesi, tra cui Sudan, Eritrea, Siria e Iraq, rifugiati che con lodevole impegno si cerca di integrare nella società egiziana.

L’Egitto, a motivo della sua storia e della sua particolare posizione geografica, occupa un ruolo insostituibile nel Medio Oriente e nel contesto dei Paesi che cercano soluzioni a problemi acuti e complessi i quali necessitano di essere affrontati ora, per evitare una deriva di violenza ancora più grave. Mi riferisco a quella violenza cieca e disumana causata da diversi fattori: dal desiderio ottuso di potere, dal commercio di armi, dai gravi problemi sociali e dall’estremismo religioso che utilizza il Santo Nome di Dio per compiere inauditi massacri e ingiustizie.

Questo destino e questo compito dell’Egitto costituiscono anche il motivo che ha portato il popolo a sollecitare un Egitto dove non manchino a nessuno il pane, la libertà e la giustizia sociale. Certamente questo obiettivo diventerà una realtà se tutti insieme avranno la volontà di trasformare le parole in azioni, le valide aspirazioni in impegno, le leggi scritte in leggi applicate, valorizzando la genialità innata di questo popolo.

L’Egitto, quindi, ha un compito singolare: rafforzare e consolidare anche la pace regionale, pur essendo, sul proprio suolo, ferito da violenze cieche. Tali violenze fanno soffrire ingiustamente tante famiglie – alcune delle quali sono qui presenti – che piangono i loro figli e figlie.

Il mio pensiero va in particolare a tutte le persone che, negli ultimi anni, hanno dato la vita per salvaguardare la loro Patria: i giovani, i membri delle forze armate e della polizia, i cittadini copti e tutti gli ignoti caduti a causa di diverse azioni terroristiche. Penso anche alle uccisioni e alle minacce che hanno determinato un esodo di cristiani dal Sinai settentrionale. Esprimo riconoscenza alle Autorità civili e religiose e a quanti hanno dato accoglienza e assistenza a queste persone tanto provate. Penso altresì a coloro che sono stati colpiti negli attentati alle chiese Copte, sia nel dicembre scorso sia più recentemente a Tanta e ad Alessandria. Ai loro familiari e a tutto l’Egitto vanno il mio più sentito cordoglio e la mia preghiera al Signore affinché dia pronta guarigione ai feriti.

Signor Presidente, illustri Signori e Signore,

non posso non incoraggiare l’audacia degli sforzi per la realizzazione di numerosi progetti nazionali, come anche le tante iniziative che sono state prese in favore della pace nel Paese e al di fuori di esso, in ordine all’auspicato sviluppo, nella prosperità e nella pace, che il popolo desidera e merita.

Lo sviluppo, la prosperità e la pace sono beni irrinunciabili che meritano ogni sacrificio. Sono anche obiettivi che richiedono lavoro serio, impegno convinto, metodologia adeguata e, soprattutto, rispetto incondizionato dei diritti inalienabili dell’uomo, quali l’uguaglianza tra tutti i cittadini, la libertà religiosa e di espressione, senza distinzione alcuna[2]. Obiettivi che esigono una speciale attenzione al ruolo della donna, dei giovani, dei più poveri e dei malati. In realtà, lo sviluppo vero si misura dalla sollecitudine che si dedica all’uomo – cuore di ogni sviluppo –, alla sua educazione, alla sua salute e alla sua dignità; infatti la grandezza di qualsiasi nazione si rivela nella cura che essa dedica realmente ai più deboli della società: le donne, i bambini, gli anziani, i malati, i disabili, le minoranze, affinché nessuna persona e nessun gruppo sociale rimangano esclusi o lasciati ai margini.

Di fronte a uno scenario mondiale delicato e complesso, che fa pensare a quella che ho chiamato una “guerra mondiale a pezzi”, occorre affermare che non si può costruire la civiltà senza ripudiare ogni ideologia del male, della violenza e ogni interpretazione estremista che pretende di annullare l’altro e di annientare le diversità manipolando e oltraggiando il Sacro Nome di Dio. Lei, Signor Presidente, ne ha parlato più volte e in varie circostanze con chiarezza, che merita ascolto e apprezzamento.

Abbiamo tutti il dovere di insegnare alle nuove generazioni che Dio, il Creatore del cielo e della terra, non ha bisogno di essere protetto dagli uomini, anzi è Lui che protegge gli uomini; Egli non vuole mai la morte dei suoi figli ma la loro vita e la loro felicità; Egli non può né chiedere né giustificare la violenza, anzi la detesta e la rigetta[3]. Il vero Dio chiama all’amore incondizionato, al perdono gratuito, alla misericordia, al rispetto assoluto di ogni vita, alla fraternità tra i suoi figli, credenti e non credenti.

Abbiamo il dovere di affermare insieme che la storia non perdona quanti proclamano la giustizia e praticano l’ingiustizia; non perdona quanti parlano dell’eguaglianza e scartano i diversi. Abbiamo il dovere di smascherare i venditori di illusioni circa l’aldilà, che predicano l’odio per rubare ai semplici la loro vita presente e il loro diritto di vivere con dignità, trasformandoli in legna da ardere e privandoli della capacità di scegliere con libertà e di credere con responsabilità. Signor Presidente, Lei, alcuni minuti fa, mi ha detto che Dio è il Dio della libertà, e questo è vero. Abbiamo il dovere di smontare le idee omicide e le ideologie estremiste, affermando l’incompatibilità tra la vera fede e la violenza, tra Dio e gli atti di morte.

La storia invece onora i costruttori di pace, che, con coraggio e senza violenza, lottano per un mondo migliore: “Beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5, 9).

L’Egitto, che al tempo di Giuseppe salvò gli altri popoli dalla carestia (cfr Gen 47,57), è quindi chiamato anche oggi a salvare questa cara regione dalla carestia dell’amore e della fraternità; è chiamato a condannare e a sconfiggere ogni violenza e ogni terrorismo; è chiamato a donare il grano della pace a tutti i cuori affamati di convivenza pacifica, di lavoro dignitoso, di educazione umana. L’Egitto, che nello stesso tempo costruisce la pace e combatte il terrorismo, è chiamato a dare prova che “AL DIN LILLAH WA AL WATÀN LILGIAMIA’ / La fede è per Dio, la Patria è per tutti”, come recita il motto della Rivoluzione del 23 luglio 1952, dimostrando che si può credere e vivere in armonia con gli altri, condividendo con loro i valori umani fondamentali e rispettando la libertà e la fede di tutti[4]. Il peculiare ruolo dell’Egitto è necessario per poter affermare che questa regione, culla delle tre grandi religioni, può, anzi deve risvegliarsi dalla lunga notte di tribolazione per tornare a irradiare i supremi valori della giustizia e della fraternità, che sono il fondamento solido e la via obbligatoria per la pace[5]. Dalle nazioni grandi non si può attendere poco!

Quest’anno si celebrerà il 70° anniversario delle relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e la Repubblica Araba dell’Egitto, uno dei primi Paesi Arabi a stabilire tali rapporti diplomatici. Essi sono sempre stati caratterizzati dall’amicizia, dalla stima e dalla collaborazione reciproca. Auspico che questa mia visita possa consolidarli e rafforzarli.

La pace è dono di Dio ma è anche lavoro dell’uomo. È un bene da costruire e da proteggere, nel rispetto del principio che afferma la forza della legge e non la legge della forza[6]. Pace per questo amato Paese! Pace per tutta questa regione, in particolare per Palestina e Israele, per la Siria, per la Libia, per lo Yemen, per l’Iraq, per il Sud Sudan; pace a tutti gli uomini di buona volontà!

Signor Presidente, Signore e Signori,

desidero rivolgere un affettuoso saluto e un paterno abbraccio a tutti i cittadini egiziani, che sono simbolicamente presenti qui, in questa aula. Saluto altresì i figli e i fratelli cristiani che vivono in questo Paese: i copti ortodossi, i greco-bizantini, gli armeno-ortodossi, i protestanti e i cattolici. San Marco, l’evangelizzatore di questa terra, vi protegga e ci aiuti a costruire e a raggiungere l’unità, tanto desiderata dal Nostro Signore (cfr Gv 17,20-23). La vostra presenza in questa Patria non è né nuova né casuale, ma storica e inseparabile dalla storia dell’Egitto. Siete parte integrante di questo Paese e avete sviluppato nel corso dei secoli una sorta di rapporto unico, una particolare simbiosi, che può essere presa come esempio da altre Nazioni. Voi avete dimostrato e dimostrate che si può vivere insieme, nel rispetto reciproco e nel confronto leale, trovando nella differenza una fonte di ricchezza e mai un motivo di scontro[7].

