Cet Notizie

I discorsi del Papa in Paraguay

Incontro con le Autorità e con il Corpo Diplomatico nel giardino del Palazzo de López ad Asunción (venerdì 10 luglio)

Signor Presidente,Autorità della Repubblica,Membri del Corpo Diplomatico,Signore e Signori!

Saluto cordialmente Vostra Eccellenza, Signor Presidente della Repubblica, e La ringrazio per le deferenti parole di benvenuto e di affetto che mi ha rivolto, anche a nome del Governo, delle alte Magistrature dello Stato e del caro popolo paraguaiano. Saluto anche i distinti membri del Corpo Diplomatico e, tramite loro, faccio giungere i miei sentimenti di rispetto e apprezzamento ai loro rispettivi Paesi.

Un “grazie” speciale a tutte le persone e istituzioni che hanno collaborato con impegno e dedizione nella preparazione di questo viaggio e perché mi senta a casa. E non è difficile sentirsi a casa in questa terra così accogliente. Il Paraguay è conosciuto come il cuore dell’America, e non solo per la posizione geografica, ma anche per il calore dell’ospitalità e la vicinanza delle sue genti.

Fin dai suoi primi passi come nazione indipendente e fino a poco tempo fa, la storia del Paraguay ha conosciuto la sofferenza terribile della guerra, dello scontro fratricida, della mancanza di libertà e della violazione dei diritti umani. Quanto dolore e quanta morte! Ma sono ammirevoli la tenacia e lo spirito di reazione del popolo paraguayano per superare le tante avversità e continuare gli sforzi per costruire una nazione prospera e pacifica. Qui – nel giardino di questo palazzo che è stato testimone della storia paraguaiana: da quando era solo la riva del fiume e lo usavano i guaranì, fino agli ultimi avvenimenti contemporanei – voglio rendere omaggio a quelle migliaia di semplici paraguaiani, i cui nomi non compariranno nei libri di storia, ma che sono stati e rimangono veri protagonisti del loro popolo. E voglio riconoscere con emozione e ammirazione il ruolo svolto dalla donna paraguaiana in quei momenti così drammatici della storia, specialmente quella guerra iniqua che portò quasi a distruggere la fraternità dei nostri popoli. Sulle loro spalle di madri, mogli e vedove hanno portato il peso più grande, sono state in grado di portare avanti le loro famiglie e il loro Paese, infondendo nelle nuove generazioni la speranza di un domani migliore. Dio benedica la donna paraguaiana, la più gloriosa d’America.

Un popolo che dimentica il suo passato, la sua storia, le sue radici, non ha futuro, è un popolo secco. La memoria, poggiata saldamente sulla giustizia, libera da sentimenti di vendetta e di odio, trasforma il passato in fonte di ispirazione per costruire un futuro di convivenza e di armonia, rendendoci consapevoli della tragedia e dell’assurdità della guerra. Mai più guerra tra fratelli! Costruiamo sempre la pace! Anche una pace del giorno per giorno, una pace della vita quotidiana, a cui tutti partecipiamo evitando gesti arroganti, parole offensive, atteggiamenti prepotenti, e promuovendo invece la comprensione, il dialogo e la collaborazione.

Da alcuni anni, il Paraguay è impegnato nella costruzione di un progetto democratico solido e stabile. Ed è giusto riconoscere con soddisfazione i molti progressi fatti su questa strada grazie allo sforzo di tutti, anche in mezzo a grandi difficoltà e incertezze. Vi incoraggio a continuare a lavorare con tutte le forze per consolidare le strutture e le istituzioni democratiche che rispondono alle giuste aspirazioni dei cittadini. La forma di governo adottata nella vostra Costituzione: «democrazia rappresentativa, partecipativa e pluralista», basata sulla promozione e il rispetto dei diritti umani, ci tiene lontano dalla tentazione della democrazia formale, che Aparecida definiva come quella che si accontentava di essere «fondata sulla correttezza dei processi elettorali» (Documento di Aparecida, 74). Questa è una democrazia formale.

In tutti gli ambiti della società, ma soprattutto nell’attività pubblica, si deve potenziare il dialogo come mezzo privilegiato per favorire il bene comune, sulla base della cultura dell’incontro, del rispetto e del riconoscimento delle legittime differenze e delle opinioni degli altri. Non dobbiamo rimanere nella conflittualità; l’unità è sempre superiore al conflitto; è un esercizio interessante decantare nell’amore per la patria e nell’amore per il popolo ogni prospettiva che nasce dalle convinzioni di una scelta partigiana o ideologica. E questo stesso amore dev’essere l’impulso a crescere ogni giorno di più in gestioni trasparenti che lottino vigorosamente contro la corruzione. So che esiste oggi una ferma volontà di eliminare la corruzione.

Cari amici, nella volontà di servizio e di lavoro per il bene comune, i poveri e i bisognosi devono occupare un posto prioritario. Si stanno compiendo molti sforzi perché il Paraguay progredisca sulla via della crescita economica. Ci sono stati passi importanti nei campi dell’istruzione e della sanità. Non si fermi tale sforzo di tutti gli attori sociali, fino a quando non ci saranno più bambini senza accesso all’istruzione, famiglie senza casa, lavoratori senza un lavoro dignitoso, contadini senza una terra da coltivare e tante persone costrette a migrare verso un futuro incerto; finché non ci saranno più vittime della violenza, della corruzione o del narcotraffico. Uno sviluppo economico che non tiene conto dei più deboli e sfortunati, non è vero sviluppo. La misura del modello economico dev’essere la dignità integrale della persona, soprattutto la persona più vulnerabile e indifesa.

Signor Presidente, cari amici. Anche a nome dei miei fratelli Vescovi del Paraguay, desidero assicurare l’impegno e la collaborazione della Chiesa Cattolica nello sforzo comune di costruire una società equa e inclusiva, nella quale si possa vivere insieme in pace e armonia. Perché tutti, anche i Pastori della Chiesa, siamo chiamati a preoccuparci della costruzione di un mondo migliore (cfrEvangelii gaudium, 183). Ci spinge a questo la certezza della nostra fede in Dio, che ha voluto farsi uomo e, vivendo con noi, condividere la nostra sorte. Cristo ci apre la via della misericordia, che, poggiando sulla giustizia, va oltre, e illumina la carità, in modo che nessuno si tenga ai margini di questa grande famiglia che è il Paraguay, che ama e vuole servire.

Con l’immensa gioia di trovarmi in questa terra consacrata alla Vergine di Caacupé – e voglio anche ricordare in modo speciale i miei fratelli paraguaiani di Buenos Aires, della mia diocesi precedente: essi hanno la parrocchia della Vergine dei Miracoli di Caacupé –, imploro la benedizione del Signore su tutti voi, sulle vostre famiglie e su tutto l’amato popolo paraguaiano. Che il Paraguay sia fecondo, come indica il fiore della passiflora nel manto della Vergine, e come quella cinta con i colori paraguaiani che ha l’immagine, così resti abbracciato alla Madre di Caacupé. Tante grazie!

