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Discorsi nel viaggio in Georgia e Azerbaijan

Georgia

– Incontro con le Autorità, con la Società Civile e con il Corpo Diplomatico nel Cortile del Palazzo Presidenziale (Tiblisi, 30 settembre 2016)

  

Signor Presidente, Distinte Autorità, Illustri Membri del Corpo Diplomatico, Signore e Signori,

Ringrazio Dio Onnipotente per avermi offerto l’opportunità di visitare questa terra benedetta, luogo d’incontro e di vitale scambio tra culture e civiltà, che nel cristianesimo ha trovato, fin dalla predicazione di Santa Nino all’inizio del IV secolo, la sua più profonda identità e il fondamento sicuro dei suoi valori. Come affermò San Giovanni Paolo II visitando la vostra Patria: «Il cristianesimo è diventato il seme della successiva fioritura della cultura georgiana» (Discorso nella Cerimonia di Benvenuto, 8 novembre 1999:  Insegnamenti XXII, 2 [1999], 841), e tale seme continua a produrre i suoi frutti. Nel ricordare con gratitudine il nostro incontro in Vaticano dell’anno scorso e le buone relazioni che la Georgia ha sempre mantenuto con la Santa Sede, ringrazio vivamente Lei, Signor Presidente, per il Suo gradito invito e per le cordiali parole di benvenuto che Ella mi ha rivolto a nome delle Autorità dello Stato e di tutto il popolo georgiano.

La storia plurisecolare della vostra Patria manifesta il radicamento nei valori espressi dalla sua cultura, dalla sua lingua e dalle sue tradizioni, inserendo il Paese a pieno titolo e in modo fecondo e peculiare nell’alveo della civiltà europea; nel medesimo tempo, come evidenzia la sua posizione geografica, esso è quasi un ponte naturale tra l’Europa e l’Asia, una cerniera che facilita le comunicazioni e le relazioni tra i popoli, che ha reso possibili nel corso dei secoli sia i commerci che il dialogo e il confronto delle idee e delle esperienze tra mondi diversi. Come recita con fierezza il vostro inno nazionale: «La mia icona è la mia Patria, […] montagne e valli splendenti sono condivise con Dio». La Patria è come un’icona che definisce l’identità, traccia i lineamenti e la storia, mentre le montagne, innalzandosi libere verso il cielo, ben lungi dall’essere una muraglia insuperabile, danno splendore alle valli, le distinguono e le mettono in relazione, rendendole ognuna diversa dalle altre e tutte solidali con il cielo comune che le sovrasta e le protegge.

Signor Presidente, sono trascorsi 25 anni dalla proclamazione dell’indipendenza della Georgia, la quale durante questo periodo, ritrovando la sua piena libertà, ha costruito e consolidato le sue istituzioni democratiche e ha cercato le vie per garantire uno sviluppo il più possibile inclusivo e autentico. Tutto questo non senza grandi sacrifici, che il popolo ha coraggiosamente affrontato per assicurarsi la tanto agognata libertà. Auspico che il cammino di pace e di sviluppo prosegua con l’impegno solidale di tutte le componenti della società, in modo da creare quelle condizioni di stabilità, equità e rispetto della legalità atte a favorire la crescita e ad aumentare le opportunità per tutti.

Tale autentico e duraturo progresso ha come indispensabile condizione preliminare la pacifica coesistenza fra tutti i popoli e gli Stati della Regione. Ciò richiede che crescano sentimenti di mutua stima e considerazione, i quali non possono tralasciare il rispetto delle prerogative sovrane di ciascun Paese nel quadro del Diritto Internazionale. Al fine di aprire sentieri che portino a una pace duratura e a una vera collaborazione, occorre avere la consapevolezza che i principi rilevanti per un’equa e stabile relazione tra gli Stati sono al servizio della concreta, ordinata e pacifica convivenza tra le Nazioni. In troppi luoghi della terra, infatti, sembra prevalere una logica che rende difficile mantenere le legittime differenze e le controversie – che sempre possono sorgere – in un ambito di confronto e dialogo civile dove prevalgano la ragione, la moderazione e la responsabilità. Questo è tanto più necessario nel presente momento storico, dove non mancano anche estremismi violenti che manipolano e distorcono principi di natura civile e religiosa per asservirli ad oscuri disegni di dominio e di morte.

Occorre che tutti abbiano a cuore in primo luogo la sorte dell’essere umano nella sua concretezza e compiano con pazienza ogni tentativo per evitare che le divergenze sfocino in violenze destinate a provocare enormi rovine per l’uomo e la società. Qualsiasi distinzione di carattere etnico, linguistico, politico o religioso, lungi dall’essere usata come pretesto per trasformare le divergenze in conflitti e i conflitti in interminabili tragedie, può e deve essere per tutti sorgente di arricchimento reciproco a vantaggio del bene comune. Ciò esige che ciascuno possa mettere pienamente a frutto le proprie specificità, avendo anzitutto la possibilità di vivere in pace nella sua terra o di farvi ritorno liberamente se, per qualche motivo, è stato costretto ad abbandonarla. Auspico che i responsabili pubblici continuino ad avere a cuore la situazione di queste persone, impegnandosi nella ricerca di soluzioni concrete anche al di fuori delle irrisolte questioni politiche. Si richiedono lungimiranza e coraggio per riconoscere il bene autentico dei popoli e perseguirlo con determinazione e prudenza, ed è indispensabile avere sempre davanti agli occhi le sofferenze delle persone per proseguire con convinzione il cammino, paziente e faticoso ma anche avvincente e liberante, della costruzione della pace.

La Chiesa Cattolica – presente da secoli in questo Paese e distintasi in particolare per il suo impegno nella promozione umana e nelle opere caritative – condivide le gioie e le apprensioni del popolo georgiano e intende offrire il suo contributo per il benessere e la pace della Nazione, collaborando attivamente con le Autorità e la società civile. Auspico vivamente che essa continui ad apportare il suo genuino contributo alla crescita della società georgiana, grazie alla comune testimonianza della tradizione cristiana che ci unisce, al suo impegno a favore dei più bisognosi e mediante un rinnovato e accresciuto dialogo con l’antica Chiesa Ortodossa Georgiana e le altre comunità religiose del Paese.

Dio benedica la Georgia e le doni pace e prosperità!        

– Incontro con Sua Santità e Beatitudine Ilia II, Catholicos e Patriarca di tutta la Georgia nel Palazzo del Patriarcato (Tiblisi, 30 settembre 2016)

Ringrazio Vostra Santità. Sono profondamente commosso di sentire l’“Ave Maria” che Sua Santità stessa ha composto. Soltanto da un cuore che tanto ama la Santa Madre di Dio, cuore di figlio e anche di bambino, può uscire una cosa così bella.

È per me una grande gioia e una grazia particolare incontrare Vostra Santità e Beatitudine e i venerabili Metropoliti, Arcivescovi e Vescovi, membri del Santo Sinodo. Saluto il Signor Primo Ministro e voi, illustri Rappresentanti del mondo accademico e della cultura.

Santità, Ella inaugurò una pagina nuova nelle relazioni tra la Chiesa Ortodossa di Georgia e la Chiesa Cattolica, compiendo la prima storica visita in Vaticano di un Patriarca georgiano. In quell’occasione scambiò con il Vescovo di Roma il bacio della pace e la promessa di pregare l’uno per l’altro. Così si sono potuti rinforzare i significativi legami, presenti tra noi fin dai primi secoli del cristianesimo. Essi si sono sviluppati e si mantengono rispettosi e cordiali, come manifestano anche la calorosa accoglienza qui riservata ai miei inviati e rappresentanti, le attività di studio e ricerca presso gli Archivi Vaticani e le Università Pontificie da parte di fedeli ortodossi georgiani, la presenza a Roma di una vostra comunità, ospitata in una chiesa della mia diocesi, e la collaborazione con la locale comunità cattolica, soprattutto di carattere culturale. Come pellegrino e amico, sono giunto in questa terra benedetta, mentre volge al culmine per i Cattolici l’Anno giubilare della Misericordia. Anche il santo Papa Giovanni Paolo II si era recato qui, primo tra i Successori di Pietro, in un momento estremamente importante, alle soglie del Giubileo del 2000: era venuto a rinsaldare i «vincoli profondi e forti» con la Sede di Roma (Discorso nella cerimonia di benvenuto, Tbilisi, 8 novembre 1999: Insegnamenti XXII,2 [1999], 843) e a ricordare quanto fosse necessario, alle soglie del terzo millennio, «il contributo della Georgia, antico crocevia di culture e tradizioni, per l’edificazione […] di una civiltà dell’amore» (Discorso nel Palazzo Patriarcale, Tbilisi, 8 novembre 1999: Insegnamenti XXII,2 [1999], 848).

Ora, la Provvidenza divina ci fa nuovamente incontrare e, di fronte a un mondo assetato di misericordia, di unità e di pace, ci chiede che quei vincoli tra noi ricevano nuovo slancio, rinnovato fervore, di cui il bacio della pace e il nostro abbraccio fraterno sono già un segno eloquente. La Chiesa Ortodossa di Georgia, radicata nella predicazione apostolica, in particolare nella figura dell’Apostolo Andrea, e la Chiesa di Roma, fondata sul martirio dell’Apostolo Pietro, hanno così la grazia di rinnovare oggi, in nome di Cristo e a sua gloria, la bellezza della fraternità apostolica. Pietro e Andrea erano infatti fratelli: Gesù li chiamò a lasciare le reti e a diventare, insieme, pescatori di uomini (cfr Mc 1,16-17). Carissimo Fratello, lasciamoci guardare nuovamente dal Signore Gesù, lasciamoci attirare ancora dal suo invito a lasciare ciò che ci trattiene dall’essere insieme annunciatori della sua presenza.