Grazie per la calorosa accoglienza. Chiedo a Dio Onnipotente e Unico di colmare tutti i cittadini egiziani con le Sue Benedizioni divine. Egli conceda all’Egitto pace e prosperità, progresso e giustizia e benedica tutti i suoi figli!

“Benedetto sia l’Egitto mio popolo”, dice il Signore nel Libro di Isaia (19,25).

Shukran wa tahìah misr!

[1] Giovanni Paolo II, Discorso nella cerimonia di benvenuto, 24 febbraio 2000Insegnamenti XXIII, 1 [2000], 248.

[2] Cfr Dichiarazione universale dei diritti dell’uomoCostituzione Egiziana del 2014, cap. III.

[3] «Dio […] odia chiunque ama la violenza» (Sal 11,5).

[4] Cfr Costituzione Egiziana del 2014, Art. 5.

[5] Cfr Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2014‎, 4.

[6] Cfr Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2017, 1.

[7] Cfr Benedetto XVI, Esort. ap. postsin. Ecclesia in ‎Medio Oriente, 24 e 25‎.

– Visita di cortesia a S.S. Papa Tawadros II

Il Signore è risorto, è veramente risorto! [Al Massih kam, bilhakika kam!]

Santità, carissimo Fratello,

è da poco trascorsa la grande Solennità di Pasqua, centro della vita cristiana, che quest’anno abbiamo avuto la grazia di celebrare nello stesso giorno. Abbiamo così proclamato all’unisono l’annuncio della Risurrezione, rivivendo, in un certo senso, l’esperienza dei primi discepoli, che in quel giorno insieme «gioirono al vedere il Signore» (Gv 20,20). Questa gioia pasquale è oggi impreziosita dal dono di adorare insieme il Risorto nella preghiera e di scambiarci nuovamente, nel suo nome, il bacio santo e l’abbraccio di pace. Sono tanto grato di questo: giungendo qui come pellegrino, ero certo di ricevere la benedizione di un Fratello che mi aspettava. Grande era l’attesa di ritrovarci: mantengo infatti ben vivo il ricordo della visita di Vostra Santità a Roma, poco dopo la mia elezione, il 10 maggio 2013, una data che è felicemente diventata l’occasione per celebrare ogni anno la Giornata di amicizia copto-cattolica.

Nella gioia di proseguire fraternamente il nostro cammino ecumenico, desidero ricordare anzitutto quella pietra miliare nelle relazioni tra la sede di Pietro e quella di Marco che è la Dichiarazione Comune firmata dai nostri Predecessori più di quarant’anni prima, il 10 maggio 1973. In quel giorno, dopo «secoli di storia difficili», nei quali «si sono manifestate differenze teologiche, alimentate e accentuate da fattori di carattere non teologico» e da una sempre più generalizzata sfiducia nei rapporti, con l’aiuto di Dio si è arrivati a riconoscere insieme che Cristo è «Dio perfetto riguardo alla Sua Divinità e perfetto uomo riguardo alla Sua umanità» (Dichiarazione Comune firmata dal Santo Padre Paolo VI e da Sua Santità Amba Shenouda III, 10 maggio 1973). Ma non meno importanti e attuali sono le parole immediatamente precedenti, con le quali abbiamo riconosciuto «il nostro Signore e Dio e Salvatore e Re di tutti noi, Gesù Cristo». Con queste espressioni la sede di Marco e quella di Pietro hanno proclamato la signoria di Gesù: insieme abbiamo confessato che a Gesù apparteniamo e che Egli è il nostro tutto.

Di più, abbiamo compreso che, essendo suoi, non possiamo più pensare di andare avanti ciascuno per la sua strada, perché tradiremmo la sua volontà: che i suoi siano «tutti […] una sola cosa […] perché il mondo creda» (Gv 17,21). Al cospetto del Signore, che ci desidera «perfetti nell’unità» (v. 23) non ci è più possibile nasconderci dietro i pretesti di divergenze interpretative e nemmeno dietro secoli di storia e di tradizioni che ci hanno reso estranei. Come qui disse Sua Santità Giovanni Paolo II: «Non c’è tempo da perdere al riguardo! La nostra comunione nell’unico Signore Gesù Cristo, nell’unico Spirito Santo e nell’unico Battesimo rappresenta già una realtà profonda e fondamentale» (Discorso durante l’incontro ecumenico, 25 febbraio 2000). Vi è, in questo senso, non solo un ecumenismo fatto di gesti, parole e impegno, ma una comunione già effettiva, che cresce ogni giorno nel rapporto vivo con il Signore Gesù, si radica nella fede professata e si fonda realmente sul nostro Battesimo, sull’essere “nuove creature” (cfr 2 Cor 5,17) in Lui: insomma, «un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo» (Ef 4,5). Da qui ripartiamo sempre, per affrettare il giorno tanto desiderato in cui saremo in piena e visibile comunione all’altare del Signore.

In questo appassionante cammino che – come la vita – non è sempre facile e lineare, ma nel quale il Signore ci esorta ad andare avanti, non siamo soli. Ci accompagna un’enorme schiera di Santi e di Martiri che, già pienamente uniti, ci spinge a essere quaggiù un’immagine vivente della «Gerusalemme di lassù» (Gal 4,26). Tra costoro, certamente oggi si rallegrano in modo particolare del nostro incontro i Santi Pietro e Marco. È grande il legame che li unisce. Basti pensare al fatto che san Marco collocò al cuore del suo Vangelo la professione di fede di Pietro: «Tu sei il Cristo». Fu la risposta alla domanda, sempre attuale, di Gesù: «Ma voi, chi dite che io sia?» (Mc 8,29). Anche oggi tanta gente non sa dare risposta a questo interrogativo; manca persino chi lo susciti e soprattutto chi offra in risposta la gioia di conoscere Gesù, quella stessa gioia con cui abbiamo la grazia di confessarlo insieme.

Insieme siamo dunque chiamati a testimoniarlo, a portare al mondo la nostra fede, prima di tutto nel modo che alla fede è proprio: vivendola, perché la presenza di Gesù si trasmette con la vita e parla il linguaggio dell’amore gratuito e concreto. Copti ortodossi e Cattolici, possiamo sempre più parlare insieme questa lingua comune della carità: prima di intraprendere una iniziativa di bene, sarebbe bello chiederci se possiamo farla con i nostri fratelli e sorelle che condividono la fede in Gesù. Così, edificando la comunione nella concretezza quotidiana della testimonianza vissuta, lo Spirito non mancherà di aprire vie provvidenziali e impensate di unità.

È con questo costruttivo spirito apostolico che Vostra Santità continua a riservare un’attenzione genuina e fraterna nei confronti della Chiesa copta cattolica: una vicinanza di cui sono tanto grato e che ha trovato lodevole espressione nel Consiglio Nazionale delle Chiese Cristiane, al quale ha dato vita perché i credenti in Gesù possano operare sempre più insieme, a beneficio dell’intera società egiziana. Ho tanto apprezzato anche la generosa ospitalità offerta al 13° incontro della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa Cattolica e le Chiese Ortodosse Orientali, che qui ha avuto luogo lo scorso anno su vostro invito. È un bel segno che l’incontro seguente si sia svolto quest’anno a Roma, quasi a dire una particolare continuità tra le sedi di Marco e di Pietro. Nelle Sacre Scritture, Pietro sembra in qualche modo ricambiare l’affetto di Marco chiamandolo «figlio mio» (1 Pt 5,13). Ma i legami fraterni dell’Evangelista e la sua attività apostolica riguardano anche san Paolo che, prima di morire martire a Roma, parla della provvida utilità di Marco nel ministero (cfr 2 Tm 4,11) e lo cita più volte (cfr Fm 24; Col 4,10). Carità fraterna e comunione di missione: questi i messaggi che la Parola divina e le nostre origini ci consegnano. Sono i semi evangelici che abbiamo la gioia di continuare a irrigare e, con l’aiuto di Dio, far crescere insieme (cfr 1 Cor 3,6-7).