Visita all’Ospedale Generale Pediatrico «Niños de Acosta Ñu» (sabato 11 luglio)

Signor Direttore,cari bambini,membri del personale, amici tutti,

grazie per la vostra accoglienza tanto calorosa. Grazie per questo tempo che mi concedete per stare con voi.

Cari bambini, voglio farvi una domanda, vediamo se mi aiutate. Mi hanno detto che siete molto intelligenti, per questo mi sono deciso. Gesù si è arrabbiato qualche volta? Vi ricordate quando? So che è una domanda difficile, perciò vi aiuterò. E’ stato quando impedirono che i bambini si avvicinassero a Lui. E’ l’unica volta in cui il Vangelo di Marco usa questa espressione (cfr 10,13-15). Qualcosa di simile alla nostra espressione: si riempì di rabbia. Voi, qualche volta vi siete arrabbiati? Bene, allo stesso modo fece Gesù, quando non gli permisero di stare vicino ai bambini, vicino a voi. Gli venne molta rabbia. I bambini sono tra i prediletti di Gesù. Non è che non voglia bene ai grandi, ma si sentiva felice quando poteva stare con loro. Godeva molto della loro amicizia e compagnia. Ma non solo amava averli vicino, ma anche di più. Li portava come esempio. Disse ai discepoli: «Se non … diventerete come i bambini non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18,3).

I bambini stavano in disparte, i grandi non li lasciavano avvicinare, ma Gesù li chiamò, li abbracciò e li pose in mezzo perché tutti imparassimo a essere come loro. Oggi direbbe la stessa cosa a noi. Ci guarda e dice: imparate da loro. Dobbiamo imparare da voi, dalla vostra fiducia, gioia, tenerezza. Dalla vostra capacità di lotta, dalla vostra fortezza. Dalla vostra imbattibile capacità di resistenza. Sono veri lottatori! Vero mamme? Vero papà e nonni? Vedere voi, ci dà forza, ci dà forza per avere fiducia, per andare avanti.

Mamme, papà, nonni, so che non è per niente facile stare qui. Ci sono momenti di grande dolore, di incertezza. Ci sono momenti di angoscia forte che opprime il cuore e ci sono momenti di grande gioia. I due sentimenti convivono, sono dentro di noi. Ma non c’è miglior rimedio che la vostra tenerezza, la vostra vicinanza. E mi dà gioia sapere che tra voi famiglie vi aiutate, vi stimolate, vi sostenete a vicenda per andare avanti e attraversare questo momento.

Potete contare sull’appoggio dei medici, degli infermieri e di tutto il personale di questa casa. Grazie per questa vocazione di servizio, di aiutare non solo a curare ma ad accompagnare il dolore dei vostri fratelli.

Non dimentichiamolo: Gesù sta vicino ai suoi figli. Sta bene vicino, nel cuore. Non esitate a pregarlo, non esitate a parlare con Lui, a condividere le vostre domande, i dolori. Lui c’è sempre, ma sempre, e non vi lascerà cadere.

E di una cosa siamo sicuri e ancora una volta lo confermo. Dove c’è un bambino c’è la madre. Dove c’è Gesù c’è Maria, la Vergine di Caacupe. Chiediamo a Lei che vi protegga col suo manto, che interceda per voi e le vostre famiglie.

E non dimenticatevi di pregare per me. Sono sicuro che le vostre preghiere arrivano al cielo.

Santa Messa sul piazzale del Santuario mariano di Caacupé

Trovarmi qui con voi è sentirmi a casa, ai piedi di nostra Madre la Vergine dei Miracoli di Caacupé. In un santuario noi figli ci incontriamo con nostra Madre e tra noi ricordiamo che siamo fratelli. E’ un luogo di festa, di incontro, di famiglia. Veniamo a presentare le nostre necessità, veniamo a ringraziare, a chiedere perdono e a cominciare di nuovo. Quanti battesimi, quante vocazioni sacerdotali e religiose, quanti fidanzamenti e matrimoni sono nati ai piedi di nostra Madre! Quante lacrime quanti addii! Veniamo sempre con la nostra vita, perché qui siamo a casa e la cosa migliore è sapere che c’è qualcuno che ci aspetta.

Come tante altre volte, siamo venuti perché vogliamo rinnovare le nostre energie per vivere la gioia del Vangelo.

Come non riconoscere che questo Santuario è una parte vitale del popolo paraguayano, di voi? Così lo sentono, così lo pregano, così lo cantano: «Nel tuo Eden di Caacupé, è il tuo popolo Vergine pura che ti dà il suo amore e la sua fede». E oggi siamo qui come Popolo di Dio, ai piedi di nostra Madre, a darle il nostro amore e la nostra fede.

Nel Vangelo abbiamo appena ascoltato l’annuncio dell’Angelo a Maria che le dice: «Rallegrati, piena di grazia, il Signore è con te». Rallegrati, Maria, rallegrati. Davanti a questo saluto, lei restò sconcertata e si domandava che cosa volesse dire. Non capiva molto che cosa stava succedendo. Ma comprese che veniva da Dio e disse “sì”. Sì al sogno di Dio, sì al progetto di Dio, sì alla volontà di Dio.

Un “sì” che, come sappiamo, non fu per niente facile da vivere. Un “sì” che non la riempì di privilegi o distinzioni, ma che, come le dirà Simeone nella sua profezia: «Anche a te una spada trafiggerà l’anima» (Lc 2,35). Eccome l’ha trafitta! Per questo la amiamo tanto e troviamo in lei una vera Madre che ci aiuta a tenere vive la fede e la speranza in mezzo a situazioni complicate. Seguendo la profezia di Simeone, ci farà bene ripercorrere brevemente tra momenti difficili della vita di Maria.

1. La nascita di Gesù. «Non c’era posto per loro» (Lc 2,7). Non avevano una casa, un’abitazione per accogliere il loro figlio. Non c’era spazio per poterlo dare alla luce. E nemmeno la famiglia vicina, erano soli. L’unico posto disponibile era una stalla di animali. E nella sua memoria sicuramente risuonavano le parole dell’Angelo: «Rallegrati, Maria, il Signore è con te». E lei avrebbe potuto chiedersi: Dov’è adesso?

2. La fuga in Egitto. Dovettero partire, andare in esilio. Là non solo non avevano un posto, una famiglia, ma anche la loro vita era in pericolo. Dovettero mettersi in cammino e andare in terra straniera. Furono migranti perseguitati per l’avidità e l’avarizia dell’imperatore. E anche là lei avrebbe potuto chiedersi: Dov’è quello che mi ha detto l’Angelo?