Ci sostiene in questo l’amore che trasformò la vita degli Apostoli. È l’amore senza eguali, che il Signore ha incarnato: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15,13); e che ci ha donato, perché ci amiamo gli uni gli altri come Lui ci ha amato (cfr Gv 15,12). A questo riguardo, il grande poeta di questa terra sembra rivolgere anche a noi alcune sue celebri parole: «Hai letto come gli apostoli scrivono dell’amore, come dicono, come lo lodano? Conoscilo, rivolgi la tua mente a queste parole: l’amore ci innalza» (S. RUSTAVELI, Il Cavaliere nella pelle di tigre, Tbilisi 1988, stanza 785). Davvero l’amore del Signore ci innalza, perché ci permette di elevarci al di sopra delle incomprensioni del passato, dei calcoli del presente e dei timori per l’avvenire.

Il popolo georgiano ha testimoniato nei secoli la grandezza di questo amore. È in esso che ha trovato la forza di rialzarsi dopo innumerevoli prove; è in esso che si è elevato fino alle vette di una straordinaria bellezza artistica. Senza l’amore, infatti, come ha scritto un altro grande poeta, «non regna il sole nella cupola del cielo» e per gli uomini «non esiste né bellezza, né immortalità» (G. TABIDZE, “Senza l’amore”, in Galaktion Tabidze, Tbilisi 1982, 25). Nell’amore trova ragion d’essere l’immortale bellezza del vostro patrimonio culturale, che si esprime in molteplici forme, quali ad esempio la musica, la pittura, l’architettura e la danza. Lei, carissimo Fratello, ne ha dato degna espressione, in modo speciale componendo pregiati inni sacri, alcuni pure in lingua latina e particolarmente cari alla tradizione cattolica. Essi arricchiscono il vostro tesoro di fede e cultura, dono unico alla cristianità e all’umanità, che merita di essere conosciuto e apprezzato da tutti.

La gloriosa storia del Vangelo in questa terra si deve in modo speciale a Santa Nino, che agli Apostoli viene equiparata: ella diffuse la fede nel segno particolare della croce fatta di legno di vite. Non si tratta di una croce spoglia, perché l’immagine della vite, oltre al frutto che eccelle in questa terra, rappresenta il Signore Gesù. Egli, infatti, è «la vite vera», e chiese ai suoi Apostoli di rimanere fortemente innestati in Lui, come tralci, per portare frutto (cfr Gv 15,1-8). Perché il Vangelo porti frutto anche oggi, ci viene chiesto, carissimo Fratello, di rimanere ancora più saldi nel Signore e uniti tra noi. La moltitudine di Santi che questo Paese annovera ci incoraggi a mettere il Vangelo prima di tutto e ad evangelizzare come in passato, più che in passato, liberi dai lacci delle precomprensioni e aperti alla perenne novità di Dio. Le difficoltà non siano impedimenti, ma stimoli a conoscerci meglio, a condividere la linfa vitale della fede, a intensificare la preghiera gli uni per gli altri e a collaborare con carità apostolica nella testimonianza comune, a gloria di Dio nei cieli e a servizio della pace in terra.

Il popolo georgiano ama celebrare, brindando con il frutto della vite, i valori più cari. Insieme all’amore che innalza, un ruolo particolare è riservato all’amicizia. «Chi non cerca un amico, di sé stesso è nemico», ricorda ancora il poeta (S. RUSTAVELI, Il Cavaliere nella pelle di tigre, stanza 847). Desidero essere amico sincero di questa terra e di questa cara popolazione, che non dimentica il bene ricevuto e il cui tratto ospitale si sposa con uno stile di vita genuinamente speranzoso, pur in mezzo a difficoltà che non mancano mai. Anche questa positività trova le proprie radici nella fede, che porta i Georgiani a invocare, attorno alla propria tavola, la pace per tutti e a ricordare persino i nemici.

Con la pace e il perdono siamo chiamati a vincere i nostri veri nemici, che non sono di carne e di sangue, ma sono gli spiriti del male fuori e dentro di noi (cfr Ef 6,12). Questa terra benedetta è ricca di valorosi eroi secondo il Vangelo, che come San Giorgio hanno saputo sconfiggere il male. Penso ai tanti monaci e in modo particolare ai numerosi martiri, la cui vita ha trionfato «con la fede e la pazienza» (IOANE SABANISZE, Martirio di Abo, III): è passata nel torchio del dolore restando unita al Signore e ha così portato un frutto pasquale, irrigando il suolo georgiano di sangue versato per amore. La loro intercessione dia sollievo ai tanti cristiani che ancor oggi nel mondo soffrono persecuzioni e oltraggi, e rafforzi in noi il buon desiderio di essere fraternamente uniti per annunciare il Vangelo della pace.

[Dopo lo scambio dei doni]

Grazie, Santità. Che Dio benedica Sua Santità e la Chiesa Ortodossa della Georgia. Grazie, Santità. E che possa andare avanti nel cammino della libertà.

[…]

Grazie Santità dell’accoglienza e delle Sue parole. Grazie della Sua benevolenza e anche di questo impegno fraterno di pregare l’uno per l’altro dopo esserci dato il bacio della pace. Grazie.

            

– Incontro con la Comunità Assiro-Caldea nella chiesa cattolica caldea di S. Simone Bar Sabbae (Tiblisi 30 settembre 2016)

Signore Gesù,adoriamo la tua croce,che ci libera dal peccato, origine di ogni divisione e di ogni male;annunciamo la tua risurrezione,che riscatta l’uomo dalla schiavitù del fallimento e della morte;attendiamo la tua venuta nella gloria,che porta a compimento il tuo regno di giustizia, di gioia e di pace. Signore Gesù,per la tua gloriosa passione,vinci la durezza dei cuori, prigionieri dell’odio e dell’egoismo;per la potenza della tua risurrezione,strappa dalla loro condizione le vittime dell’ingiustizia e della sopraffazione;per la fedeltà della tua venuta,confondi la cultura della morte e fa’ risplendere il trionfo della vita. Signore Gesù,unisci alla tua croce le sofferenze di tante vittime innocenti:i bambini, gli anziani, i cristiani perseguitati;avvolgi con la luce della Pasqua chi è ferito nel profondo:le persone abusate, private della libertà e della dignità;fa’ sperimentare la stabilità del tuo regno a chi vive nell’incertezza:gli esuli, i profughi, chi ha smarrito il gusto della vita. Signore Gesù,stendi l’ombra della tua croce sui popoli in guerra:imparino la via della riconciliazione, del dialogo e del perdono;fa’ gustare la gioia della tua risurrezione ai popoli sfiniti dalle bombe:solleva dalla devastazione l’Iraq e la Siria;riunisci sotto la tua dolce regalità i tuoi figli dispersi:sostieni i cristiani della diaspora e dona loro l’unità della fede e dell’amore. Vergine Maria, regina della pace,tu che sei stata ai piedi della croce,ottieni dal tuo Figlio il perdono dei nostri peccati;tu che non hai mai dubitato della vittoria della risurrezione,sostieni la nostra fede e la nostra speranza;tu che siedi regina nella gloria,insegnaci la regalità del servizio e la gloria dell’amore.

Amen.

– Omelia nella Messa nello stadio M. Meskhi  (1° ottobre 2016) 

Tra i tanti tesori di questo splendido Paese risalta il grande valore delle donne. Esse – scriveva Santa Teresa di Gesù Bambino, di cui facciamo oggi memoria – «amano Dio in numero ben più grande degli uomini» (Scritti autobiografici, Manoscritto A, 66). Qui in Georgia ci sono tante nonne e madri che continuano a custodire e tramandare la fede, seminata in questa terra da Santa Nino, e portano l’acqua fresca della consolazione di Dio in tante situazioni di deserto e conflitto.

Questo ci aiuta a comprendere la bellezza di quanto il Signore dice oggi nella prima lettura: «Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò» (Is 66,13). Come una madre prende su di sé i pesi e le fatiche dei suoi figli, così Dio ama farsi carico dei nostri peccati e delle nostre inquietudini; Egli, che ci conosce e ci ama infinitamente, è sensibile alla nostra preghiera e sa asciugare le nostre lacrime. Guardandoci, ogni volta si commuove e si intenerisce, con un amore viscerale, perché, al di là del male di cui siamo capaci, siamo sempre i suoi figli; desidera prenderci in braccio, proteggerci, liberarci dai pericoli e dal male. Lasciamo risuonare nel nostro cuore queste parole che oggi ci rivolge: “Come una madre, io vi consolerò”.

La consolazione di cui abbiamo bisogno, in mezzo alle vicende turbolente della vita, è proprio la presenza di Dio nel cuore. Perché la sua presenza in noi è la fonte della vera consolazione, che rimane, che libera dal male, porta la pace e fa crescere la gioia. Per questo, se vogliamo vivere da consolati, occorre far posto al Signore nella vita. E perché il Signore abiti stabilmente in noi, bisogna aprirgli la porta e non tenerlo fuori. Ci sono delle porte della consolazione da tenere sempre aperte, perché Gesù ama entrare da lì: il Vangelo letto ogni giorno e portato sempre con noi, la preghiera silenziosa e adorante, la Confessione, l’Eucaristia. Attraverso queste porte il Signore entra e dà un sapore nuovo alle cose. Ma quando la porta del cuore si chiude, la sua luce non arriva e si resta al buio. Allora ci abituiamo al pessimismo, alle cose che non vanno, alle realtà che mai cambieranno. E finiamo per rinchiuderci nella tristezza, nei sotterranei dell’angoscia, soli dentro di noi. Se invece spalanchiamo le porte della consolazione, entra la luce del Signore!