La maturazione del nostro cammino ecumenico è sostenuta, in modo misterioso e quanto mai attuale, anche da un vero e proprio ecumenismo del sangue. San Giovanni scrive che Gesù è venuto «con acqua e sangue» (1 Gv 5,6); chi crede in Lui, così «vince il mondo» (1 Gv 5,5). Con acqua e sangue: vivendo una vita nuova nel nostro comune Battesimo, una vita di amore sempre e per tutti, anche a costo del sacrificio del sangue. Quanti martiri in questa terra, fin dai primi secoli del Cristianesimo, hanno vissuto la fede eroicamente e fino in fondo, versando il sangue piuttosto che rinnegare il Signore e cedere alle lusinghe del male o anche solo alla tentazione di rispondere con il male al male. Ben lo testimonia il venerabile Martirologio della Chiesa Copta. Ancora recentemente, purtroppo, il sangue innocente di fedeli inermi è stato crudelmente versato. Carissimo Fratello, come unica è la Gerusalemme celeste, unico è il nostro martirologio, e le vostre sofferenze sono anche le nostre sofferenze, il loro sangue innocente ci unisce. Rinforzati dalla vostra testimonianza, adoperiamoci per opporci alla violenza predicando e seminando il bene, facendo crescere la concordia e mantenendo l’unità, pregando perché tanti sacrifici aprano la via a un avvenire di comunione piena tra noi e di pace per tutti.

La meravigliosa storia di santità di questa terra non è particolare solo per il sacrificio dei martiri. Appena terminate le antiche persecuzioni, sorse una forma nuova di vita che, donata al Signore, nulla tratteneva per sé: nel deserto iniziò il monachesimo. Così, ai grandi segni che in passato Dio aveva operato in Egitto e nel Mar Rosso (cfr Sal 106,21-22), seguì il prodigio di una vita nuova, che fece fiorire di santità il deserto. Con venerazione per questo patrimonio comune sono venuto pellegrino in questa terra, dove il Signore stesso ama recarsi: qui, glorioso scese sul monte Sinai (cfr Es 24,16); qui, umile trovò rifugio da bambino (cfr Mt 2,14).

Santità, carissimo Fratello, lo stesso Signore ci conceda di ripartire oggi, insieme, pellegrini di comunione e annunciatori di pace. In questo cammino ci prenda per mano Colei che qui ha accompagnato Gesù e che la grande tradizione teologica egiziana ha acclamato fin dall’antichità Theotokos, Genitrice di Dio. In questo titolo si uniscono mirabilmente l’umanità e la divinità, perché nella Madre Dio si è fatto per sempre uomo. La Vergine Santa, che sempre ci conduce a Gesù, sinfonia perfetta del divino con l’umano, porti ancora un po’ di Cielo sulla nostra terra.

– Dichiarazione comune di Papa Francesco e Papa Tawadros II

1. Noi, Francesco, Vescovo di Roma e Papa della Chiesa Cattolica, e Tawadros II, Papa di Alessandria e Patriarca della Sede di San Marco, rendiamo grazie nello Spirito Santo a Dio per averci concesso la felice opportunità di incontrarci ancora, di scambiare l’abbraccio fraterno e di unirci nuovamente in comune preghiera. Diamo gloria all’Onnipotente per i vincoli di fraternità e di amicizia che sussistono tra la Sede di San Pietro e la Sede di San Marco. Il privilegio di trovarci insieme qui in Egitto è un segno che la solidità della nostra relazione sta aumentando di anno in anno e che stiamo crescendo nella vicinanza, nella fede e nell’amore di Cristo nostro Signore. Rendiamo grazie a Dio per l’amato Egitto, “terra natale che vive in noi”, come Sua Santità Papa Shenouda III era solito dire, “popolo benedetto dal Signore” (cfr Is 19,25), con la sua antica civiltà dei Faraoni, l’eredità greca e romana, la tradizione copta e la presenza islamica. L’Egitto è il luogo dove trovò rifugio la Sacra Famiglia, è terra di martiri e di santi.

2. Il nostro profondo legame di amicizia e di fraternità rinviene le proprie origini nella piena comunione che esisteva tra le nostre Chiese nei primi secoli ed è stato espresso in vari modi nei primi Concili Ecumenici, a partire da quello di Nicea del 325 e dal contributo del coraggioso Padre della Chiesa Sant’Atanasio, che meritò il titolo di “Protettore della Fede”. La nostra comunione si è manifestata mediante la preghiera e pratiche liturgiche simili, attraverso la venerazione dei medesimi martiri e santi, nello sviluppo e nella diffusione del monachesimo a seguito dell’esempio di Sant’Antonio il Grande, conosciuto come il padre di tutti i monaci.

Questa comune esperienza di comunione precedente al tempo della separazione assume un significato particolare nella nostra ricerca del ristabilimento della piena comunione oggi. La maggior parte delle relazioni che esistevano nei primi secoli sono continuate, nonostante le divisioni, tra la Chiesa Cattolica e la Chiesa Ortodossa Coptafino al presente e recentemente si sono anche rivitalizzate. Esse ci stimolano a intensificare i nostri sforzi comuni, perseverando nella ricerca di un’unità visibile nella diversità, sotto la guida dello Spirito Santo.

3. Ricordiamo con gratitudine lo storico incontro di quarantaquattro anni fa tra i nostri predecessori Papa Paolo VI e Papa Shenouda III, quell’abbraccio di pace e di fraternità dopo molti secoli in cui i nostri reciproci legami di affetto non avevano avuto la possibilità di esprimersi a motivo della distanza che era sorta tra noi. La Dichiarazione Comune che essi firmarono il 10 maggio 1973 rappresenta una pietra miliare nel cammino ecumenico ed è servita come punto di partenza per l’istituzione della Commissione per il dialogo teologico tra le nostre due Chiese, che ha dato molto frutto e ha aperto la via a un più ampio dialogo tra la Chiesa Cattolica e l’intera famiglia delle Chiese Ortodosse Orientali. In quella Dichiarazione le nostre Chiese hanno riconosciuto che, in linea con la tradizione apostolica, professano “un’unica fede in un solo Dio Uno e Trino” e la “divinità dell’Unico Figlio Incarnato di Dio, […] Dio perfetto riguardo alla Sua Divinità, e perfetto uomo riguardo alla Sua umanità”. È stato altresì riconosciuto che “la vita divina ci viene data e alimentata attraverso i sette sacramenti” e che “noi veneriamo la Vergine Maria, Madre della Vera Luce”, la “Theotokos”.

4. Con estrema gratitudine ricordiamo il nostro fraterno incontro a Roma il 10 maggio 2013 e l’istituzione del 10 maggio come giorno in cui ogni anno  approfondiamo l’amicizia e la fraternità tra le nostre Chiese. Questo rinnovato spirito di vicinanza ci ha permesso di discernere meglio ancora come il vincolo che ci unisce è stato ricevuto dal nostro unico Signore nel giorno del Battesimo. Infatti, è attraverso il Battesimo che diventiamo membra dell’unico Corpo di Cristo che è la Chiesa (cfr 1 Cor 12,13). Questa comune eredità è la base del pellegrinaggio che insieme compiamo verso la piena comunione, crescendo nell’amore e nella riconciliazione.  

5. Consapevoli che in tale pellegrinaggio ci rimane ancora molto cammino da fare, richiamiamo alla memoria quanto è già stato compiuto. In particolare, ricordiamo l’incontro tra Papa Shenouda III e San Giovanni Paolo II, che venne pellegrino in Egitto durante il Grande Giubileo dell’anno 2000. Siamo determinati nel seguire i loro passi, mossi dall’amore di Cristo Buon Pastore, nella profonda convinzione che camminando insieme cresciamo nell’unità. Perciò attingiamo la forza da Dio, fonte perfetta di comunione e di amore.