3. La morte sulla croce. Non deve esistere una situazione più difficile per una madre che accompagnare la morte di suo figlio. Sono momenti strazianti. Ed ecco vediamo Maria, ai piedi della croce, come ogni madre, salda, senza venir meno, che accompagna suo Figlio fino all’estremo della morte e della morte di croce. E anche lì lei avrebbe potuto domandarsi: Dov’è quello che mi ha detto l’Angelo? E poi la vediamo che tiene uniti e sostiene i discepoli.

Contempliamo la sua vita, e ci sentiamo compresi, capiti. Possiamo sederci a pregare e usare un linguaggio comune davanti a una serie di situazioni che viviamo ogni giorno. Ci possiamo identificare in molte situazioni della sua vita. Raccontarle le nostre realtà perché lei le comprende.

Lei è la donna di fede, è la Madre della Chiesa, lei ha creduto. La sua vita è testimonianza che Dio non delude, che Dio non abbandona il suo Popolo, anche se ci sono momenti o situazioni in cui sembra che Lui non ci sia. Lei è stata la prima discepola che ha accompagnato il suo Figlio e ha sostenuto la speranza degli apostoli nei momenti difficili. Stavano chiusi con non so quante chiavi, per paura, nel cenacolo. E’ stata la donna che stava attenta e ha saputo dire – quando sembrava che la gioia e la festa stava finendo –: “Vedi, non hanno vino” (cfr Gv 2,3). E’ stata la donna che ha saputo andare e stare con sua cugina «circa tre mesi» (Lc1,56), perché non fosse sola nel suo parto. Questa è la nostra Madre, così buona, così generosa, così accompagnatrice della nostra vita.

E tutto questo lo sappiamo dal Vangelo, ma sappiamo anche che, in questa terra, è la Madre che è stata al nostro fianco in tante situazioni difficili. Questo Santuario custodisce gelosamente la memoria di un popolo che sa che Maria è Madre e che è stata e rimane accanto ai suoi figli.

E’ stata e rimane nei nostri ospedali, nelle nostre scuole, nelle nostre case. E’ stata e rimane con noi nel lavoro e nel cammino. E’ stata e rimane alla mensa di ogni casa. E’ stata e rimane nella formazione della Patria, facendo di noi una Nazione. Sempre con una presenza discreta e silenziosa. Nello sguardo di un’effigie, di un’immaginetta o di una medaglia. Sotto il segno di un rosario, sappiamo che non siamo soli, che lei ci accompagna.

E perché? Perché Maria semplicemente ha voluto rimanere in mezzo al suo Popolo, con i suoi figli, con la sua famiglia. Seguendo sempre Gesù, dalla parte della folla. Come buona madre non ha abbandonato i suoi, ma al contrario sempre si è fatta trovare là dove il figlio poteva avere bisogno di lei. E questo, solo perché è Madre.

Una Madre che ha imparato ad ascoltare e a vivere in mezzo a tante difficoltà da quel: «Non temere», «il Signore con te» (Lc1,30.28). Una Madre che continua a dirci: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (Gv 2,5). E’ il suo invito costante e continuo: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». Non ha un programma proprio, non viene a dirci nulla di nuovo, anzi, le piace stare zitta, soltanto la sua fede accompagna la nostra fede.

E voi lo sapete, avete fatto esperienza di questo che stiamo condividendo. Tutti voi, tutti i paraguayani hanno la memoria viva di un Popolo che ha fatto carne queste parole del Vangelo. E vorrei riferirmi in modo speciale a voi donne e madri paraguayane, che con gran coraggio e abnegazione, avete saputo rialzare un Paese distrutto, sprofondato, sommerso da una guerra iniqua. Voi avete la memoria, avete il patrimonio genetico di quelle che hanno ricostruito la vita, la fede, la dignità del vostro Popolo, insieme a Maria. Avete vissuto situazioni molto ma molto difficili, che secondo una logica comune sarebbero contrarie ad ogni fede. Voi, invece, spinte e sostenute dalla Vergine, avete continuato a credere, anche «sperando contro ogni speranza» (Rm 4,18). Quando tutto sembrava crollare, insieme a Maria vi dicevate: Non temiamo, il Signore è con noi, è col nostro Popolo, con le nostre famiglie, facciamo quello che Lui ci dice. E lì avete trovato ieri e trovate oggi la forza per non lasciare che questa terra finisca nel caos. Dio benedica questa tenacia, Dio benedica e conforti la vostra fede, Dio benedica la donna paraguayana, la più gloriosa d’America.

Come Popolo, siamo venuti alla nostra casa, alla casa della Patria paraguayana, ad ascoltare ancora una volta queste parole che ci fanno tanto bene: «Rallegrati, … il Signore è con te». E’ un appello a non perdere la memoria, a non perdere le radici, le tante testimonianze che avete ricevuto di gente credente e messa a rischio dalle sue lotte. Una fede che si è fatta vita, una vita che si è fatta speranza e una speranza che ci porta a precedere nella carità. Sì, configurati a Gesù, continuate a precedere nell’amore. Siate voi i portatori di questa fede, di questa vita, di questa speranza. Voi paraguaiani siate costruttori di questo oggi e di questo domani.

Tornando a guardare l’immagine di Maria, vi invito a dire insieme: «Nel tuo Eden di Caacupé, è il tuo popolo Vergine pura che ti dà il suo amore e la sua fede». [Lo ripete insieme alla folla] Prega per noi, Santa Madre di Dio, affinché siamo degni di ottenere le promesse e le grazie del nostro Signore Gesù Cristo. Amen.

Incontro con Rappresentanti della Società Civile nello Stadio León Condou della scuola San José

Buon pomeriggio!

Io ho scritto questo testo in base alle domande che mi sono arrivate e che non sono tutte quelle che avete fatto voi, e così quello che manca lo completerò mentre parlo. In modo che, per quanto possibile, riesca a dare il mio pensiero sulle vostre riflessioni.

Sono contento di trovarmi con voi, rappresentanti della società civile, per condividere i sogni e gli ideali di un futuro migliore, e i problemi. Ringrazio Mons. Adalberto Martínez Flores, Segretario della Conferenza Episcopale del Paraguay, per le parole di benvenuto che mi ha rivolto a nome di tutti. E ringrazio le sei persone che hanno parlato, presentando ciascuna un aspetto della vostra riflessione.