Ma Dio non ci consola solo nel cuore; tramite il profeta Isaia infatti aggiunge: «A Gerusalemme sarete consolati» (66,13). A Gerusalemme, cioè nella città di Dio, nella comunità: quando siamo uniti, quando c’è comunione tra noi agisce la consolazione di Dio. Nella Chiesa si trova consolazione, è la casa della consolazione: qui Dio desidera consolare. Possiamo chiederci: io, che sto nella Chiesa, sono portatore della consolazione di Dio? So accogliere l’altro come ospite e consolare chi vedo stanco e deluso? Pur quando subisce afflizioni e chiusure, il cristiano è sempre chiamato a infondere speranza a chi è rassegnato, a rianimare chi è sfiduciato, a portare la luce di Gesù, il calore della sua presenza, il ristoro del suo perdono. Tanti soffrono, sperimentano prove e ingiustizie, vivono nell’inquietudine. C’è bisogno dell’unzione del cuore, di questa consolazione del Signore che non toglie i problemi, ma dona la forza dell’amore, che sa portare il dolore in pace. Ricevere e portare la consolazione di Dio: questa missione della Chiesa è urgente. Cari fratelli e sorelle, sentiamoci chiamati a questo: non a fossilizzarci in ciò che non va attorno a noi o a rattristarci per qualche disarmonia che vediamo tra di noi. Non fa bene abituarsi a un “microclima” ecclesiale chiuso; ci fa bene condividere orizzonti ampi, orizzonti aperti di speranza, vivendo il coraggio umile di aprire le porte e uscire da noi stessi.

C’è però una condizione di fondo per ricevere la consolazione di Dio, che la sua Parola oggi ci ricorda: diventare piccoli come bambini (cfr Mt 18,3-4), essere «come un bimbo in braccio a sua madre» (Sal 130,2). Per accogliere l’amore di Dio è necessaria questa piccolezza di cuore: solo da piccoli, infatti, si può essere tenuti in braccio dalla mamma.

Chi si fa piccolo come un bambino – ci dice Gesù – «è il più grande nel regno dei cieli» (Mt 18,4). La vera grandezza dell’uomo consiste nel farsi piccolo davanti a Dio. Perché Dio non si conosce con pensieri alti e tanto studio, ma con la piccolezza di un cuore umile e fiducioso. Per essere grandi davanti all’Altissimo non bisogna accumulare onori e prestigio, beni e successi terreni, ma svuotarsi di sé. Il bambino è proprio colui che non ha niente da dare e tutto da ricevere. È fragile, dipende dal papà e dalla mamma. Chi si fa piccolo come un bimbo diventa povero di sé, ma ricco di Dio.

I bambini, che non hanno problemi a capire Dio, hanno tanto da insegnarci: ci dicono che Egli compie grandi cose con chi non gli fa resistenza, con chi è semplice e sincero, privo di doppiezze. Ce lo mostra il Vangelo, dove si operano grandi meraviglie con piccole cose: con pochi pani e due pesci (cfr Mt 14,15-20), con un granello di senape (cfr Mc 4,30-32), con un chicco di grano che muore in terra (cfr Gv 12,24), con un solo bicchiere d’acqua donato (cfr Mt 10,42), con due monetine di una povera vedova (cfr Lc 21,1-4), con l’umiltà di Maria, la serva del Signore (cfr Lc 1,46-55).

Ecco la grandezza sorprendente di Dio, di un Dio pieno di sorprese e che ama le sorprese: non perdiamo mai il desiderio e la fiducia delle sorprese di Dio! E ci farà bene ricordare che siamo sempre e anzitutto figli suoi: non padroni della vita, ma figli del Padre; non adulti autonomi e autosufficienti, ma figli sempre bisognosi di essere presi in braccio, di ricevere amore e perdono. Beate le comunità cristiane che vivono questa genuina semplicità evangelica! Povere di mezzi, sono ricche di Dio. Beati i Pastori che non cavalcano la logica del successo mondano, ma seguono la legge dell’amore: l’accoglienza, l’ascolto, il servizio. Beata la Chiesa che non si affida ai criteri del funzionalismo e dell’efficienza organizzativa e non bada al ritorno di immagine. Piccolo amato gregge di Georgia, che tanto ti dedichi alla carità e alla formazione, accogli l’incoraggiamento del Buon Pastore, affidati a Lui che ti prende sulle spalle e ti consola!

Vorrei riassumere questi pensieri con alcune parole di Santa Teresa di Gesù Bambino, che oggi ricordiamo. Ella ci indica la sua “piccola via” verso Dio, «l’abbandono del piccolo bambino, che si addormenta senza timore tra le braccia di suo padre», perché «Gesù non domanda grandi gesti, ma solo l’abbandono e la riconoscenza» (Scritti autobiografici, Manoscritto B, 1). Purtroppo, però – scriveva allora ma è vero anche oggi – Dio trova «pochi cuori che si abbandonino a lui senza riserve, che comprendano tutta la tenerezza del suo Amore infinito» (ibid.). La giovane santa e Dottore della Chiesa, invece, era esperta nella «scienza dell’Amore» (ibid.) e ci insegna che «la carità perfetta consiste nel sopportare i difetti degli altri, nel non sorprendersi delle loro debolezze, nell’essere edificati anche dai minimi atti di virtù che li si vede praticare»; ci ricorda anche che «la carità non può rimanere chiusa nel fondo del cuore» (Manoscritto C, 12). Chiediamo oggi, tutti insieme, la grazia di un cuore semplice, che crede e vive nella forza mite dell’amore; chiediamo di vivere con la serena e totale fiducia nella misericordia di Dio.

SALUTO AL TERMINE DELLA S. MESSA

Sono grato a Mons. Pasotto per le cortesi parole che mi ha rivolto a nome delle Comunità latina, armena e assiro-caldea. Saluto il Patriarca Sako e i Vescovi Caldei, Mons. Minassian e quanti sono giunti dalla vicina Armenia, e voi tutti, cari fedeli provenienti da diverse regioni della Georgia. Ringrazio il Signor Presidente, le autorità, i cari amici della Chiesa Apostolica Armena e delle confessioni cristiane qui convenute, e in modo particolare i fedeli della Chiesa Ortodossa Georgiana presenti. Mentre vi chiedo per favore di pregare per me, assicuro il mio ricordo per tutti voi e rinnovo il mio grazie. Didi madloba! [molte grazie!]           

– Incontro con Sacerdoti, Religiosi, Religiose, Seminaristi e Agenti di Pastorale nella chiesa dell’Assunta  

Buonasera! Grazie, caro Fratello, grazie a Lei. Adesso parlerò per tutti, mischiando tutte le domande.

Quando tu [si riferisce al sacerdote che ha fatto la testimonianza] hai parlato, alla fine mi è venuto in mente – e lui [Mons. Minassian] è testimone – una cosa che è accaduta alla fine della Messa a Gyumri [in Armenia]. Finita la Messa, ho invitato a salire sulla “papamobile” Sua Eccellenza e anche il Vescovo della Chiesa Apostolica Armena della stessa città. Eravamo tre vescovi: il Vescovo di Roma, il Vescovo cattolico di Gyumri e il Vescovo Armeno Apostolico. Tutti e tre: è una bella macedonia! Abbiamo fatto il giro e poi siamo scesi. E quando io andavo a prendere la macchina, una vecchietta, lì, mi faceva segno di avvicinarmi. Quanti anni aveva? Ottanta? Non era vecchietta… Sembrava di più, sembrava ottanta e più… Io ho sentito nel cuore la voglia di avvicinarmi a salutarla, perché era dietro le transenne. Era una donna umile, molto umile. Mi ha salutato con amore… Aveva un dente d’oro, come si usava in altri tempi… E mi ha detto questo: “Io sono armena, ma abito in Georgia. E sono venuta dalla Georgia!”. Aveva viaggiato otto ore, o sei ore nel bus, per incontrare il Papa. Poi, il giorno dopo, quando andavamo non ricordo dove – due ore e più – l’ho trovata lì! Le ho detto: “Ma, signora, lei è venuta dalla Georgia… Tante ore di viaggio. E poi due ore in più, il giorno dopo, per trovarmi…” – “Eh si! E’ la fede!”, mi ha detto. Tu hai parlato di essere saldi nella fede. Essere saldi nella fede è la testimonianza che ha dato questa donna. Credeva che Gesù Cristo, Figlio di Dio, ha lasciato Pietro sulla terra e lei voleva vedere Pietro.

Saldi nella fede significa capacità di ricevere dagli altri la fede, conservarla e trasmetterla. Tu hai detto, parlando di questo essere saldi nella fede: “tenere viva la memoria del passato, la storia nazionale e avere il coraggio di sognare e di costruire un futuro luminoso”. Saldi nella fede significa non dimenticare quello che noi abbiamo imparato, anzi, farlo crescere e darlo ai nostri figli. Per questo a Cracovia ho dato come missione speciale ai giovani quella di parlare con i nonni. Sono i nonni che ci hanno trasmesso la fede. E voi che lavorate con i giovani dovete insegnare loro ad ascoltare i nonni, a parlare con i nonni, per ricevere l’acqua fresca della fede, elaborarla nel presente, farla crescere – non nasconderla in un cassetto, no – elaborarla, farla crescere e trasmetterla ai nostri figli.