6. Questo amore trova la sua più alta espressione nella preghiera comune. Quando i Cristiani pregano insieme, giungono a comprendere che ciò che li unisce è molto più grande di ciò che li divide. Il nostro desiderio ardente di unità trova ispirazione dalla preghiera di Cristo “perché tutti siano una sola cosa” (Gv 17,21). Perciò approfondiamo le nostre radici nell’unica fede apostolica pregando insieme, cercando traduzioni comuni della preghiera del Signore e una data comune per la celebrazione della Pasqua.

7. Mentre camminiamo verso il giorno benedetto nel quale finalmente ci riuniremo insieme alla stessa Mensa eucaristica, possiamo collaborare in molti ambiti e rendere tangibile la grande ricchezza che già abbiamo in comune. Possiamo dare insieme testimonianza a valori fondamentali quali la santità e la dignità della vita umana, la sacralità del matrimonio e della famiglia e il rispetto dell’intera creazione che Dio ci ha affidato. Nonostante molteplici sfide contemporanee, come la secolarizzazione e la globalizzazione dell’indifferenza, siamo chiamati a offrire una risposta condivisa, basata sui valori del Vangelo e sui tesori delle nostre rispettive tradizioni. A tale riguardo, siamo incoraggiati a intraprendere uno studio maggiormente approfondito dei Padri Orientali e Latini e a promuovere scambi proficui nella vita pastorale, specialmente nella catechesi e in un vicendevole arricchimento spirituale tra comunità monastiche e religiose.

8. La nostra condivisa testimonianza cristiana è un provvidenziale segno di riconciliazione e di speranza per la società egiziana e per le sue istituzioni, un seme piantato per portare frutti di giustizia e di pace. Dal momento che crediamo che tutti gli esseri umani sono creati a immagine di Dio, ci sforziamo di promuovere la serenità e la concordia attraverso una coesistenza pacifica tra Cristiani e Musulmani, testimoniando in questo modo che Dio desidera l’unità e l’armonia dell’intera famiglia umana e la pari dignità di ogni essere umano. Abbiamo a cuore la prosperità e il futuro dell’Egitto. Tutti i membri della società hanno il diritto e il dovere di partecipare pienamente alla vita del Paese, godendo di piena e pari cittadinanza e collaborando a edificare la loro nazione. La libertà religiosa, che comprende la libertà di coscienza ed è radicata nella dignità della persona, è il fondamento di tutte le altre libertà. È un diritto sacro e inalienabile.  

9. Intensifichiamo la nostra incessante preghiera per tutti i Cristiani in Egitto e nel mondo, specialmente per quelli nel Medio Oriente. Alcuni tragici avvenimenti e il sangue versato dai nostri fedeli, perseguitati e uccisi per il solo motivo di essere cristiani, ci ricordano più che mai che l’ecumenismo dei martiri ci unisce e ci incoraggia a proseguire sulla strada della pace e della riconciliazione. Perché, come scrive San Paolo, “se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme” (1 Cor 12,26).

10. Il mistero di Gesù, morto e risorto per amore, sta al cuore del nostro cammino verso la piena unità. Ancora una volta i martiri sono le nostre guide. Nella Chiesa primitiva il sangue dei martiri fu seme di nuovi Cristiani. Così pure, ai nostri giorni, il sangue di tanti martiri possa essere seme di unità tra tutti i discepoli di Cristo, segno e strumento di comunione e di pace per il mondo.

11. Obbedienti all’azione dello Spirito Santo, che santifica la Chiesa, lungo i secoli la sorregge e conduce a quella piena unità per la quale Cristo ha pregato, oggi noi, Papa Francesco e Papa Tawadros II, al fine di allietare il cuore del Signore Gesù, nonché i cuori dei nostri figli e figlie nella fede, dichiariamo reciprocamente che con un’anima sola e un cuore solo cercheremo, in tutta sincerità, di non ripetere il Battesimo amministrato in una delle nostre Chiese ad alcuno che desideri ascriversi all’altra. Tanto attestiamo in obbedienza alle Sacre Scritture e alla fede espressa nei tre Concili Ecumenici celebrati a Nicea, a Costantinopoli e a Efeso.

Chiediamo a Dio nostro Padre di guidarci, nei tempi e nei modi che lo Spirito Santo disporrà, alla piena unità nel Corpo mistico di Cristo.

12. Pertanto, lasciamoci condurre dagli insegnamenti e dall’esempio dell’Apostolo Paolo, il quale scrive: “[comportatevi] avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti” (Ef 4,3-6).

– Saluto ad un gruppo di giovani egiziani (Nunziatura de Il Cairo)

Buona sera a tutti voi! Sono contento di trovarvi! So che siete venuti in pellegrinaggio: è vero? Se è vero, è perché voi siete coraggiosi!

Domani avremo la Messa nello stadio, tutti insieme, e pregheremo insieme e canteremo insieme e faremo festa insieme!

Prima di ritirarmi, vorrei pregare con voi. Preghiamo insieme il Padre Nostro.

[recita del Padre Nostro in arabo]

E adesso vorrei darvi la benedizione, ma prima ognuno di voi pensi alle persone che ama di più; pensi anche alle persone a cui non vuole bene e in silenzio ognuno di voi preghi per queste persone: per quelle a cui vuole bene e per quelle a cui non vuole bene. E vi do la benedizione, a voi e a queste persone.

[Benedizione]

Viva l’Egitto!

Sabato, 29 aprile 2017

– Omelia nella Santa Messa

Al Salamò Alaikum/ la pace sia con voi!

Oggi il vangelo, nella III Domenica di Pasqua, ci parla dell’itinerario dei due discepoli di Emmaus che lasciarono Gerusalemme. Un vangelo che si può riassumere in tre parole: morte, risurrezione e vita.

Morte. I due discepoli tornano alla loro vita quotidiana, carichi di delusione e disperazione: il Maestro è morto e quindi è inutile sperare. Erano disorientati, illusi e delusi. Il loro cammino è un tornare indietro; è un allontanarsi dalla dolorosa esperienza del Crocifisso. La crisi della Croce, anzi lo “scandalo” e la “stoltezza” della Croce (cfr 1 Cor 1,18; 2,2), sembra aver seppellito ogni loro speranza. Colui sul quale hanno costruito la loro esistenza è morto, sconfitto, portando con sé nella tomba ogni loro aspirazione.

Non potevano credere che il Maestro e il Salvatore che aveva risuscitato i morti e guarito gli ammalati potesse finire appeso alla croce della vergogna. Non potevano capire perché Dio Onnipotente non l’avesse salvato da una morte così ignobile. La croce di Cristo era la croce delle loro idee su Dio; la morte di Cristo era una morte di ciò che immaginavano fosse Dio. Erano loro, infatti, i morti nel sepolcro della limitatezza della loro comprensione.

Quante volte l’uomo si auto-paralizza, rifiutando di superare la propria idea di Dio, di un dio creato a immagine e somiglianza dell’uomo! Quante volte si dispera, rifiutando di credere che l’onnipotenza di Dio non è onnipotenza di forza, di autorità, ma è soltanto onnipotenza di amore, di perdono e di vita!

I discepoli riconobbero Gesù “nello spezzare il pane”, nell’Eucaristia. Se noi non ci lasciamo spezzare il velo che offusca i nostri occhi, se non ci lasciamo spezzare l’indurimento del nostro cuore e dei nostri pregiudizi, non potremo mai riconoscere il volto di Dio.

Risurrezione. Nell’oscurità della notte più buia, nella disperazione più sconvolgente, Gesù si avvicina a loro e cammina sulla loro via perché possano scoprire che Lui è «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Gesù trasforma la loro disperazione in vita, perché quando svanisce la speranza umana incomincia a brillare quella divina: «Ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio» (Lc 18,27; cfr 1,37). Quando l’uomo tocca il fondo del fallimento e dell’incapacità, quando si spoglia dell’illusione di essere il migliore, di essere autosufficiente, di essere il centro del mondo, allora Dio gli tende la mano per trasformare la sua notte in alba, la sua afflizione in gioia, la sua morte in risurrezione, il suo cammino all’indietro in ritorno a Gerusalemme, cioè in ritorno alla vita e alla vittoria della Croce (cfr Eb 11,34).