Vedervi tutti, ciascuno proveniente da un settore, da un’organizzazione di questa amata società paraguaiana, con le sue gioie, preoccupazioni, lotte e ricerche, mi porta a compiere un rendimento di grazie a Dio. Ossia, sembra che il Paraguay non sia morto, grazie a Dio. Perché un popolo che non mantiene vive le sue preoccupazioni, un popolo che vive nell’inerzia dell’accettazione passiva, è un popolo morto. Al contrario, vedo in voi la linfa di una vita che scorre e che vuole germinare. Questo sempre Dio lo benedice. Dio è sempre a favore di tutto ciò che aiuta a sollevare, a migliorare la vita dei suoi figli. Ci sono cose che vanno male, sì. Ci sono situazioni ingiuste, sì. Ma vedervi e sentirvi mi aiuta a rinnovare la speranza nel Signore, che continua ad agire in mezzo al suo popolo. Voi venite da diverse visioni, diverse situazioni e vari percorsi di ricerca, tutti insieme formate la cultura paraguaiana. Tutti siete necessari nella ricerca del bene comune. «Nelle condizioni attuali della società mondiale, dove si riscontrano tante inequità e sono sempre più numerose le persone che vengono scartate» (Enc. Laudato si’, 158), vedervi qui è un dono. E’ un dono perché nelle persone che hanno parlato ho visto la volontà per il bene della patria.

1. In riferimento alla prima domanda, mi è piaciuto sentire dalla bocca di un giovane la preoccupazione di far sì che la società sia un luogo di fraternità, di giustizia, di pace e dignità per tutti. La giovinezza è tempo di grandi ideali. A me viene spesso da dire che mi rattrista vedere un giovane pensionato. Quanto è importante che voi giovani – ed eccome se ci sono giovani qui in Paraguay! –che voi giovani comprendiate che la vera felicità passa attraverso la lotta per un Paese fraterno. Ed è bene che voi giovani notiate che la felicità e il piacere non sono sinonimi. Una cosa è la felicità e la gioia… e altra cosa è un piacere passeggero. La felicità costruisce, è solida, edifica. La felicità richiede impegno e dedizione. Voi siete molto preziosi per camminare nella vita come “anestetizzati”! Il Paraguay ha un’abbondante popolazione giovane ed è una grande ricchezza. Per questo motivo, penso che la prima cosa da fare è evitare che questa forza, questa luce che c’è nei vostri cuori si spenga, e contrastare la crescente mentalità che considera inutile e assurdo aspirare a cose che valgono la pena: “No… lascia perdere… su questo non c’è niente da fare…”. Invece, la mentalità che cerca di andare oltre è considerata come assurda. Giocarsela per qualcosa, giocarsela per qualcuno. Questa è la vocazione della gioventù! E non abbiate paura di dare tutto in campo. Giocate pulito, giocate mettendocela tutta. Non abbiate paura di dare il meglio di voi. Non cercate gli accordi previ per evitare la fatica, la lotta. Non corrompete l’arbitro!

Questo sì, questa lotta, non fatela da soli. Cercate di discutere, approfittate per ascoltare la vita, le storie, i racconti delle persone anziane e dei vostri nonni, perché lì c’è sapienza. Perdete molto tempo ad ascoltare tutte le cose buone che hanno da insegnarvi. Essi sono i custodi di quel patrimonio spirituale di fede e di valori che plasmano un popolo e rischiarano la strada. Trovate consolazione anche nella forza della preghiera, in Gesù. Nella sua presenza quotidiana e costante. Lui non delude. Gesù invita attraverso la memoria del vostro popolo, è il segreto perché il vostro cuore si mantenga sempre gioioso nella ricerca della fraternità, della giustizia, della pace e della dignità per tutti. Perché questo può essere un pericolo: “Sì, sì, io voglio fraternità, giustizia, pace, dignità…”, però può diventare un nominalismo. Semplici parole. No. La fraternità, la giustizia, la pace, la dignità o sono concrete o non servono. Sono di tutti i giorni. Si fanno tutti i giorni. Dunque, io chiedo a te, giovane: come questi ideali li costruisci giorno per giorno, nel concreto? Anche se sbagli, ti correggi e vai avanti; ma la concretezza. Vi confesso che a volte mi dà un po’ fastidio, o per dirlo in termini non così fini, un po’ il “cimurro”, ascoltare discorsi magniloquenti con tutte queste parole e quando uno conosce la persona che parla dice: Che bugiardo che sei! Per questo le parole da sole non servono. Se dici una parola, impegnati per quella parola! Lavoraci giorno per giorno, giorno per giorno. Sacrificati per quello. Impegnati!

Mi è piaciuta la poesia di Carlos Miguel Giménez, che Mons. Adalberto Martínez ha citato. Penso che riassuma bene quello che volevo dirvi: «[Sogno] un paradiso senza guerra tra fratelli, ricco di uomini sani di anima e cuore… e un Dio che benedice la sua nuova ascensione». Sì, è un sogno. E ci sono due garanzie: che il sogno al risveglio sia realtà di tutti i giorni, e che Dio sia riconosciuto come la garanzia della nostra dignità come uomini. Sì, Dio è la garanzia della nostra dignità di uomini.