L’Apostolo Paolo, parlando al suo discepolo prediletto, Timoteo, nella Seconda Lettera, gli diceva di conservare salda la fede che aveva ricevuto dalla mamma e dalla nonna. Questa è la strada che noi dobbiamo seguire, e questo ci farà maturare tanto. Ricevere l’eredità, farla germogliare e darla. Una pianta senza radici non cresce. Una fede senza la radice della mamma e della nonna non cresce. Anche una fede che mi è stata data e che io non do agli altri, ai più piccoli, ai miei “figli” non cresce.

Dunque, per riassumere: per essere saldi nella fede bisogna avere memoria del passatocoraggio nel presente e speranza nel futuro. Questo, riguardo all’essere saldi nella fede. E non dimenticare quella signora georgiana, che è stata capace di andare col bus – 6/7 ore – in Armenia, nella città di Gyumri, dove lui [Mons. Minassian] è il vescovo, e il giorno dopo andare a trovare il Papa un’altra volta a Yerevan. Non dimenticare quell’immagine! E’ una donna che abita qui: è una donna armena, ma della Georgia! E le donne georgiane hanno fama, hanno grande fama di essere donne di fede, forti, che portano avanti la Chiesa!

E tu, Kote [il seminarista], una volta hai detto a tua mamma: “Io voglio fare quello che fa quell’uomo” [il sacerdote che celebra la Messa]. E alla fine del tuo intervento hai detto: “Io sono fiero di essere cattolico e di diventare un prete cattolico georgiano”. E’ tutto un percorso… Tu non hai detto che cosa disse tua mamma… Che cosa ti disse tua mamma quando tu le hai detto: “Io voglio fare quello che fa quell’uomo”? [Risponde: “Ero piccolo e la mia mamma mi ha detto: Va bene, fai quello che fa lui!… Ma ero piccolo…]. Ancora una volta la mamma, la donna georgiana forte. Quella donna “perdeva” un figlio, ma lodava Dio. Lo ha accompagnato nel suo cammino. E la mamma di Kote perdeva anche l’opportunità di diventare suocera!… Questo è l’inizio di una vocazione; e lì c’è sempre la mamma, la nonna… Ma tu hai detto la parola chiave: memoria. Conservare la memoria della prima chiamata. Custodire quel momento, come tu custodisci quel ricordo: “Mamma, io voglio fare quello che fa quell’uomo”. Perché questa non è una favola che è venuta nella tua mente: è stato lo Spirito Santo a toccarti. E custodire questo con la memoria è custodire la grazia dello Spirito Santo. Parlo a tutti i preti e le suore!

Tutti noi, nella nostra vita, abbiamo – o avremo – momenti bui. Anche noi consacrati abbiamo momenti bui. Quando sembra che la cosa non vada avanti, quando ci sono difficoltà di convivenza nella comunità, nella diocesi… In quei momenti, quello che si deve fare è fermarsi, fare memoria. Memoria del momento in cui io sono stato toccato o toccata dallo Spirito Santo. Come lui ha detto, del momento in cui lui disse: “Mamma, io voglio fare quello che fa quell’uomo”: il momento in cui ci tocca lo Spirito Santo. La perseveranza nella vocazione è radicata nella memoria di quella carezza che il Signore ci ha fatto e con cui ci ha detto: “Vieni, vieni con me”. E questo è quello che io consiglio a tutti voi consacrati: non tornare indietro, quando ci sono le difficoltà. E se volete guardare indietro, sia la memoria di quel momento. L’unico. E così la fede rimane salda, la vocazione rimane salda… Con le nostre debolezze, con i nostri peccati; tutti siamo peccatori e tutti abbiamo bisogno di confessarci, ma la misericordia e l’amore di Gesù sono più grandi dei nostri peccati.

E adesso vorrei parlare di due cose che avete detto… Ma [prima] dimmi: è tanto forte il freddo in Kazakhstan, in inverno? Sì?… Ma vai avanti lo stesso!

E adesso, Irina. Abbiamo parlato con il prete, con i religiosi, con i consacrati della fede salda; ma come è la fede nel matrimonio? Il matrimonio è la cosa più bella che Dio ha creato. La Bibbia ci dice che Dio ha creato l’uomo e la donna, li ha creati a sua immagine (cfr Gen 1,27). Cioè, l’uomo e la donna che diventano una sola carne sono immagine di Dio. Io ho capito, Irina, quando tu spiegavi le difficoltà che tante volte vengono nel matrimonio: le incomprensioni, le tentazioni… “Mah, risolviamo la cosa per la strada del divorzio, e così io mi cerco un altro, lui si cerca un’altra, e incominciamo di nuovo”. Irina, tu sai chi paga le spese del divorzio? Due persone, pagano. Chi paga?

[Irina risponde: tutti e due]

Tutti e due? Di più! Paga Dio, perché quando si divide “una sola carne”, si sporca l’immagine di Dio. E pagano i bambini, i figli. Voi non sapete, cari fratelli e sorelle, voi non sapete quanto soffrono i bambini, i figli piccoli, quando vedono le liti e la separazione dei genitori! Si deve fare di tutto per salvare il matrimonio. Ma è normale che nel matrimonio si litighi? Sì, è normale. Succede. Alle volte “volano i piatti”. Ma se è vero amore, allora si fa la pace subito. Io consiglio agli sposi: litigate finché volete, litigate finché volete ma non finite la giornata senza fare la pace. Sapete perché? Perché la “guerra fredda” del giorno dopo è pericolosissima. Quanti matrimoni si salvano se hanno il coraggio, alla fine della giornata, di non fare un discorso, ma una carezza, ed è fatta la pace! Ma è vero, ci sono situazioni più complesse, quando il diavolo si immischia e mette davanti all’uomo una donna che gli sembra più bella della sua, o quando mette davanti a una donna un uomo che le sembra più bravo del suo. Chiedete aiuto subito. Quando viene questa tentazione, chiedete aiuto subito.

E’ questo quello che tu [Irina] dicevi, di aiutare le coppie. E come si aiutano le coppie? Si aiutano con l’accoglienza, la vicinanza, l’accompagnamento, il discernimento e l’integrazione nel corpo della Chiesa. Accogliere, accompagnare, discernere e integrare. Nella comunità cattolica si deve aiutare a salvare i matrimoni. Ci sono tre parole: sono parole d’oro nella vita del matrimonio. Io domanderei ad una coppia: “Vi volete bene?” – “Sì”, diranno. “E quando c’è qualcosa che uno fa per l’altro, sapete dire grazie? E se uno dei due fa una diavoleria, sapete chiedere scusa? E se voi volete portare avanti un progetto, [ad esempio] passare una giornata in campagna, o qualsiasi cosa, sapete chiedere l’opinione dell’altro?”. Tre parole: “Cosa ti sembra? Posso?”; “grazie”; “scusa”. Se nelle coppie si usano queste parole: “Scusami, ho sbagliato”; “Posso fare questo?”; o “Grazie di quel bel pasto che mi hai fatto”; “Posso?”, “grazie”, “scusa”, se si utilizzano queste tre parole, il matrimonio andrà avanti bene. E’ un aiuto.

Tu, Irina, hai menzionato un grande nemico del matrimonio, oggi: la teoria del gender. Oggi c’è una guerra mondiale per distruggere il matrimonio. Oggi ci sono colonizzazioni ideologiche che distruggono, ma non si distrugge con le armi, si distrugge con le idee. Pertanto, bisogna difendersi dalle colonizzazioni ideologiche. Se ci sono problemi, fare la pace al più presto possibile, prima che finisca la giornata, e non dimenticare le tre parole: “permesso”, “grazie”, “perdonami”.

E tu, Kote, hai parlato di una Chiesa aperta, che non si chiuda in sé stessa, che sia una Chiesa per tutti, una Chiesa madre – la mamma è così. Ci sono due donne che Gesù ha voluto per tutti noi: sua madre e la sua sposa. E queste due si assomigliano. La madre è la madre di Gesù, e lui l’ha lasciata come madre nostra. La Chiesa è la sposa di Gesù ed è anch’essa nostra madre. Con la madre Chiesa e la madre Maria si può andare avanti sicuri. E lì troviamo ancora una volta la donna. Sembra che il Signore abbia una preferenza per portare avanti la fede nelle donne. Maria, la Santa Madre di Dio; la Chiesa, la Santa Sposa di Dio – pur se peccatrice in noi, suoi figli – e la nonna e la mamma che ci hanno dato la fede.

E sarà Maria, sarà la Chiesa, sarà la nonna, sarà la mamma a difendere la fede. I vostri antichi monaci dicevano questo – sentite bene: “Quando ci sono le turbolenze spirituali, bisogna rifugiarsi sotto il manto della Santa Madre di Dio”. E Maria è il modello della Chiesa, è il modello della donna, sì, perché la Chiesa è donna e Maria è donna.

Adesso un’ultima cosa… Chi lo ha detto? Proprio Kote, un’altra volta: il problema dell’ecumenismo. Mai litigare! Lasciamo che i teologi studino le cose astratte della teologia. Ma che cosa devo fare io con un amico, un vicino, una persona ortodossa? Essere aperto, essere amico. “Ma devo fare forza per convertirlo?”. C’è un grosso peccato contro l’ecumenismo: il proselitismo. Mai si deve fare proselitismo con gli ortodossi! Sono fratelli e sorelle nostri, discepoli di Gesù Cristo. Per situazioni storiche tanto complesse siamo diventati così. Sia loro sia noi crediamo nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo, crediamo nella Santa Madre di Dio. “E cosa devo fare?”. Non condannare, no, non posso. Amicizia, camminare insieme, pregare gli uni per gli altri. Pregare e fare opere di carità insieme, quando si può. E’ questo l’ecumenismo. Ma mai condannare un fratello o una sorella, mai non salutarla perché è ortodossa.