I due discepoli, difatti, dopo aver incontrato il Risorto, ritornano pieni di gioia, di fiducia e di entusiasmo, pronti alla testimonianza. Il Risorto li ha fatti risorgere dalla tomba della loro incredulità e afflizione. Incontrando il Crocifisso-Risorto hanno trovato la spiegazione e il compimento di tutta la Scrittura, della Legge e dei Profeti; hanno trovato il senso dell’apparente sconfitta della Croce.

Chi non passa attraverso l’esperienza della Croce fino alla Verità della Risurrezione si autocondanna alla disperazione. Infatti, noi non possiamo incontrare Dio senza crocifiggere prima le nostre idee limitate di un dio che rispecchia la nostra comprensione dell’onnipotenza e del potere.

Vita. L’incontro con Gesù risorto ha trasformato la vita di quei due discepoli, perché incontrare il Risorto trasforma ogni vita e rende feconda qualsiasi sterilità.[1] Infatti, la Risurrezione non è una fede nata nella Chiesa, ma la Chiesa è nata dalla fede nella Risurrezione. Dice San Paolo: «Se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede» (1 Cor 15,14).

Il Risorto sparisce dai loro occhi, per insegnarci che non possiamo trattenere Gesù nella sua visibilità storica: «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!» (Gv 20,29; cfr 20,17). La Chiesa deve sapere e credere che Egli è vivo con lei e la vivifica nell’Eucaristia, nelle Scritture e nei Sacramenti. I discepoli di Emmaus capirono questo e tornarono a Gerusalemme per condividere con gli altri la loro esperienza: “Abbiamo visto il Signore … Sì, è davvero risorto!” (cfr Lc 24,32).

L’esperienza dei discepoli di Emmaus ci insegna che non serve riempire i luoghi di culto se i nostri cuori sono svuotati del timore di Dio e della Sua presenza; non serve pregare se la nostra preghiera rivolta a Dio non si trasforma in amore rivolto al fratello; non serve tanta religiosità se non è animata da tanta fede e da tanta carità; non serve curare l’apparenza, perché Dio guarda l’anima e il cuore (cfr 1 Sam 16,7) e detesta l’ipocrisia (cfr Lc 11,37-54; At 5,3-4).[2] Per Dio, è meglio non credere che essere un falso credente, un ipocrita!

La fede vera è quella che ci rende più caritatevoli, più misericordiosi, più onesti e più umani; è quella che anima i cuori per portarli ad amare tutti gratuitamente, senza distinzione e senza preferenze; è quella che ci porta a vedere nell’altro non un nemico da sconfiggere, ma un fratello da amare, da servire e da aiutare; è quella che ci porta a diffondere, a difendere e a vivere la cultura dell’incontro, del dialogo, del rispetto e della fratellanza; ci porta al coraggio di perdonare chi ci offende, di dare una mano a chi è caduto; a vestire chi è nudo, a sfamare l’affamato, a visitare il carcerato, ad aiutare l’orfano, a dar da bere all’assetato, a soccorrere l’anziano e il bisognoso (cfr Mt 25,31-45). La vera fede è quella che ci porta a proteggere i diritti degli altri, con la stessa forza e con lo stesso entusiasmo con cui difendiamo i nostri. In realtà, più si cresce nella fede e nella conoscenza, più si cresce nell’umiltà e nella consapevolezza di essere piccoli.

Cari fratelli e sorelle,

Dio gradisce solo la fede professata con la vita, perché l’unico estremismo ammesso per i credenti è quello della carità! Qualsiasi altro estremismo non viene da Dio e non piace a Lui!

Ora, come i discepoli di Emmaus, tornate alla vostra Gerusalemme, cioè alla vostra vita quotidiana, alle vostre famiglie, al vostro lavoro e alla vostra cara patria pieni di gioia, di coraggio e di fede. Non abbiate paura di aprire il vostro cuore alla luce del Risorto e lasciate che Lui trasformi la vostra incertezza in forza positiva per voi e per gli altri. Non abbiate paura di amare tutti, amici e nemici, perché nell’amore vissuto sta la forza e il tesoro del credente!

La Vergine Maria e la Sacra Famiglia, che vissero su questa terra benedetta, illuminino i nostri cuori e benedicano voi e il caro Egitto che, all’alba del cristianesimo, accolse l’evangelizzazione di San Marco e diede lungo la storia numerosi martiri e una grande schiera di santi e di sante!

Al Massih Kam / Bilhakika kam! – Cristo è Risorto / È veramente Risorto!

[1] Cfr Benedetto XVICatechesi, Udienza generale di mercoledì 11 aprile 2007.

[2] Esclama S. Efrem: «Ma strappate la maschera che copre l’ipocrita e voi non vi vedrete che marciume» (Serm.). «Guai a chi è doppio di cuore!» – dice l’Ecclesiastico (2,14 Volg.).   

– Incontro di preghiera con il clero, i religiosi/e ed i seminaristi

Beatitudini, cari fratelli e sorelle,

Al Salamò Alaikum! (La pace sia con voi!)

“Questo è il giorno fatto dal Signore, rallegriamoci in Lui! Cristo ha vinto la morte per sempre, rallegriamoci in Lui!”.

Sono felice di trovarmi fra voi in questo luogo dove vengono formati i sacerdoti e che rappresenta il cuore della Chiesa Cattolica in Egitto. Sono felice di salutare in voi, sacerdoti, consacrati e consacrate del piccolo gregge cattolico in Egitto, il “lievito” che Dio prepara per questa Terra benedetta, perché, insieme ai nostri fratelli ortodossi, cresca in essa il suo Regno (cfr Mt 13,13).

Desidero innanzitutto ringraziarvi per la vostra testimonianza e per tutto il bene che realizzate ogni giorno, operando in mezzo a tante sfide e spesso poche consolazioni. Desidero anche incoraggiarvi! Non abbiate paura del peso del quotidiano, del peso delle circostanze difficili che alcuni di voi devono attraversare. Noi veneriamo la Santa Croce, strumento e segno della nostra salvezza. Chi scappa dalla Croce scappa dalla Risurrezione!

«Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno» (Lc 12,32).

Si tratta dunque di credere, di testimoniare la verità, di seminare e coltivare senza aspettare il raccolto. In realtà, noi raccogliamo i frutti di una schiera di altri, consacrati e non, che generosamente hanno operato nella vigna del Signore: la vostra storia ne è piena!

E in mezzo a tanti motivi di scoraggiamento e tra tanti profeti di distruzione e di condanna, in mezzo a tante voci negative e disperate, voi siate una forza positiva, siate luce e sale di questa società; siate il locomotore che traina il treno in avanti, diritto verso la mèta; siate seminatori di speranza, costruttori di ponti e operatori di dialogo e di concordia.

Questo è possibile se la persona consacrata non cede alle tentazioni che incontra ogni giorno sulla sua strada. Ne vorrei evidenziare alcune, tra le più significative. Voi le conoscete, perché queste tentazioni sono state ben descritte dai primi monaci dell’Egitto.

1- La tentazione di lasciarsi trascinare e non guidare. Il Buon Pastore ha il dovere di guidare il gregge (cfr Gv 10,3-4), di condurlo all’erba fresca e alla fonte di acqua (cfr Sal 23). Non può farsi trascinare dalla delusione e dal pessimismo: “Cosa posso fare?”. È sempre pieno di iniziative e di creatività, come una fonte che zampilla anche quando è prosciugata; ha sempre la carezza di consolazione anche quando il suo cuore è affranto; è un padre quando i figli lo trattano con gratitudine ma soprattutto quando non gli sono riconoscenti (cfr Lc 15,11-32). La nostra fedeltà al Signore non deve mai dipendere dalla gratitudine umana: «Il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,4.6.18).

2- La tentazione di lamentarsi continuamente. E’ facile accusare sempre gli altri, per le mancanze dei superiori, per le condizioni ecclesiastiche o sociali, per le scarse possibilità… Ma il consacrato è colui che, con l’unzione dello Spirito Santo, trasforma ogni ostacolo in opportunità, e non ogni difficoltà in scusa! Chi si lamenta sempre è in realtà uno che non vuole lavorare. Per questo il Signore rivolgendosi ai Pastori disse: «Rinfrancate le mani inerti e le ginocchia fiacche» (Eb 12,12; cfr Is 35,3).