2. La seconda domanda si riferiva al dialogo come mezzo per costruire un progetto di nazione che includa tutti. Il dialogo non è facile. C’è anche il dialogo-teatro, cioè rappresentiamo il dialogo, giochiamo al dialogo, e poi parliamo tra noi due, e quello rimane cancellato. Il dialogo è a carte scoperte. Se tu nel dialogo non dici realmente ciò che senti, ciò che pensi, e non ti impegni ad ascoltare l’altro e a correggere quello che pensi tu e a confrontarti, il dialogo non serve, è una verniciatura. Certo, è vero, che il dialogo non è facile, bisogna superare molte difficoltà e, a volte, sembra che noi ci impuntiamo a rendere le cose ancora più difficili. Perché ci sia dialogo è necessaria una base fondamentale, un’identità. Certo. Per esempio, io penso al dialogo nostro, il dialogo interreligioso, dove parliamo tra rappresentanti di diverse religioni. Ci riuniamo, a volte, per parlare… con i punti di vista, ma ciascuno parla a partire dalla propria identità. “Io sono buddista, io sono evangelico, io sono ortodosso, io sono cattolico”. Ciascuno si esprime, con la propria identità. Non negozia la propria identità. Vale a dire, perché ci sia dialogo è necessaria questa base fondamentale. E qual è l’identità in un Paese? Qui siamo parlando del dialogo sociale. L’amore per la patria? Prima la patria, poi i miei affari! Prima la patria. Questa è l’identità. Dunque io, a partire da questa identità, mi metto a dialogare. Se io mi metto a dialogare senza questa identità, il dialogo non serve. Inoltre, il dialogo presuppone, esige da noi la ricerca della cultura dell’incontro. Un incontro che sappia riconoscere che la diversità non solo è buona, è necessaria. L’uniformità ci annulla, ci rende automi, La ricchezza della vita sta nella diversità. Per cui il punto di partenza non può essere: “Mi metto a dialogare, però quello sbaglia”. No, no, non possiamo presupporre che l’altro sbaglia. Io vado con il mio e ascolterò che cosa dice l’altro, in che cosa mi arricchisce l’altro, in che cosa l’altro mi fa rendere conto che sto sbagliando, e che cosa posso dare io all’altro. E’ un dare e ricevere, dare e ricevere, ma con il cuore aperto. Se c’è il presupposto che l’altro si sbaglia, è meglio andare a casa e non iniziare il dialogo. Non è così? Il dialogo è per il bene comune, e il bene comune si cerca a partire dalle nostre differenze, dando sempre la possibilità a nuove alternative. Vale a dire: cerca qualcosa di nuovo. Sempre, quando c’è vero dialogo, si finisce – permettetemi la parola, lo dico nobilmente – in un nuovo accordo, dove tutti ci siamo messi d’accordo su qualcosa. Ci sono differenze? Rimangono in disparte, di riserva. Ma su quel punto, o su quei punti su cui ci siamo messi d’accordo, ci impegniamo e li difendiamo. E’ un passo avanti. Questa è la cultura dell’incontro. Dialogare non è negoziare. Negoziare è cercare di ricavare la propria “fetta”. Vediamo come prendo la mia. Non, no, non dialoghi, non perder tempo. Se vai con questa intenzione non perdere tempo. E’ cercare il bene comune per tutti. Discutere insieme, pensare a una soluzione migliore per tutti. Molte volte questa cultura dell’incontro si vede coinvolta nel conflitto. Cioè… Abbiamo appena visto un bel balletto. Tutto era coordinato, con un’orchestra che era una vera sinfonia di accordi. Tutto era perfetto. Tutto andava bene. Ma nel dialogo non sempre è così, non tutto è un balletto perfetto o un’orchestra sintonizzata. Nel dialogo si dà il conflitto. È logico e prevedibile. Perché se io penso in un modo e tu in un altro, e ci confrontiamo, si viene a creare un conflitto. Non dobbiamo temerlo! Non dobbiamo ignorare il conflitto. Al contrario, siamo invitati ad accettare il conflitto. Se non accettiamo il conflitto – “No, mi viene il mal di testo! Che lui vada a casa con la sua idea, e io rimango con la mia” – non possiamo mai dialogare. Questo significa: «Accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 227). Ci mettiamo a dialogare, c’è un conflitto, lo accetto, lo risolvo ed è un anello di un nuovo processo. E’ un principio che ci deve aiutare molto. «L’unità è superiore al conflitto» (ibid. 228). Il conflitto esiste. Bisogna accettarlo, bisogna cercare di risolverlo fin dove si può, ma con la prospettiva di raggiungere un’unità che non è uniformità, ma unità nella diversità. Un’unità che non rompe le differenze, ma che le vive in comunione attraverso la solidarietà e la comprensione. Cercando di capire le ragioni dell’altro, cercando di ascoltare la sua esperienza, i suoi desideri, possiamo vedere che in gran parte sono aspirazioni comuni. E questa è la base dell’incontro: siamo tutti fratelli, figli dello stesso Padre, di un Padre celeste, e ciascuno con la propria cultura, la propria lingua, le proprie tradizioni, ha molto da offrire alla comunità. Ora, sono disposto ad accettare questo? Se sono disposto ad accettarlo, e a dialogare così, allora mi siedo a dialogare; se non sono disposto, meglio non perdere tempo. Le autentiche culture non sono mai chiuse in sé stesse – muoiono, se si chiudono in sé stesse muoiono – ma sono chiamate ad incontrarsi con altre culture e creare nuove realtà. Quando studiamo la storia troviamo culture millenarie che adesso non ci sono più. Sono morte, per molte ragioni. Ma una di queste è l’essersi chiuse in sé stesse. Senza questo presupposto essenziale, senza questa base di fraternità sarà molto difficile giungere al dialogo. Se qualcuno considera che ci sono persone, culture, situazioni di seconda, terza o quarta categoria… qualcosa di sicuro andrà male, perché manca semplicemente il minimo, che è il riconoscimento della dignità dell’altro. Che non ci sono persone di prima, di seconda, di terza, di quarta categoria: sono allo stesso livello.

3. E questo mi dà lo spunto per rispondere all’inquietudine espressa nella terza domanda: accogliere il grido dei poveri per costruire una società più inclusiva. E’ curioso: l’egoista si esclude. Noi vogliamo includere. Ricordate la parabola del figlio prodigo: quel figlio che domandò l’eredità al padre, si prese tutti i soldi, li sprecò nella bella vita, e alla fine di un lungo tempo in cui aveva perso tutto, poiché aveva mal di stomaco per la fame, si ricordò di suo padre. E suo padre lo aspettava. E’ la figura di Dio, che ci aspetta sempre. E quando lo vede venire, lo abbraccia e fa festa. Invece, l’altro figlio, quello che era rimasto a casa, si arrabbia e si autoesclude: “Io con questa gente non mi metto, io mi sono comportato bene… Io ho una gran cultura, ho studiato nella tale università, appartengo a questa famiglia e a questa stirpe, e con questi non mi mischio…”. Non escludere nessuno, ma non autoescludersi, perché tutti abbiamo bisogno di tutti.

E un aspetto fondamentale per promuovere i poveri è anche nel modo in cui li vediamo. Non serve uno sguardo ideologico, che finisce per utilizzar e i poveri al servizio di altri interessi politici o personali (cfr ibid., 199). Le ideologie finiscono male, non servono. Le ideologie hanno una relazione o incompleta o malata o cattiva con il popolo. Le ideologie non si fanno carico del popolo. Per questo, osservate nel secolo passato, che fine hanno fatto le ideologie? Sono diventate dittature, sempre. Pensano per il popolo, non lasciano pensare il popolo. O come diceva quell’acuto critico dell’ideologia, quando gli dissero: “Sì, però questa gente ha buona volontà e cerca di fare delle cose per il popolo…”. “Sì, sì, tutto per il popolo, ma niente con il popolo!”. Queste sono le ideologie.

Per ricercare effettivamente il bene dei poveri, la prima cosa è avere una vera preoccupazione per la loro persona, apprezzarli per la loro bontà. Ma un reale apprezzamento richiede di essere disposti a imparare dai poveri. I poveri hanno molto da insegnarci in umanità, in bontà, in sacrificio, in solidarietà. E noi cristiani abbiamo inoltre un motivo in più per amare e servire i poveri: perché in loro abbiamo il volto, vediamo il volto e la carne di Cristo, che si è fatto povero per arricchirci per mezzo della sua povertà (cfr 2 Cor8,9).