Vorrei finire ancora con il povero Kote. “Santo Padre – tu dicevi alla fine – io sono fiero di essere cattolico e di diventare un prete cattolico georgiano”. A te e a tutti voi, cattolici georgiani, chiedo, per favore, di difenderci dalla mondanità. Gesù ci ha parlato con tanta forza contro la mondanità; e nel discorso dell’Ultima Cena ha chiesto al Padre: “Padre, difendili [i discepoli] dalla mondanità. Difendili dal mondo”. Chiediamo questa grazia tutti insieme: che il Signore ci liberi dalla mondanità; ci faccia uomini e donne di Chiesa; saldi nella fede che abbiamo ricevuto dalla nonna e dalla mamma; saldi nella fede che è sicura sotto la protezione del manto della Santa Madre di Dio.

E così, come stiamo, senza muoverci, preghiamo la Santa Madre di Dio, l’Ave Maria.

[Recita: Ave Maria]

E adesso vi darò la benedizione. E vi chiedo, per favore, di pregare per me.

[Benedizione]

Pregate per me.

– Incontro con gli assistiti e con gli operatori delle Opere di carità della Chiesa davanti al Centro di assistenza dei Camilliani   

ari fratelli e sorelle,

vi saluto con affetto e sono lieto di incontrarmi con voi, operatori di carità qui in Georgia, che mediante la vostra sollecitudine esprimete in maniera eloquente l’amore al prossimo, distintivo dei discepoli di Cristo. Ringrazio P. Zurab per le parole che mi ha rivolto a nome di tutti. Voi rappresentate i diversi centri caritativi del Paese: Istituti religiosi maschili e femminili, Caritas, Associazioni ecclesiali e altre organizzazioni, gruppi di volontariato. A ciascuno va il mio apprezzamento per l’impegno generoso al servizio dei più bisognosi.

La vostra attività è un cammino di collaborazione fraterna tra i cristiani di questo Paese e tra fedeli di diversi riti. Questo incontrarsi nel segno della carità evangelica è testimonianza di comunione e favorisce il cammino dell’unità. Vi incoraggio a proseguire su questa strada esigente e feconda: le persone povere e deboli sono la “carne di Cristo” che interpella i cristiani di ogni confessione, spronandoli ad agire senza interessi personali, ma unicamente seguendo la spinta dello Spirito Santo.

Un saluto speciale rivolgo agli anziani, agli ammalati, ai sofferenti e agli assistiti dalle diverse realtà caritative. Mi rallegra poter stare un po’ con voi e incoraggiarvi: Dio non vi abbandona mai, vi è sempre vicino, pronto ad ascoltarvi, a darvi forza nei momenti di difficoltà. Voi siete prediletti da Gesù, che ha voluto immedesimarsi nelle persone sofferenti, soffrendo Egli stesso nella sua passione.

Le iniziative della carità sono il frutto maturo di una Chiesa che serve, che offre speranza e che manifesta la misericordia di Dio. Pertanto, cari fratelli e sorelle, la vostra missione è grande! Continuate a vivere la carità nella Chiesa e a manifestarla in tutta la società con l’entusiasmo dell’amore che viene da Dio. La Vergine Maria, icona dell’amore gratuito, vi guidi e vi protegga. Vi sostenga anche la benedizione del Signore che di cuore invoco su tutti voi.               

– Visita alla Cattedrale Patriarcale di Svetitskhoveli a Mtskheta

Santità, Signor Primo Ministro, distinte Autorità e illustri Membri del Corpo Diplomatico, carissimi Vescovi e Sacerdoti, cari fratelli e sorelle,

al culmine del mio pellegrinaggio in terra di Georgia, sono grato a Dio di poter sostare in raccoglimento in questo tempio santo. Qui desidero anche ringraziare vivamente per l’accoglienza ricevuta, per la vostra toccante testimonianza di fede, che mi ha fatto tanto bene; e anche ringraziare vivamente per il cuore buono dei Georgiani. Mi vengono alla mente, Santità, le parole del Salmo: «Com’è bello e com’è dolce che i fratelli vivano insieme! È come olio prezioso versato sul capo» (Sal 133,1-2). Carissimo Fratello, il Signore, che ci ha dato la gioia di incontrarci e di scambiare il bacio santo, riversi su di noi l’unguento profumato della concordia e faccia scendere copiose benedizioni sul nostro cammino e sul cammino di questo amato popolo.

La lingua georgiana è ricca di espressioni significative che descrivono la fraternità, l’amicizia e la prossimità tra le persone. Ve n’è una, nobile e genuina, che manifesta la disponibilità a sostituirsi all’altro, la volontà di farsene carico, di dirgli con la vita “vorrei essere al tuo posto”: shen genatsvale. Condividere nella comunione della preghiera e nell’unione degli animi le gioie e le angosce, portando i pesi gli uni degli altri (cfr Gal 6,2): sia questo fraterno atteggiamento cristiano a segnare la via del nostro cammino insieme.

Questa grandiosa Cattedrale, che custodisce molti tesori di fede e di storia, ci invita a fare memoria del passato. È quanto mai necessario, perché «la caduta del popolo comincia là, dove finisce la memoria del passato» (I. Chavchavadze, Il popolo e la storia, inIveria, 1888). La storia della Georgia è come un libro antico che ad ogni pagina narra di testimoni santi e di valori cristiani, che hanno forgiato l’animo e la cultura del Paese. Nondimeno, questo pregiato libro racconta gesta di grande apertura, accoglienza e integrazione. Sono valori inestimabili e sempre validi, per questa terra e per l’intera regione, tesori che ben esprimono l’identità cristiana, la quale si mantiene tale quando rimane ben fondata nella fede ed è al tempo stesso sempre aperta e disponibile, mai rigida o chiusa.

Il messaggio cristiano – questo luogo sacro lo ricorda – è stato nei secoli il pilastro dell’identità georgiana: ha dato stabilità in mezzo a tanti sconvolgimenti, anche quando, purtroppo non di rado, la sorte del Paese è stata quella di essere amaramente abbandonato a sé stesso. Ma il Signore non ha mai abbandonato l’amata terra di Georgia, perché Egli è «fedele in tutte le sue parole e buono in tutte le sue opere, sostiene quelli che vacillano e rialza chiunque è caduto» (Sal 145,13-14).

La vicinanza tenera e compassionevole del Signore è qui rappresentata, in modo particolare, dal segno della sacra tunica. Il mistero della tunica «senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo» (Gv 19,23), ha attirato l’attenzione dei cristiani fin dagli inizi. Un Padre antico, San Cipriano di Cartagine, ha affermato che nella tunica indivisa di Gesù appare quel «vincolo di concordia, che inseparabilmente unisce», quell’«unità che viene dall’alto, che viene cioè dal cielo e dal Padre, che non poteva essere assolutamente lacerata» (De catholicae Ecclesiae unitate, 7: SCh 1 [2006], 193). La sacra tunica, mistero di unità, ci esorta a provare grande dolore per le divisioni consumatesi tra i cristiani lungo la storia: sono delle vere e proprie lacerazioni inferte alla carne del Signore. Al tempo stesso, però, l’“unità che viene dall’alto”, l’amore di Cristo che ci ha radunato donandoci non solo la sua veste, ma il suo stesso corpo, ci spingono a non rassegnarci e ad offrire noi stessi sul suo esempio (cfr Rm 12,1): ci stimolano alla carità sincera e alla comprensione reciproca, a ricomporre le lacerazioni, animati da uno spirito di limpida fraternità cristiana. Tutto ciò richiede un cammino certamente paziente, da coltivare con fiducia nell’altro e umiltà, ma senza paura e senza scoraggiarsi, bensì nella gioiosa certezza che la speranza cristiana ci fa pregustare. Essa ci sprona a credere che le contrapposizioni possono essere sanate e gli ostacoli rimossi, ci invita a non rinunciare mai alle occasioni di incontro e di dialogo, e a custodire e migliorare insieme quanto già esiste. Penso, ad esempio, al dialogo in corso nella Commissione Mista Internazionale e ad altre proficue occasioni di scambio.

San Cipriano affermava anche che la tunica di Cristo, «unica, indivisa, tutta d’un pezzo, indica l’inseparabile concordia del nostro popolo, di noi che ci siamo rivestiti di Cristo» (ibid., 195). Quanti sono stati battezzati in Cristo, afferma infatti l’Apostolo Paolo, si sono rivestiti di Cristo (cfr Gal 3,27). Per questo, nonostante i nostri limiti e al di là di ogni successiva distinzione storica e culturale, siamo chiamati a essere «uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28) e a non mettere al primo posto le disarmonie e le divisioni tra i battezzati, perché davvero è molto più ciò che ci unisce di ciò che ci divide.

In questa Cattedrale Patriarcale tanti fratelli e sorelle ricevono il Battesimo, che nella lingua georgiana esprime bene la vita nuova ricevuta in Cristo, indicando un’illuminazione che dà senso a tutto, perché conduce fuori dall’oscurità. In georgiano, anche la parola “educazione” nasce dalla stessa radice ed è perciò strettamente imparentata col Battesimo. La nobiltà della lingua induce così a pensare alla bellezza di una vita cristiana che, fin dall’inizio luminosa, si mantiene tale se rimane nella luce del bene e rigetta le tenebre del male; se, custodendo la fedeltà alle proprie radici, non cede alle chiusure che rendono oscura la vita, ma si conserva ben disposta ad accogliere e imparare, ad essere rischiarata da tutto ciò che è bello e vero. Che le splendenti ricchezze di questo popolo siano conosciute e apprezzate; che possiamo sempre più condividere, per l’arricchimento comune, i tesori che Dio dona a ciascuno, e aiutarci a vicenda a crescere nel bene!