3- La tentazione del pettegolezzo e dell’invidia. E questa è brutta! Il pericolo è serio quando il consacrato, invece di aiutare i piccoli a crescere e a gioire per i successi dei fratelli e delle sorelle, si lascia dominare dall’invidia e diventa uno che ferisce gli altri col pettegolezzo. Quando, invece di sforzarsi per crescere, inizia a distruggere coloro che stanno crescendo; invece di seguire gli esempi buoni, li giudica e sminuisce il loro valore. L’invidia è un cancro che rovina qualsiasi corpo in poco tempo: «Se un regno è diviso in sé stesso, quel regno non potrà restare in piedi; se una casa è divisa in sé stessa, quella casa non potrà restare in piedi» (Mc 3,24-25). Infatti – non dimenticatevi! –, «per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo» (Sap 2,24). E il pettegolezzo ne è il mezzo e l’arma.

4- La tentazione del paragonarsi con gli altri. La ricchezza sta nella diversità e nell’unicità di ognuno di noi. Paragonarci con coloro che stanno meglio ci porta spesso a cadere nel rancore; paragonarci con coloro che stanno peggio ci porta spesso a cadere nella superbia e nella pigrizia. Chi tende a paragonarsi sempre con gli altri finisce per paralizzarsi. Impariamo dai Santi Pietro e Paolo a vivere la diversità dei caratteri, dei carismi e delle opinioni nell’ascolto e nella docilità allo Spirito Santo.

5- La tentazione del “faraonismo” – siamo in Egitto! –, cioè dell’indurire il cuore e del chiuderlo al Signore e ai fratelli. È la tentazione di sentirsi al di sopra degli altri e quindi di sottometterli a sé per vanagloria; di avere la presunzione di farsi servire invece di servire. È una tentazione comune fin dall’inizio tra i discepoli, i quali – dice il Vangelo – «per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande» (Mc 9,34). L’antidoto di questo veleno è: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti» (Mc 9,35).

6- La tentazione dell’individualismo. Come dice il noto detto egiziano: “Io, e dopo di me il diluvio”. È la tentazione degli egoisti che, strada facendo, perdono la mèta e invece di pensare agli altri pensano a sé stessi, non provandone alcuna vergogna, anzi, giustificandosi. La Chiesa è la comunità dei fedeli, il corpo di Cristo, dove la salvezza di un membro è legata alla santità di tutti (cfr 1 Cor 12,12-27; Lumen gentium, 7). L’individualista invece è motivo di scandalo e di conflittualità.

7- La tentazione del camminare senza bussola e senza mèta. Il consacrato perde la sua identità e inizia a non essere “né carne né pesce”. Vive con cuore diviso tra Dio e la mondanità. Dimentica il suo primo amore (cfr Ap 2,4). In realtà, senza avere un’identità chiara e solida il consacrato cammina senza orientamento e invece di guidare gli altri li disperde. La vostra identità come figli della Chiesa è quella di essere copti – cioè radicati nelle vostre nobili e antiche radici – e di essere cattolici – cioè parte della Chiesa una e universale: come un albero che più è radicato nella terra e più è alto nel cielo! 

Cari sacerdoti, cari consacrati, resistere a queste tentazioni non è facile, ma è possibile se siamo innestati in Gesù: «Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me» (Gv 15,4). Più siamo radicati in Cristo, più siamo vivi e fecondi! Solo così la persona consacrata può conservare la meraviglia, la passione del primo incontro, l’attrazione e la gratitudine nella sua vita con Dio e nella sua missione. Dalla qualità della nostra vita spirituale dipende quella della nostra consacrazione.

L’Egitto ha contribuito ad arricchire la Chiesa con il tesoro inestimabile della vita monastica. Vi esorto, pertanto, ad attingere dall’esempio di San Paolo l’eremita, di Sant’Antonio, dei Santi Padri del deserto, dei numerosi monaci, che con la loro vita e il loro esempio hanno aperto le porte del cielo a tanti fratelli e sorelle; e così anche voi potete essere luce e sale, motivo cioè di salvezza per voi stessi e per tutti gli altri, credenti e non, e specialmente per gli ultimi, i bisognosi, gli abbandonati e gli scartati.

La Santa Famiglia vi protegga e benedica tutti voi, il vostro Paese e tutti i suoi abitanti. Dal profondo del mio cuore auguro a ognuno di voi ogni bene, e tramite voi saluto i fedeli che Dio ha affidato alla vostra cura. Il Signore vi conceda i frutti del suo Santo Spirito: «amore, pace, gioia, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,22).

Sarete sempre presenti nel mio cuore e nella mia preghiera. Coraggio, e avanti con lo Spirito Santo! “Questo è il giorno fatto dal Signore, rallegriamoci in Lui!”. E per favore non vi scordate di pregare per me!

– Conferenza stampa sul volo di ritorno a Roma

Greg Burke:

Grazie, Santo Padre. Ci sono alcuni giornalisti che fanno il viaggio per la prima volta e alcuni che hanno fatto quasi cento viaggi, più di cento! Lei… non so se sa quanti viaggi internazionali ha fatto…

Papa Francesco:

Diciotto.

Greg Burke:

Diciotto. E il diciannovesimo è dietro l’angolo, quindi anche Lei ha un bel numero di viaggi papali, adesso! Grazie per questo momento, che è sempre un momento forte, per noi.

Incominciamo con il gruppo italiano: Paolo Rodari… Non so se Lei vuole dire qualcosa, prima…

Papa Francesco:

Sì. Buonasera! Vi ringrazio per il lavoro, perché sono state 27 ore, credo, di tanto lavoro. Grazie tante per quello che avete fatto. Grazie. E sono a vostra disposizione.

Greg Burke:

Grazie, Santo Padre.

Paolo Rodari, di “Repubblica”:

Santo Padre, grazie. Volevo chiederLe, a proposito del Suo incontro di ieri con il Presidente Al Sisi: di che cosa avete parlato, se Lei ha accennato ai temi dei diritti umani e, in particolare, se ha avuto modo di parlare del caso di Giulio Regeni, e se secondo Lei si arriverà nel merito alla verità.

Papa Francesco:

Su questo darò una risposta generale per poi arrivare al particolare. Generalmente, quando sono con un Capo di Stato, in dialogo privato, quello rimane privato. A meno che, d’accordo, si dica: “Quanto diciamo su questo punto lo renderemo pubblico”. In questo viaggio ho avuto quattro dialoghi privati: con il Grande Imam di Al-Azhar, con il Presidente Al Sisi, con il Patriarca Tawadros e con il Patriarca Ibrahim; e credo che, se il dialogo è privato, per rispetto si deve mantenere la riservatezza. E’ riservato. Poi c’è la domanda su Regeni. Io sono preoccupato. Dalla Santa Sede mi sono mosso su quel tema, perché anche i genitori me l’hanno chiesto; la Santa Sede si è mossa. Non dirò come né dove, ma ci siamo mossi.

Greg Burke:

Darío Menor Torres, “El Correo” español:

Darío Menor Torres, “El Correo”:

Grazie, Santità. Lei ha detto ieri che la pace, la prosperità e lo sviluppo meritano ogni sacrificio, e dopo ha sottolineato l’importanza del rispetto dei diritti inalienabili dell’uomo. Questo significa un supporto al governo egiziano, un riconoscimento del suo ruolo in Medio Oriente, per come prova a difendere i cristiani malgrado le insufficienti garanzie democratiche?

Papa Francesco:

No, no. Si devono interpretare letteralmente come valori in se stessi. Ho detto questo: difendere la pace, difendere l’armonia dei popoli, difendere l’uguaglianza dei cittadini qualunque sia la religione che professano sono valori. Io ho parlato dei valori. Se un governante difende l’uno o l’altro [di tali valori], è un altro problema. Ho fatto diciotto visite in parecchi Paesi. A volte ho sentito: “Il Papa, andando là, dà un appoggio a quel governo…”. Perché sempre un governo ha le sue debolezze o i suoi avversari politici, gli uni dicono una cosa, gli altri un’altra… Io non mi immischio. Io parlo dei valori, e ognuno veda e giudichi se questo governo o questo Stato, o quello o quell’altro, porta avanti quei valori.

Darío Menor Torres:

Le è rimasto il desiderio di visitare le Piramidi?