I poveri sono la carne di Cristo. A me piace chiedere a qualcuno, quando confesso le persone – adesso non ho molte opportunità di confessare come avevo nella diocesi precedente – ma mi piace domandare: “Lei aiuta la gente?! – “Sì, sì, faccio l’elemosina” – “Ah! E, mi dica, quando fa l’elemosina, Lei tocca la mano a chi fa l’elemosina, o getta la moneta e fa così?”. Sono modi di fare. “Quando Lei fa quell’elemosina, guarda negli occhi la persona o guarda da un’altra parte?”. Questo è disprezzare il povero. Sono i poveri. Pensiamoci bene. E’ uno come me. Se sta passando un brutto momento per mille ragioni – economiche, politiche, sociali o personali –, io potrei essere al suo posto e potrei stare desiderando che qualcuno mi aiuti. E oltre a desiderare che qualcuno mi aiuti, se mi trovo in quel posto ho diritto ad essere rispettato. Rispettare il povero. Non usarlo come oggetto per lavare le nostre colpe. Imparare dai poveri, con quello che dicono, con le cose che hanno, con i valori che hanno. E noi cristiani abbiamo quel motivo: che sono la carne di Gesù.

Certamente, sono molto necessarie per un Paese la crescita economica e la creazione di ricchezza, e che questa arrivi a tutti i cittadini, senza che nessuno rimanga escluso. E questo è necessario. La creazione di questa ricchezza dev’essere sempre in funzione del bene comune, di tutti, e non di quello di pochi. E in questo bisogna essere molto chiari. «L’adorazione dell’antico vitello d’oro (cfrEs 32,1-35) ha trovato una nuova e spietata versione nel feticismo del denaro e nella dittatura di una economia senza volto» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 55). Le persone la cui vocazione è di aiutare lo sviluppo economico hanno il compito di assicurare che questo abbia sempre un volto umano. Lo sviluppo economico deve avere un volto umano. No all’economia senza volto! Nelle loro mani c’è la possibilità di offrire un lavoro a molte persone e dare così speranza a tante famiglie. Portare il pane a casa, offrire ai figli un tetto, offrire salute e educazione, sono aspetti essenziali della dignità umana, e gli imprenditori, i politici, gli economisti, devono lasciarsi interpellare da essi. Vi chiedo di non cedere ad un modello economico idolatrico che abbia bisogno di sacrificare vite umane sull’altare del denaro e del profitto. Nell’economia, nell’azienda, nella politica, la prima cosa è sempre la persona, e l’ambiente in cui vive.

Giustamente il Paraguay è noto in tutto il mondo per essere stato la terra dove iniziarono le “Riduzioni”, una delle più interessanti esperienze di evangelizzazione e di organizzazione sociale della storia. In esse, il Vangelo era l’anima e la vita di comunità dove non c’era fame, non c’era disoccupazione, né analfabetismo né oppressione. Questa esperienza storica ci insegna che una società più umana è possibile anche oggi. Voi l’avete vissuta nelle vostre radici qui. E’ possibile. Quando c’è amore per l’uomo, e volontà di servirlo, è possibile creare le condizioni affinché tutti abbiano accesso a beni necessari, senza che nessuno sia escluso. Cercare in ogni caso le soluzioni con il dialogo.

Sulla quarta domanda, ho risposto parlando dell’economia tutta in funzione della persona e non in funzione del denaro. La signora, l’imprenditrice, parlava della poca validità di certe strade. E ne menzionava una che io avevo menzionato nella Evangelii gaudium, che è il populismo irresponsabile, non è così? E sembra che non producano effetti… E ci sono tante teorie… Come fare? Credo che in ciò che dico sull’economia dal volto umano si possa trovare l’ispirazione per rispondere a questa domanda.

Sulla quinta domanda, credo che la risposta si trova intorno a ciò che ho detto quando ho parlato delle culture. Ossia, c’è una cultura illuministica, che è una cultura ed è buona e va rispettata, certo. Oggi, ad esempio, in una parte del balletto è stata suonata una musica di una cultura illuministica e buona. Ma c’è un’altra cultura, che il medesimo valore, che è la cultura dei popoli, dei popoli originari, delle diverse etnie. Una cultura che oserei chiamare – ma nel senso buono – una cultura popolare. I popoli hanno la loro cultura e fanno la loro cultura. E’ importante questo lavoro per la cultura nel senso più ampio della parola. Non è cultura solamente aver studiato o poter godere di un concerto, o leggere un libro interessante, ma cultura è anche mille cose. Parlavate del tessuto di Ñandutí, per esempio: quello è cultura. Ed è cultura nata dal popolo. Per fare un esempio.

Ci sono due cose, prima di concludere, a cui vorrei fare riferimento. E in questo, poiché ci sono politici qui presenti, c’è anche il Presidente della Repubblica, lo dico fraternamente. Qualcuno mi ha detto: “Senta, il tale si trova sequestrato dall’esercito, faccia qualcosa!”. Io non dico se è vero o non è vero, se è giusto o non è giusto, ma uno dei metodi che avevano le dittature del secolo scorso, alle quali mi riferivo poco fa, era allontanare la gente, o con l’esilio o con la prigione, o, nel caso dei campi di sterminio, nazisti o stalinisti, la allontanavano con la morte… Affinché ci sia una vera cultura in un popolo, una cultura politica e del bene comune, ci vogliono con celerità giudizi chiari, giudizi limpidi. E non serve altro tipo di stratagemma. La giustizia limpida, chiara. Questo ci aiuterà tutti. Io non so se ciò qui esiste o meno, lo dico con tutto rispetto. Me lo hanno detto quando entravo, me lo hanno detto qui. E che chiedessi per non so chi… non ho sentito bene il nome.

E poi c’è un’altra cosa che pure per onestà voglio dire: un metodo che non dà libertà alle persone per assumere responsabilmente il loro compito di costruzione della società, ed è il ricatto. Il ricatto è sempre corruzione. “Se tu fai questo, ti facciamo questo, e così ti distruggiamo”. La corruzione è la tarma, è la cancrena di un popolo. Per esempio, nessun politico può svolgere il suo ruolo, il suo lavoro, se è ricattato da atteggiamenti di corruzione: “Dammi questo, dammi questo potere, dammi questo, se no ti faccio questo  e quello…”. Questo, che succede in tutti i popoli del mondo – perché questo succede – se un popolo vuole mantenere la propria dignità, deve eliminarlo. Sto parlando di un problema universale.

E concludo. Per me è una grande gioia vedere la quantità e la varietà delle associazioni che sono impegnate nella costruzione di un Paraguay sempre migliore e prospero, ma se non dialogate, non serve a nulla. Se praticate il ricatto, non serve a nulla. Questa moltitudine di gruppi e di persone sono come una sinfonia, ognuno con la sua peculiarità e la propria ricchezza, ma cercando l’armonia finale, l’armonia, e questo è ciò che conta. E non abbiate paura del conflitto, ma accettatelo e cercate vie di soluzione.

Amate la vostra patria, i vostri concittadini, e soprattutto amate i più poveri. Così sarete davanti al mondo una testimonianza che un altro modello di sviluppo è possibile. Sono convinto, per la vostra storia, che avete la più grande forza che esiste: la vostra umanità, la vostra fede, il vostro amore. Questo carattere del popolo paraguaiano che lo distingue in modo così ricco tra le nazioni del mondo.