Assicuro di cuore la mia preghiera perché il Signore, che fa nuove tutte le cose (cfr Ap 21,5), per l’intercessione dei Santi Fratelli Apostoli Pietro e Andrea, dei Martiri e di tutti i Santi, accresca l’amore tra i credenti in Cristo e la luminosa ricerca di tutto quanto ci possa avvicinare, riconciliare e unire. Possano la fraternità e la collaborazione crescere ad ogni livello; possano la preghiera e l’amore farci sempre più accogliere l’accorato desiderio del Signore su tutti quelli che credono in Lui mediante la parola degli Apostoli: che siano «una sola cosa» (cfr Gv 17,20-21).

Azerbaijan

– Omelia nella Messa nella chiesa dell’Immacolata nel Centro salesiano a Baku  (2 ottobre)

La Parola di Dio ci presenta oggi due aspetti essenziali della vita cristiana: la fede e il servizio. A proposito della fede, vengono rivolte al Signore due particolari richieste.

La prima è quella del profeta Abacuc, che implora Dio perché intervenga e ristabilisca la giustizia e la pace che gli uomini hanno infranto con violenza, liti e contese: «Fino a quando, Signore, – dice – implorerò aiuto e non ascolti?» (Ab 1,2). Dio, rispondendo, non interviene direttamente, non risolve la situazione in modo brusco, non si rende presente con la forza. Al contrario, invita ad attendere con pazienza, senza mai perdere la speranza; soprattutto, sottolinea l’importanza della fede. Perché per la sua fede l’uomo vivrà (cfr Ab 2,4). Così Dio fa anche con noi: non asseconda i nostri desideri che vorrebbero cambiare il mondo e gli altri subito e continuamente, ma mira anzitutto a guarire il cuore, il mio cuore, il tuo cuore, il cuore di ciascuno; Dio cambia il mondo cambiando i nostri cuori, e questo non può farlo senza di noi. Il Signore desidera infatti che gli apriamo la porta del cuore, per poter entrare nella nostra vita. E questa apertura a Lui, questa fiducia in Lui è proprio «la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede» (1 Gv 5,4). Perché quando Dio trova un cuore aperto e fiducioso, lì può compiere meraviglie.

Ma avere fede, una fede viva, non è facile; ed ecco allora la seconda richiesta, quella che nel Vangelo gli Apostoli rivolgono al Signore: «Accresci in noi la fede!» (Lc 17,6). È una bella domanda, una preghiera che anche noi potremmo rivolgere a Dio ogni giorno. Ma la risposta divina è sorprendente e anche in questo caso ribalta la domanda: «Se aveste fede…». È Lui che chiede a noi di avere fede. Perché la fede, che è un dono di Dio e va sempre chiesta, va anche coltivata da parte nostra. Non è una forza magica che scende dal cielo, non è una “dote” che si riceve una volta per sempre, e nemmeno un super-potere che serve a risolvere i problemi della vita. Perché una fede utile a soddisfare i nostri bisogni sarebbe una fede egoistica, tutta centrata su di noi. La fede non va confusa con lo stare bene o col sentirsi bene, con l’essere consolati nell’animo perché abbiamo un po’ di pace nel cuore. La fede è il filo d’oro che ci lega al Signore, la pura gioia di stare con Lui, di essere uniti a Lui; è il dono che vale la vita intera, ma che porta frutto se facciamo la nostra parte.

E qual è la nostra parte? Gesù ci fa comprendere che è il servizio. Nel Vangelo, infatti, il Signore fa subito seguire alle parole sulla potenza della fede quelle sul servizio. Fede e servizio non si possono separare, anzi sono strettamente collegati, annodati tra di loro. Per spiegarmi vorrei utilizzare un’immagine a voi molto familiare, quella di un bel tappeto: i vostri tappeti sono delle vere opere d’arte e provengono da una storia antichissima. Anche la vita cristiana di ciascuno viene da lontano, è un dono che abbiamo ricevuto nella Chiesa e che proviene dal cuore di Dio, nostro Padre, il quale desidera fare di ciascuno di noi un capolavoro del creato e della storia. Ogni tappeto, voi lo sapete bene, va tessuto secondo la trama e l’ordito; solo con questa struttura l’insieme risulta ben composto e armonioso. Così è per la vita cristiana: va ogni giorno pazientemente intessuta, intrecciando tra loro una trama e un ordito ben definiti: la trama della fede e l’ordito del servizio. Quando alla fede si annoda il servizio, il cuore si mantiene aperto e giovane, e si dilata nel fare il bene. Allora la fede, come dice Gesù nel Vangelo, diventa potente, fa meraviglie. Se cammina su quella strada, allora matura e diventa forte, a condizione che rimanga sempre unita al servizio.

Ma che cos’è il servizio? Possiamo pensare che consista solo nell’essere ligi ai propri doveri o nel compiere qualche opera buona. Ma per Gesù è molto di più. Nel Vangelo di oggi Egli ci chiede, anche con parole molto forti, radicali, una disponibilità totale, una vita a piena disposizione, senza calcoli e senza utili. Perché è così esigente Gesù? Perché Lui ci ha amato così, facendosi nostro servo «fino alla fine» (Gv 13,1), venendo «per servire e dare la propria vita» (Mc 10,45). E questo avviene ancora ogni volta che celebriamo l’Eucaristia: il Signore viene in mezzo a noi e per quanto noi ci possiamo proporre di servirlo e amarlo, è sempre Lui che ci precede, servendoci e amandoci più di quanto immaginiamo e meritiamo. Ci dona la sua stessa vita. E ci invita a imitarlo, dicendoci: «Se uno mi vuole servire, mi segua» (Gv 12,26).

Dunque, non siamo chiamati a servire solo per avere una ricompensa, ma per imitare Dio, fattosi servo per nostro amore. E non siamo chiamati a servire ogni tanto, ma a vivere servendo. Il servizio è allora uno stile di vita, anzi riassume in sé tutto lo stile di vita cristiano: servire Dio nell’adorazione e nella preghiera; essere aperti e disponibili; amare concretamente il prossimo; adoperarsi con slancio per il bene comune.

Non mancano anche per i credenti le tentazioni, che allontanano dallo stile del servizio e finiscono per rendere la vita inservibile. Dove non c’è servizio la vita è inservibile! Anche qui possiamo evidenziarne due. Una è quella di lasciare intiepidire il cuore. Un cuore tiepido si chiude in una vita pigra e soffoca il fuoco dell’amore. Chi è tiepido vive per soddisfare i propri comodi, che non bastano mai, e così non è mai contento; poco a poco finisce per accontentarsi di una vita mediocre. Il tiepido riserva a Dio e agli altri delle “percentuali” del proprio tempo e del proprio cuore, senza mai esagerare, anzi cercando sempre di risparmiare. Così la sua vita perde di gusto: diventa come un tè che era veramente buono, ma che quando si raffredda non si può più bere. Sono certo però che voi, guardando agli esempi di chi vi ha preceduto nella fede, non lascerete intiepidire il cuore. La Chiesa intera, che nutre per voi una speciale simpatia, vi guarda e vi incoraggia: siete un piccolo gregge tanto prezioso agli occhi di Dio!

C’è una seconda tentazione, nella quale si può cadere non perché si è passivi, ma perché si è “troppo attivi”: quella di pensare da padroni, di darsi da fare solo per guadagnare credito e per diventare qualcuno. Allora il servizio diventa un mezzo e non un fine, perché il fine è diventato il prestigio; poi viene il potere, il voler essere grandi. «Tra voi però – ricorda Gesù a tutti noi – non sarà così: ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore» (Mt 20,26). Così si edifica e si abbellisce la Chiesa. Riprendo l’immagine del tappeto, applicandola alla vostra bella comunità: ciascuno di voi è come uno splendido filo di seta, ma solo se sono ben intrecciati tra di loro i diversi fili creano una bella composizione; da soli, non servono. Restate sempre uniti, vivendo umilmente in carità e gioia; il Signore, che crea l’armonia nelle differenze, vi custodirà.

Ci aiuti l’intercessione della Vergine Immacolata e dei Santi, in particolare di Santa Teresa di Calcutta, i cui frutti di fede e di servizio sono in mezzo a voi. Accogliamo alcune sue splendide parole, che riassumono il messaggio di oggi: «Il frutto della fede è l’amore. Il frutto dell’amore è il servizio. Il frutto del servizio è la pace» (Il cammino semplice, Introduzione).

Angelus dal Centro Salesiano – Baku (Domenica, 2 ottobre 2016)

Cari fratelli e sorelle,

in questa Celebrazione eucaristica ho reso grazie a Dio con voi, ma anche per voi: qui la fede, dopo gli anni della persecuzione, ha compiuto meraviglie. Vorrei ricordare i tanti cristiani coraggiosi, che hanno avuto fiducia nel Signore e sono stati fedeli nelle avversità. Come fece san Giovanni Paolo II, a voi tutti rivolgo le parole dell’Apostolo Pietro: «onore a voi che credete!» (1 Pt 2,7;  Omelia, Baku, 23 maggio 2002: Insegnamenti XXV,1 [2002], 852).