Papa Francesco:

Ma tu sai che oggi alle sei del mattino i miei due assistenti se ne sono andati a visitare le Piramidi?

Darío Menor Torres:

Ah sì? Ma Le sarebbe piaciuto andare con loro?

Papa Francesco:

Sì, davvero, sì…

Darío Menor Torres:

Grazie mille.

Greg Burke:

Se possiamo rimanere sul tema del viaggio… Virginie Riva del gruppo francese, “Radio Europe 1”:

Virginie Riva, “Radio Europe 1”:

Santo Padre, una domanda partendo dal viaggio ma per allargare alla Francia, se Lei accetta. Lei ha parlato, ad Al-Azhar, all’Università, dei populismi demagogici. I cattolici francesi in questo periodo sono tentati dal voto populista o estremo, sono divisi e disorientati. Quali possono essere gli elementi di discernimento che Lei potrebbe dare a questi elettori cattolici?

Papa Francesco:

Benissimo. C’è una dimensione di “populismo” – tra virgolette, perché voi sapete che questa parola, da parte mia, ho dovuta reimpararla in Europa, perché in America Latina ha un altro significato –. C’è il problema dell’Europa e c’è il problema dell’Unione Europea. Quello che ho detto sull’Europa non lo ripeterò qui: ne ho parlato quattro volte: due a Strasburgo, una al Premio Carlo Magno, e all’inizio della commemorazione del 60° [dei Trattati di Roma]. Lì c’è tutto quello che ho detto sull’Europa. Ogni Paese è libero di fare le scelte che creda convenienti rispetto a questo; io non posso giudicare se quella scelta la fa per questo motivo o per quell’altro, perché non conosco la politica interna. E’ vero che l’Europa è in pericolo di sciogliersi, questo è vero. L’ho detto delicatamente a Strasburgo, l’ho detto più fortemente al Premio Carlo Magno, e ultimamente senza nuances. Su questo dobbiamo solo meditare: l’Europa che va dall’Atlantico agli Urali… C’è un problema che spaventa l’Europa e forse alimenta i populismi: il problema delle migrazioni. Questo è vero. Ma non dimentichiamo che l’Europa è stata fatta dai migranti: secoli e secoli di migranti… Siamo noi! Ma è un problema che si deve studiare bene; e bisogna anche rispettare le opinioni, le opinioni oneste di una discussione politica con la maiuscola, grande: una grande Politica, non la piccola politica del Paese che poi finisce per cadere [per essere inefficace]. Riguardo alla Francia: dico la verità, io non capisco la politica interna francese. Ho cercato di avere buoni rapporti, anche con il Presidente attuale, con il quale c’è stato un conflitto una volta ma dopo ho potuto parlare chiaramente sulle cose, rispettando la sua opinione… Dei due candidati politici [Le Pen e Macron] non so la storia, non so da dove vengano… Sì, so che uno è rappresentante della destra forte, ma l’altro davvero non so da dove venga. Per questo, non posso dare un’opinione chiara sulla Francia. Ma parlando dei cattolici: qui in Egitto, in uno dei raduni, mentre salutavo la gente, uno mi ha detto: “Perché non pensa alla politica alla grande?”- “Cosa vuol dire?”. E mi ha detto, come chiedendo aiuto: “Fare un partito per i cattolici”. Questo signore è buono, ma vive nel secolo scorso! Riguardo ai populismi, hanno un rapporto con i migranti, ma questo non fa parte del viaggio. Se c’è tempo posso tornare su questo. Se c’è tempo, tornerò.

Vera Shcherbakova, Itar-Tass:

Santo Padre, La ringrazio, prima di tutto per la benedizione: Lei mi ha benedetto, io mi sono inginocchiata qualche minuto fa, qui davanti. Io sono ortodossa e non vedo nessuna contraddizione… Volevo chiedere: quali sono le prospettive dei rapporti con gli ortodossi – ovviamente russi, ma anche, ieri, nella Dichiarazione Comune con il Patriarca copto ortodosso –, c’è la data della Pasqua in comune, e si parla anche del riconoscimento del Battesimo… A che punto siamo? E un’altra cosa: come valuta Lei i rapporti tra il Vaticano e la Russia, come Stato, anche alla luce della difesa dei valori dei cristiani del Medio Oriente, soprattutto in Siria?

Greg Burke:

Questa è Vera Shcherbakova dell’agenzia Itar-Tass, l’agenzia russa.

Papa Francesco:

Christòs anèsti! [Cristo è risorto] Con gli ortodossi, ho sempre avuto una grande amicizia, già a Buenos Aires. Per esempio, ogni 6 gennaio andavo ai Vespri, nella vostra cattedrale, dal Patriarca Platon – che adesso è nella zona dell’Ucraina, è arcivescovo –: 2 ore e 40 di preghiera in una lingua che non capivo, ma si poteva pregare bene! E poi la cena con la comunità, trecento persone, una cena della vigilia di Natale – non la cena del Natale, la vigilia – ancora non si potevano mangiare latticini né carne, ma era una bella cena… E poi la tombola, la lotteria… amicizia. Anche gli altri ortodossi. A volte avevano bisogno di aiuto legale: venivano alla Curia cattolica, perché sono comunità piccole, e andavano dagli avvocati… Sempre ho avuto un rapporto fraterno: siamo Chiese sorelle. Con Tawadros ho un’amicizia speciale: per me è un grande uomo di Dio. Tawadros è un Patriarca, un Papa che porterà avanti la Chiesa, il nome di Gesù… Ha uno zelo apostolico grande. Lui è uno dei più – permettimi la parola, ma fra virgolette – “fanatici” sul fatto di trovare la data fissa della Pasqua. Anch’io, ma… cerchiamo il modo. Lui dice: “Lottiamo, lottiamo!”. E’ un uomo di Dio. E’ un uomo che, quando era vescovo, lontano dall’Egitto, andava a dare da mangiare ai disabili; è un uomo che è stato inviato in una diocesi con cinque chiese e ne ha lasciate venticinque, non so quante famiglie cristiane, con lo zelo apostolico. Poi, tu sai come si fa l’elezione tra loro: se ne cercano tre, si scelgono, e poi si mettono i nomi in una borsa, si chiama un bambino, gli si bendano gli occhi e il bambino sceglie il nome… E lì è il Signore! Chiaramente lui è un grande Patriarca. L’unità del battesimo va avanti. La colpa, sul battesimo, è una cosa storica, perché ai tempi dei primi Concili era in comune. Poi, siccome i cristiani copti battezzavano i bambini nei santuari, quando volevano sposarsi e venivano da noi perché si sposavano con una cattolica, si chiedeva qualcosa che facesse fede e non l’avevano, e si faceva il battesimo sotto condizione: così abbiamo incominciato noi, non loro. Ma adesso si è aperta la porta e siamo sulla buona strada per questo problema, per poterlo superare. Nella Dichiarazione Comune, il penultimo paragrafo parla di questo.

Gli ortodossi russi riconoscono il nostro battesimo e noi riconosciamo il loro battesimo. Ero molto amico del vescovo a Buenos Aires, dei russi. Anche con i georgiani, per esempio. Il Patriarca dei georgiani è un uomo di Dio, Elia II, è un mistico! E noi cattolici dobbiamo imparare anche da questa tradizione mistica delle Chiese ortodosse. In questo viaggio abbiamo fatto l’incontro ecumenico: c’era anche il Patriarca Bartolomeo, c’era il Patriarca greco-ortodosso, poi c’erano altri cristiani: gli anglicani, anche il Segretario del Consiglio Ecumenico delle Chiese di Ginevra… Tutto quello che fa l’ecumenismo è in cammino. L’ecumenismo si fa in cammino, con le opere di carità, con l’impegno di aiutare, di fare le cose insieme quando si possono fare insieme… Non esiste un ecumenismo statico. E’ vero che i teologi devono studiare e mettersi d’accordo, ma questo non potrà andare a buon fine se non si cammina. “Cosa possiamo fare adesso?”. Facciamo quello che possiamo fare: pregare insieme, lavorare insieme, fare le opere di carità insieme… Ma insieme! E questo è andare avanti. I rapporti con il Patriarca Kirill sono buoni. Anche l’arcivescovo metropolita Hilarion è venuto parecchie volte a parlare con me, e abbiamo un buon rapporto.