Chiedo alla Vergine di Caacupé, nostra Madre, che abbia cura di voi, vi protegga e vi sostenga nei vostri sforzi. Che Dio vi benedica e pregate per me. Grazie!

[Dopo il canto]

Un consiglio, come congedo, prima della benedizione: il peggio che può capitare ad ognuno di voi quando uscite da qui è pensare: “Che buono quello che ha detto il Papa a tizio, caio, a quell’altro…”. Se qualcuno di voi ritiene di pensare così – perché il pensiero viene spesso, anche a me a volte viene, ma bisogna scacciarlo -, dica: “Il Papa a chi ha detto questo?” “A me”. Ciascuno, chiunque sia: “A me”.

E vi invito a pregare il nostro Padre comune, tutti insieme, ciascuno nella propria lingua:

Padre nostro…

Vespri con Vescovi, Sacerdoti, Diaconi, Religiosi, Religiose, Seminaristi e Movimenti cattolici nella Cattedrale Metropolitana dell’Assunta

Che bello pregare tutti insieme i Vespri! Come non sognare una Chiesa che rifletta e ripeta l’armonia delle voci e del canto nella vita quotidiana? E lo facciamo in questa Cattedrale, che tante volte ha dovuto ricominciare di nuovo; questa Cattedrale è segno della Chiesa e di ognuno di noi: a volte le tempeste da fuori e da dentro ci obbligano a buttar giù ciò che abbiamo costruito e cominciare di nuovo, ma sempre con la speranza riposta in Dio; e se guardiamo questo edificio, senza dubbio non ha deluso i paraguayani, perché Dio non delude mai e per questo lo lodiamo con gratitudine.

La preghiera liturgica, con la sua struttura e la sua forma ritmata, vuole esprimere la Chiesa tutta, sposa di Cristo, che cerca di conformarsi al suo Signore. Ognuno di noi nella nostra preghiera vogliamo diventare più somiglianti a Gesù.

La preghiera fa emergere quello che stiamo vivendo o che dovremmo vivere nella vita quotidiana, almeno la preghiera che non vuole essere alienante o solo decorativa. La preghiera ci dà impulso per mettere in atto o verificarci in ciò che recitavamo nei salmi: siamo noi le mani di Dio che «dall’immondizia rialza il povero» (Sal 112[113],7) e siamo noi a lavorare perché la tristezza della sterilità si trasformi nella gioia del terreno fertile. Noi che cantiamo che «agli occhi del Signore è preziosa la morte dei suoi fedeli» (Sal 116,15), siamo quelli che lottiamo, ci diamo da fare, difendiamo il valore di ogni vita umana, dal concepimento fino a che gli anni sono molti e la forza poca. La preghiera è riflesso dell’amore che sentiamo per Dio, per gli altri, per il mondo creato; il comandamento dell’amore è la miglior configurazione con Gesù del discepolo missionario. Stare attaccati a Gesù dà profondità alla vocazione cristiana, che, coinvolta nel “fare” di Gesù – che è molto più che delle attività –, cerca di assomigliare a Lui in tutto ciò che compie. La bellezza della comunità ecclesiale nasce dall’adesione di ciascuno dei suoi membri alla persona di Gesù, formando un “insieme vocazionale” nella ricchezza della varietà armonica.

Le antifone dei cantici evangelici di questo fine settimana ci ricordano l’invio dei Dodici da parte di Gesù. Sempre è bene crescere in questa coscienza di lavoro apostolico in comunione. E’ bello vedervi collaborare pastoralmente, sempre a partire dalla natura e dalla funzione ecclesiale di ogni vocazione e ogni carisma. Desidero esortare tutti voi, sacerdoti, religiosi e religiose, laici e seminaristi, vescovi, ad impegnarvi in questa collaborazione ecclesiale, specialmente intorno ai piani pastorali delle diocesi e alla missione continentale, cooperando con tutta la vostra disponibilità al bene comune. Se la divisione tra noi provoca sterilità (cfr Esort. ap.Evangelii gaudium, 98-101), non c’è dubbio che dalla comunione e dall’armonia nasca la fecondità, perché sono profondamente consonanti con lo Spirito Santo.

Tutti abbiamo limiti, nessuno può riprodurre Gesù Cristo nella sua totalità, e sebbene ogni vocazione si configura principalmente con alcuni raggi della vita e dell’opera di Gesù, ce ne sono alcuni comuni e irrinunciabili. Abbiamo appena lodato il Signore perché «non ritenne un privilegio l’essere come Dio» (Fil 2,6), e questa è una caratteristica di ogni vocazione cristiana, «non ritenne un privilegio l’essere come Dio»: chi è chiamato da Dio non si vanta, non va in cerca di riconoscimenti né di applausi effimeri, non sente di esser salito di categoria e non tratta gli altri come se fosse su un piedestallo.

Il primato di Cristo è descritto chiaramente nella liturgia della Lettera gli Ebrei; noi abbiamo appena letto quasi il finale di tale Lettera: “Renderci perfetti come il pastore grande delle pecore” (cfr 13,20-21) e questo comporta riconoscere che ogni consacrato si configura a Colui che nella sua vita terrena, tra «preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime» (Eb 5,7) raggiunse la perfezione quando imparò, soffrendo, che cosa significava obbedire; e anche questo fa parte della chiamata.

Terminiamo di recitare i nostri Vespri. Il campanile di questa Cattedrale è stato rifatto più volte; il suono delle campane precede e accompagna in molte occasioni la nostra preghiera liturgica: fatti nuovi da Dio ogni volta che preghiamo, saldi come un campanile,gioiosi di predicare le meraviglie di Dio, condividiamo il Magnificat e lasciamo al Signore di fare – che Lui faccia – mediante la nostra vita consacrata, grandi cose nel Paraguay.

Visita alla Popolazione del Bañado Norte (Cappella di San Juan Bautista) (Domenica, 12 luglio)

Care sorelle e cari fratelli, buongiorno!

Sono molto contento di farvi visita questa mattina. Non potevo trovarmi in Paraguay senza venire da voi, senza stare in questa vostra terra.

Ci incontriamo in questa Parrocchia intitolata alla Santa Famiglia e vi confesso che da quando ho cominciato a pensare a questa visita, da quando ho cominciato il percorso da Roma fino a qui, pensavo alla Santa Famiglia. E quando pensavo a voi, mi ricordavo della Santa Famiglia. Vedere i vostri volti, i vostri figli, i vostri nonni. Ascoltare le vostre storie e tutto quello che avete realizzato per stare qui, tutte le lotte che avete fatto per avere una vita degna, un tetto. Tutto quello che fate per superare l’inclemenza del tempo, le inondazioni di queste ultime settimane, tutto questo mi riporta alla memoria la piccola famiglia di Betlemme. Una lotta che non vi ha rubato il sorriso, la gioia, la speranza. Un darsi da fare che non vi ha tolto la solidarietà, al contrario, l’ha stimolata e l’ha fatta crescere.