Il nostro pensiero va ora alla Vergine Maria, venerata in questo Paese non solo dai cristiani. A Lei ci rivolgiamo con le parole con le quali l’Angelo Gabriele Le recò il lieto annuncio della salvezza, preparata da Dio per l’umanità.

Nella luce che risplende dal volto materno di Maria, rivolgo un cordiale saluto a voi, cari fedeli dell’Azerbaigian, incoraggiando ciascuno a testimoniare con gioia la fede, la speranza e la carità, uniti fra di voi e con i vostri Pastori. Saluto e ringrazio in modo particolare la famiglia salesiana, che si prende tanto cura di voi e promuove diverse opere di bene, e le Suore Missionarie della Carità: proseguite con entusiasmo la vostra opera al servizio di tutti!

Affidiamo questi voti all’intercessione della Santissima Madre di Dio e invochiamo la sua protezione per le vostre famiglie, per i malati e gli anziani, per quanti soffrono nel corpo e nello spirito.

[Angelus]

[Benedizione]

Qualcuno può pensare che il Papa perde tanto tempo: fare tanti chilometri di viaggio per visitare una piccola comunità di 700 persone, in un Paese di 2 milioni… Eppure è una comunità non uniforme, perché fra voi si parla l’azero, l’italiano, l’inglese, lo spagnolo…: tante lingue… E’ una comunità di periferia. Ma il Papa, in questo, imita lo Spirito Santo: anche Lui è sceso dal cielo in una piccola comunità di periferia chiusa nel Cenacolo. E a quella comunità che aveva timore, si sentiva povera e forse perseguitata, o lasciata da parte, dà il coraggio, la forza, la parresia per andare avanti e proclamare il nome di Gesù! E le porte di quella comunità di Gerusalemme, che erano chiuse per la paura o la vergogna, si spalancano ed esce la forza dello Spirito. Il Papa perde il tempo come lo ha perso lo Spirito Santo in quel tempo!

Soltanto due cose sono necessarie: in quella comunità c’era la Madre – non dimenticare la Madre! -; e in quella comunità c’era la carità, l’amore fraterno che lo Spirito Santo ha riversato in loro. Coraggio! Avanti! Go ahead! Senza paura, avanti!     

– Incontro con le Autorità nel Centro “Heydar Aliyev”

Signor Presidente, Distinte Autorità, Illustri Membri del Corpo Diplomatico, Signore e Signori,

Sono molto lieto di visitare l’Azerbaigian e vi ringrazio per la cordiale accoglienza in questa città, capitale del Paese, affacciata sulle rive del Mar Caspio, città che ha trasformato radicalmente il proprio volto con nuovissime costruzioni, come quella in cui si svolge questo incontro. Le sono vivamente grato, Signor Presidente, per le gentili espressioni di benvenuto che Ella mi ha rivolto a nome del Governo e del popolo azero, e per avermi offerto la possibilità, grazie al Suo cortese invito, di contraccambiare la visita da Lei compiuta l’anno scorso in Vaticano, insieme alla Sua gentile Consorte.

Sono giunto in questo Paese portando nel cuore l’ammirazione per la complessità e la ricchezza della sua cultura, frutto dell’apporto dei tanti popoli che lungo la storia hanno abitato queste terre, dando vita a un tessuto di esperienze, valori e peculiarità che caratterizzano la società odierna e si traducono nella prosperità del moderno Stato azero. Il prossimo 18 ottobre l’Azerbaigian festeggerà il 25° anniversario della sua indipendenza e tale data offre la possibilità di rivolgere uno sguardo d’insieme agli avvenimenti di questi decenni, ai progressi compiuti e alle problematiche che il Paese si trova ad affrontare.

Il cammino fin qui percorso mostra chiaramente i notevoli sforzi fatti per consolidare le istituzioni e favorire la crescita economica e civile della Nazione. E’ un percorso che richiede costante attenzione a tutti, specialmente ai più deboli, un percorso possibile grazie a una società che riconosce i benefici del multiculturalismo e della necessaria complementarità delle culture, in modo che tra le diverse componenti della comunità civile e tra gli appartenenti a differenti confessioni religiose si instaurino rapporti di mutua collaborazione e rispetto.

Questo sforzo comune nella costruzione di un’armonia tra le differenze è di particolare significato in questo tempo, perché mostra che è possibile testimoniare le proprie idee e la propria concezione della vita senza prevaricare i diritti di quanti sono portatori di altre concezioni e visioni. Ogni appartenenza etnica o ideologica, come ogni autentico cammino religioso, non può che escludere atteggiamenti e concezioni che strumentalizzano le proprie convinzioni, la propria identità o il nome di Dio per legittimare intenti di sopraffazione e di dominio.

Auspico vivamente che l’Azerbaigian prosegua sulla strada della  collaborazione tra diverse culture e confessioni religiose. Sempre più l’armonia e la coesistenza pacifica alimentino la vita sociale e civile del Paese, nelle sue molteplici espressioni, assicurando a tutti la possibilità di apportare il proprio contributo al bene comune.

Il mondo sperimenta purtroppo il dramma di tanti conflitti che trovano alimento nell’intolleranza, fomentata da ideologie violente e dalla pratica negazione dei diritti dei più deboli. Per opporsi validamente a queste pericolose derive, abbiamo bisogno che cresca la cultura della pace, la quale si nutre di una incessante disposizione al dialogo e della consapevolezza che non sussiste alternativa ragionevole alla paziente e assidua ricerca di soluzioni condivise, mediante leali e costanti negoziati.

Come all’interno dei confini di una Nazione è doveroso promuovere l’armonia tra le sue diverse componenti, così, anche tra gli Stati è necessario proseguire con saggezza e coraggio sulla via che conduce al vero progresso e alla libertà dei popoli, aprendo percorsi originali che puntano ad accordi duraturi e alla pace. In tal modo si risparmieranno ai popoli gravi sofferenze e dolorose lacerazioni, difficili da sanare.

Anche nei riguardi di questo Paese, desidero esprimere accoratamente la mia vicinanza a coloro che hanno dovuto lasciare la loro terra e alle tante persone che soffrono a causa di sanguinosi conflitti. Auspico che la comunità internazionale sappia offrire con costanza il suo indispensabile aiuto. Nel medesimo tempo, al fine di rendere possibile l’apertura di una fase nuova, aperta a una pace stabile nella regione, rivolgo a tutti l’invito a non lasciare nulla di intentato per giungere ad una soluzione soddisfacente. Sono fiducioso che, con l’aiuto di Dio e mediante la buona volontà delle parti, il Caucaso potrà essere il luogo dove, attraverso il dialogo e il negoziato, le controversie e le divergenze troveranno la loro composizione e il loro superamento, in modo che quest’area, “porta tra l’Oriente e l’Occidente”, secondo la bella immagine usata da san Giovanni Paolo II quando visitò il vostro Paese (cfr  Discorso nella Cerimonia di Benvenuto, 22 maggio 2002:  Insegnamenti XXV, 1 [2002], 838), divenga anche una porta aperta verso la pace e un esempio a cui guardare per risolvere antichi e nuovi conflitti.

La Chiesa Cattolica, pur essendo nel Paese una presenza numericamente esigua, è inserita nella vita civile e sociale dell’Arzerbaigian, partecipa alle sue gioie ed è solidale nell’affrontare le sue difficoltà. Il riconoscimento giuridico, reso possibile a seguito della ratifica dell’Accordo internazionale con la Santa Sede nel 2011, ha inoltre offerto un quadro normativo più stabile per la vita della comunità cattolica in Azerbaigian.

Sono inoltre particolarmente lieto per le cordiali relazioni che la comunità cattolica intrattiene con quella musulmana, quella ortodossa e quella ebraica, ed auspico che si incrementino i segni di amicizia e di collaborazione. Tali buone relazioni rivestono un alto significato per la pacifica convivenza e per la pace nel mondo e mostrano che tra i fedeli di diverse confessioni religiose è possibile la cordialità dei rapporti, il rispetto e la cooperazione in vista del bene di tutti.

L’attaccamento ai genuini valori religiosi è del tutto incompatibile con il tentativo di imporre con violenza agli altri le proprie visioni, facendosi scudo del santo nome di Dio. La fede in Dio sia invece fonte ed ispirazione di mutua comprensione e rispetto e di reciproco aiuto, a favore del bene comune della società.

Dio benedica l’Azerbaigian con l’armonia, la pace e la prosperità.

– Incontro Interreligioso con lo Sceicco e con Rappresentanti delle altre Comunità religiose del paese  

Trovarsi qui insieme è una benedizione. Desidero ringraziare il Presidente del Consiglio dei Musulmani del Caucaso, che con la sua consueta cortesia ci ospita, e i Capi religiosi locali della Chiesa Ortodossa Russa e delle Comunità Ebraiche. È un grande segno incontrarci in amicizia fraterna in questo luogo di preghiera, un segno che manifesta quell’armonia che le religioni insieme possono costruire, a partire dai rapporti personali e dalla buona volontà dei responsabili. Qui ne danno prova, ad esempio, l’aiuto concreto che il Presidente del Consiglio dei Musulmani ha garantito in più occasioni alla comunità cattolica, e i saggi consigli che, in spirito di famiglia, condivide con essa; sono anche da sottolineare il bel legame che unisce i Cattolici alla Comunità Ortodossa, in una fraternità concreta e in un affetto quotidiano che sono un esempio per tutti, e la cordiale amicizia con la comunità ebraica.