Vera Shcherbakova:

E con lo Stato russo? I cristiani, i valori comuni?…

Papa Francesco:

Sì, io so che lo Stato russo parla di questo, della difesa dei cristiani del Medio Oriente. Questo lo so e credo che sia una cosa buona, parlare, lottare contro la persecuzione. Oggi ci sono più martiri che nei primi secoli, in Medio Oriente soprattutto.

Greg Burke:

Phil Pullella.

Philip Pullella, agenzia Reuters:

Lei ha parlato ieri, nel primo discorso, del pericolo di azioni unilaterali e che tutti devono essere costruttori di pace. Lei ha parlato molto della “terza guerra mondiale a pezzi”. Però sembra che oggi questa paura e ansia sia concentrata su quello che sta succedendo intorno alla Corea del Nord.

Papa Francesco:

Sì, è il punto centrale…

Phil Pullella:

Esatto: è il punto centrale. Il presidente Trump ha mandato una squadra di navi militari al largo della costa della Corea del Nord; il leader della Corea del Nord ha minacciato di bombardare la Corea del Sud, il Giappone e addirittura gli Stati Uniti, se riescono a costruire i missili a lunga gittata; la gente ha paura e si sta parlando della possibilità di una guerra nucleare, come se niente fosse. Allora Lei, se vedrà il presidente Trump, ma anche altre persone, cosa vuole dire a questi leader che hanno la responsabilità del futuro dell’umanità? Perché siamo in un momento abbastanza critico …

Papa Francesco:

Io li chiamo. Li chiamo e li chiamerò, come ho chiamato i leader di diversi luoghi, a un lavoro per risolvere i problemi sulla strada della diplomazia. E ci sono i facilitatori – tanti nel mondo – ci sono mediatori che si offrono: ci sono Paesi come la Norvegia, per esempio; nessuno può accusare la Norvegia di essere un Paese dittatoriale; sempre è pronta ad aiutare… Per citare un esempio, ma ce ne sono tanti… Ma la strada è la strada del negoziato, la strada della soluzione diplomatica. Questa “guerra mondiale a pezzi”, della quale sto parlando da due anni, più o meno, è “a pezzi”, ma i pezzi si sono allargati, ma si sono anche concentrati. Si sono concentrati in punti che già erano “caldi”, perché questa vicenda dei missili della Corea è da un anno che va avanti, ma adesso sembra che la cosa si sia riscaldata troppo. Io chiamo sempre a risolvere i problemi sulla strada diplomatica, con il negoziato… Perché è in gioco il futuro dell’umanità. Oggi una guerra allargata distruggerà non dico la metà dell’umanità, ma una buona parte dell’umanità e della cultura… tutto, tutto. Sarebbe terribile. Credo che oggi l’umanità non sarebbe capace di sopportare. Ma guardiamo a quei Paesi che stanno soffrendo una guerra al loro interno, e dove ci sono fuochi di guerra: il Medio Oriente, per esempio, ma anche in Africa… lo Yemen… Fermiamoci! Cerchiamo, cerchiamo una soluzione diplomatica. E su questo credo che le Nazioni Unite abbiano il dovere di riprendere un po’ la loro  leadership, perché si è annacquata: si è annacquata un po’.

Phil Pullella:

Lei vuole incontrare il presidente Trump quando verrà in Europa? C’è stata una richiesta per questo incontro?

Papa Francesco:

Io non sono stato ancora informato dalla Segreteria di Stato che sia stata fatta una richiesta; ma io ricevo ogni Capo di Stato che chiede udienza.

Greg Burke:

Credo che le domande sul viaggio siano finite. Si può prenderne una ancora? Poi dobbiamo andare a cena, alle sei e mezza. C’è Antonio Pelayo, di Antena 3, che Lei conosce.

Antonio Pelayo:

Santo Padre, la situación en Venezuela ha degenerado últimamente de modo muy grave y ha habido muchas muertes. Quisiera preguntarle si la Santa Sede, y usted personalmente, piensan relanzar esa acción, esa intervención pacificadora, y qué formas podría asumir esta acción.

Papa Francesco:

Hubo una intervención de la Santa Sede bajo pedido fuerte de los cuatro Presidentes que estaban trabajando como facilitadores, y… la cosa no resultó. Y quedó ahí. No resultó porque las propuestas no eran aceptadas, o se diluían, o era un “sí, sí“ pero “no, no”… Todos conocemos la difícil situación de Venezuela, que es un País al que yo quiero mucho. Y sé que ahora están insistiendo; no sé bien de dónde – creo que de los cuatro Presidentes – para relanzar esta facilitación, y están buscando el lugar. Yo creo que tiene que ser con condiciones ya. Condiciones muy claras. Parte de la oposición no quiere esto. Porque es curioso, la misma oposición está dividida. Y, por otro lado, parece que los conflictos se agudizan cada vez más. Pero hay algo de movimiento. Hay algo de movimiento, estuve informado de eso, pero está muy en el aire todavía. Pero todo lo que se pueda hacer por Venezuela hay que hacerlo. Con las garantías necesarias. Si no, jugamos al “tintín pirulero”, y no va la cosa. Gracias.

Greg Burke:

Grazie, Santo Padre. E adesso dobbiamo andare…

Papa Francesco:

Ancora una.

Greg Burke:

Una ancora. C’è un tedesco: Jörg Bremer della Frankfurter Allgemeine.

Jörg Bremer della „Frankfurter Allgemeine“:

Qualche giorno fa, Lei ha parlato sul tema dei rifugiati in Grecia, a Lesbo, e Lei ha usato il termine di “campi di concentramento”, perché sono troppo pieni di gente. Per noi tedeschi ovviamente questo è un termine molto, molto serio e molto vicino a quello di “campo di sterminio”. C’è chi dice che sia stato un Suo lapsus linguae: cosa intendeva dire?

Papa Francesco:

Primo, voi dovete leggere bene tutto quello che ho detto. Ho detto che i più generosi dell’Europa erano l’Italia e la Grecia: lo sono stati, è vero, sono i più vicini alla Libia e alla Siria… Sulla Germania, sempre ho ammirato la capacità di integrazione. Quando io studiavo lì, c’erano tanti turchi, integrati, a Francoforte, tanti, integrati, e conducevano una vita normale. Non è stato un lapsus linguae: ci sono campi di rifugiati che sono veri campi di concentramento. Ce n’è qualcuno forse in Italia, qualcuno altrove… in Germania no, di sicuro. Ma Lei pensi: cosa fanno le persone che sono chiuse in un campo e non possono uscire? Lei pensi a quello che è successo nel Nord Europa quando volevano attraversare il mare per andare in Inghilterra: sono chiusi dentro! Mi ha fatto ridere – e questa è un po’ la cultura italiana – mi ha fatto ridere sapere di un campo di rifugiati in Sicilia – me l’ha raccontato il delegato dell’Azione Cattolica della diocesi di Agrigento – lì, nella zona, ce ne sono due o tre di questi campi, non so di quale diocesi; le autorità di quella città dov’è il campo hanno parlato alla gente del campo di rifugiati e hanno detto: “A voi, stare qui dentro, farà male alla salute mentale; voi dovete uscire. Ma, per favore, non fate cose brutte. Noi non possiamo aprire la porta, ma facciamo un buco, sul retro. Voi uscite, fate una bella passeggiata…”. E così si sono creati rapporti con gli abitanti di quel paesino, rapporti buoni… Questi non fanno delinquenza, non fanno criminalità. Ma il solo fatto di essere chiusi, senza fare niente, questo è un lager, no? Ma non ha nulla a che fare con la Germania, no, no. Grazie.

Greg Burke:

Grazie a Lei, Santo Padre.

Papa Francesco:

Grazie a voi di questo lavoro che fate e che aiuta tanta gente. Voi non sapete il bene che potete fare con le vostre cronache, con i vostri articoli, con i vostri pensieri… Dobbiamo aiutare la gente e aiutare anche la comunicazione, perché la comunicazione e anche la stampa ci porti alle cose buone e non ci porti a disorientamenti che non ci aiutano. Grazie tante, grazie tante. E buona cena. E pregate per me!