Di questa concordia beneficia l’Azerbaigian, che si distingue per l’accoglienza e l’ospitalità, doni che ho potuto sperimentare in questa memorabile giornata, per la quale sono molto grato. Qui si desidera custodire il grande patrimonio delle religioni e al tempo stesso si ricerca una maggiore e feconda apertura: anche il cattolicesimo, ad esempio, trova posto e armonia tra altre religioni ben più numerose, segno concreto che mostra come non la contrapposizione, ma la collaborazione aiuta a costruire società migliori e pacifiche. Il nostro trovarci insieme è anche in continuità con i numerosi incontri che si svolgono a Baku per promuovere il dialogo e la multiculturalità. Aprendo le porte all’accoglienza e all’integrazione, si aprono le porte dei cuori di ciascuno e le porte della speranza per tutti. Ho fiducia che questo Paese, «porta tra l’Oriente e l’Occidente» (GIOVANNI PAOLO II,  Discorso nella Cerimonia di benvenuto, Baku, 22 maggio 2002: Insegnamenti XXV,1 [2002], 838), coltivi sempre la sua vocazione di apertura e incontro, condizioni indispensabili per costruire solidi ponti di pace e un futuro degno dell’uomo.

La fraternità e la condivisione che desideriamo accrescere non saranno apprezzate da chi vuole rimarcare divisioni, rinfocolare tensioni e trarre guadagni da contrapposizioni e contrasti; sono però invocate e attese da chi desidera il bene comune, e soprattutto gradite a Dio, Compassionevole e Misericordioso, che vuole i figli e le figlie dell’unica famiglia umana tra loro più uniti e sempre in dialogo. Un grande poeta, figlio di questa terra, ha scritto: «Se sei umano, mescolati agli umani, perché gli uomini stanno bene tra di loro» (NIZAMI GANJAVI, Il libro di Alessandro, I, Sul proprio stato e il passare del tempo). Aprirsi agli altri non impoverisce, ma arricchisce, perché aiuta a essere più umani: a riconoscersi parte attiva di un insieme più grande e a interpretare la vita come un dono per gli altri; a vedere come traguardo non i propri interessi, ma il bene dell’umanità; ad agire senza idealismi e senza interventismi, senza operare dannose interferenze e azioni forzate, bensì sempre nel rispetto delle dinamiche storiche, delle culture e delle tradizioni religiose.

Proprio le religioni hanno un grande compito: accompagnare gli uomini in cerca del senso della vita, aiutandoli a comprendere che le limitate capacità dell’essere umano e i beni di questo mondo non devono mai diventare degli assoluti. Ha scritto ancora Nizami: «Non stabilirti solidamente sulle tue forze, finché in cielo non avrai trovato dimora! I frutti del mondo non sono eterni, non adorare ciò che perisce!» (Leylā e Majnūn, Morte di Majnūn sulla tomba di Leylā). Le religioni sono chiamate a farci capire che il centro dell’uomo è fuori di sé, che siamo protesi verso l’Alto infinito e verso l’altro che ci è prossimo. Lì è chiamata a incamminarsi la vita, verso l’amore più elevato e insieme più concreto: esso non può che stare al culmine di ogni aspirazione autenticamente religiosa; perché – dice ancora il poeta –, «amore è quello che mai non muta, amore è quello che non ha fine» (ibid., Disperazione di Majnūn).

La religione è dunque una necessità per l’uomo, per realizzare il suo fine, una bussola per orientarlo al bene e allontanarlo dal male, che sta sempre accovacciato alla porta del suo cuore (cfr  Gen 4,7). In questo senso le religioni hanno un compito educativo: aiutare a tirare fuori dall’uomo il meglio di sé. E noi, come guide, abbiamo una grande responsabilità, per offrire risposte autentiche alla ricerca dell’uomo, oggi spesso smarrito nei vorticosi paradossi del nostro tempo. Vediamo, infatti, come ai nostri giorni, da una parte imperversa il nichilismo di chi non crede più a niente se non ai propri interessi, vantaggi e tornaconti, di chi butta via la vita adeguandosi all’adagio «se Dio non esiste tutto è permesso» (cfr F.M. DOSTOEVSKIJ, I fratelli Karamazov, XI, 4.8.9); dall’altra parte, emergono sempre più le reazioni rigide e fondamentaliste di chi, con la violenza della parola e dei gesti, vuole imporre atteggiamenti estremi e radicalizzati, i più distanti dal Dio vivente.

Le religioni, al contrario, aiutando a discernere il bene e a metterlo in pratica con le opere, con la preghiera e con la fatica del lavoro interiore, sono chiamate a edificare la cultura dell’incontro e della pace, fatta di pazienza, comprensione, passi umili e concreti. Così si serve la società umana. Essa, da parte sua, è sempre tenuta a vincere la tentazione di servirsi del fattore religioso: le religioni non devono mai essere strumentalizzate e mai possono prestare il fianco ad assecondare conflitti e contrapposizioni.

È invece fecondo un legame virtuoso tra società e religioni, un’alleanza rispettosa che va costruita e custodita, e che vorrei simboleggiare con un’immagine cara a questo Paese. Mi riferisco alle pregiate vetrate artistiche presenti da secoli in queste terre, fatte soltanto di legno e vetri colorati (Shebeke). Nel produrle artigianalmente, vi è una particolarità unica: non si usano colle né chiodi, ma si tengono insieme il legno e il vetro incastrandoli fra di loro con un lungo e accurato lavoro. Così il legno sorregge il vetro e il vetro fa entrare la luce. Allo stesso modo è compito di ogni società civile sostenere la religione, che permette l’ingresso di una luce indispensabile per vivere: per questo è necessario garantirle un’effettiva e autentica libertà. Non vanno dunque usate le “colle” artificiali che costringono l’uomo a credere, imponendogli un determinato credo e privandolo della libertà di scelta; non devono entrare nelle religioni neanche i “chiodi” esterni degli interessi mondani, delle brame di potere e di denaro. Perché Dio non può essere invocato per interessi di parte e per fini egoistici, non può giustificare alcuna forma di fondamentalismo, imperialismo o colonialismo. Ancora una volta, da questo luogo così significativo, sale il grido accorato: mai più violenza in nome di Dio! Che il suo santo Nome sia adorato, non profanato e mercanteggiato dagli odi e dalle contrapposizioni umane.

Onoriamo invece la provvidente misericordia divina verso di noi con la preghiera assidua e con il dialogo concreto, «condizione necessaria per la pace nel mondo, dovere per i cristiani, come per le altre comunità religiose» (Esort. ap.  Evangelii gaudium, 250). Preghiera e dialogo sono tra loro profondamente correlati: muovono dall’apertura del cuore e sono protesi al bene altrui, dunque si arricchiscono e rafforzano a vicenda. La Chiesa Cattolica, in continuità con il Concilio Vaticano II, con convinzione «esorta i suoi figli affinché, con prudenza e carità, per mezzo del dialogo e della collaborazione con i seguaci delle altre religioni, sempre rendendo testimonianza alla fede e alla vita cristiana, riconoscano, conservino e facciano progredire i valori spirituali, morali e socio-culturali che si trovano in essi» (Dich.  Nostra aetate, 2). Nessun «sincretismo conciliante», non «un’apertura diplomatica, che dice sì a tutto per evitare i problemi» (Esort. ap.  Evangelii gaudium, 251), ma dialogare con gli altri e pregare per tutti: questi sono i nostri mezzi per mutare le lance in falci (cfr Is 2,4), per far sorgere amore dove c’è odio e perdono dove c’è offesa, per non stancarci di implorare e percorrere vie di pace.

Una pace vera, fondata sul rispetto reciproco, sull’incontro e sulla condivisione, sulla volontà di andare oltre i pregiudizi e i torti del passato, sulla rinuncia alle doppiezze e agli interessi di parte; una pace duratura, animata dal coraggio di superare le barriere, di debellare le povertà e le ingiustizie, di denunciare e arrestare la proliferazione di armi e i guadagni iniqui fatti sulla pelle degli altri. La voce di troppo sangue grida a Dio dal suolo della terra, nostra casa comune (cfr Gen 4,10). Ora siamo interpellati a dare una risposta non più rimandabile, a costruire insieme un futuro di pace: non è tempo di soluzioni violente e brusche, ma l’ora urgente di intraprendere processi pazienti di riconciliazione. La vera questione del nostro tempo non è come portare avanti i nostri interessi – questa non è la vera questione -, ma quale prospettiva di vita offrire alle generazioni future, come lasciare un mondo migliore di quello che abbiamo ricevuto. Dio, e la storia stessa, ci domanderanno se ci siamo spesi oggi per la pace; già ce lo chiedono in modo accorato le giovani generazioni, che sognano un futuro diverso.

Nella notte dei conflitti, che stiamo attraversando, le religioni siano albe di pace, semi di rinascita tra devastazioni di morte, echi di dialogo che risuonano instancabilmente, vie di incontro e di riconciliazione per arrivare anche là, dove i tentativi delle mediazioni ufficiali sembrano non sortire effetti. Specialmente in questa amata regione caucasica, che ho tanto desiderato visitare e nella quale sono giunto come pellegrino di pace, le religioni siano veicoli attivi per il superamento delle tragedie del passato e delle tensioni di oggi. Le inestimabili ricchezze di questi Paesi vengano conosciute e valorizzate: i tesori antichi e sempre nuovi di sapienza, cultura e religiosità delle genti del Caucaso sono una grande risorsa per il futuro della regione e in particolare per la cultura europea, beni preziosi cui non possiamo rinunciare. Grazie.

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Grazie tante a tutti voi. Grazie tante per la compagnia … E vi chiedo, per favore, di pregare per me.