Mi voglio soffermare su Giuseppe e Maria a Betlemme. Essi dovettero lasciare la propria terra, i propri cari, i propri amici. Dovettero lasciare le proprie cose e andare in un’altra terra. Una terra in cui non conoscevano nessuno, non avevano casa, né famiglia. In quel momento, quella giovane coppia ebbe Gesù. In quel contesto, in una stalla preparata come poterono, quella giovane coppia ci ha regalato Gesù. Erano soli, in una terra estranea, loro tre. All’improvviso, cominciò ad apparire gente: dei pastori, persone come loro che avevano dovuto lasciare la propria realtà allo scopo di trovare migliori opportunità familiari. Anche la loro vita era legata alle inclemenze del tempo, e ad altri tipi di inclemenze.

Quando si resero conto della nascita di Gesù, si accostarono, si fecero prossimi, vicini. Diventarono subito la famiglia di Maria e Giuseppe. La famiglia di Gesù.

Questo è ciò che accade quando Gesù appare nella nostra vita. Questo è ciò che la fede suscita. La fede ci rende prossimi, ci fa prossimi della vita degli altri, ci avvicina alla vita degli altri. La fede suscita il nostro impegno con gli altri, la fede suscita la nostra solidarietà: una virtù umana e cristiana, che voi avete e che molti, molti hanno e che dobbiamo imparare. La nascita di Gesù risveglia la nostra vita. Una fede che non si fa solidarietà, è una fede morta, una fede falsa. “No, io sono molto cattolico, sono molto cattolica, vado a Messa tutte le domeniche”. Ma, mi dica, signore, signora, che cosa succede là a Bañado? “Ah, non so… sì… no… non so, sì…, so che c’è gente là, ma non so…”. Per quanto vai a Messa la domenica, se non hai un cuore solidale, se non sai che cosa succede nel tuo popolo, la tua fede è molto debole, o è malata, o è morte. È una fede senza Cristo. La fede senza solidarietà è una fede senza Cristo, è una fede senza Dio, è una fede senza fratelli. E allora viene quel detto, che spero di ricordare bene, ma che ritrae questo problema di una fede senza solidarietà: “Un Dio senza popolo, un popolo senza fratelli, un popolo senza Gesù”. Questa è la fede senza solidarietà. E Dio si mise in mezzo al popolo che Lui aveva scelto per accompagnarlo, e mandò il suo Figlio a questo popolo per salvarlo, per aiutarlo. Dio si fece solidale con quel popolo, e Gesù non ebbe alcun problema a scendere, umiliarsi, abbassarsi, fino a morire per ognuno di noi, per questa solidarietà da fratello, solidarietà che nasce dall’amore che aveva per suo Padre e dall’amore che aveva per noi. Ricordatevi: quando una fede non è solidale, o è debole, o è malata, o è morta. Non è la fede di Gesù.

Come vi dicevo, il primo ad essere solidale fu il Signore, che scelse di vivere tra di noi, scelse di vivere in mezzo a noi. Io vengo qui come quei pastori che c’erano a Betlemme. Voglio farmi prossimo. Voglio benedire la vostra fede, voglio benedire le vostre mani, voglio benedire la vostra comunità. Sono venuto a rendere grazie con voi, perché la fede si è fatta speranza ed è una speranza che stimola l’amore. La fede che Gesù suscita è una fede con la capacità di sognare il futuro e di lottare per esso nel presente. Proprio per questo voglio incoraggiarvi a continuare ad essere missionari di questa fede, a continuare a contagiare questa fede per queste strade, per questi sentieri. Questa fede che ci fa solidali tra di noi, con il nostro Fratello maggiore Gesù, e la nostra Madre, la Vergine. Facendovi prossimi specialmente dei più giovani e degli anziani. Facendovi sostegno delle giovani famiglie e di coloro che stanno attraversando momenti di difficoltà. Forse il messaggio più forte che voi potete dare agli altri è questa fede solidale. Il diavolo vuole che litighiate tra di voi, e così vi divide e vi rovina e vi ruba la fede. Solidarietà di fratelli per difendere la fede! E inoltre che questa fede solidale sia un messaggio per tutta la città!

Voglio pregare per le vostre famiglie, e pregare la Sana Famiglia perché il suo modello, la sua testimonianza continui ad essere luce sul cammino, stimolo nei momenti difficili, e che ci faccia la grazia di un dono, che domandiamo insieme, tutti: che la Santa Famiglia ci doni “pastori”, che ci doni preti, vescovi, capaci di accompagnare, di sostenere e di stimolare la vita delle vostre famiglie. Capaci di far crescere quella fede solidale che non è mai vinta.

Vi invito a pregare insieme e vi chiedo anche di non dimenticarvi di pregare per me.

E recitiamo insieme una preghiera al nostro Padre che ci fa fratelli, ci ha mandato il nostro Fratello maggiore, il suo Figlio Gesù, e ci ha dato una Madre che ci accompagnerà.

Padre nostro…

Benedizione.

E andate avanti! E non lasciate che il diavolo vi divida! Addio!

Santa Messa nel campo grande di Ñu Guazú

“Il Signore ci darà la pioggia e la nostra terra darà il suo frutto”, così dice il Salmo (cfr 84,13). Questo siamo invitati a celebrare, quella misteriosa comunione tra Dio e il suo Popolo, tra Dio e noi. La pioggia è segno della sua presenza nella terra lavorata dalle nostre mani. Una comunione che dà sempre frutto, dà sempre vita. Questa fiducia scaturisce dalla fede, sapere che possiamo contare sulla sua grazia, che sempre trasformerà e irrigherà la nostra terra.

Una fiducia che si impara, che si educa. Una fiducia che si va formando nel seno di una comunità, nella vita di una famiglia. Una fiducia che diventa testimonianza nei volti di tanti che ci stimolano a seguire Gesù, ad essere discepoli di Colui che non delude mai. Il discepolo si sente invitato a fidarsi, si sente invitato da Gesù ad essergli amico, a condividere il suo destino, a condividere la sua vita. «Non vi chiamo più servi, vi ho chiamato amici perché tutto ciò che ho udito dal padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv15,15). I discepoli sono coloro che imparano a vivere nella fiducia dell’amicizia di Gesù.

E il Vangelo ci parla di questo discepolato. Ci presenta la carta d’identità del cristiano. La sua lettera di presentazione, le sue credenziali.

Gesù chiama i suoi discepoli e li invia dando loro regole chiare, precise. Li sfida con una serie di atteggiamenti, comportamenti che devono avere. Non sono poche le volte che ci possono sembrare esagerati o assurdi; atteggiamenti che sarebbe più facile leggere simbolicamente o “spiritualmente”. Ma Gesù è molto chiaro. Non dice loro: «Fate in qualche modo» o «fate quello che potete».

Ricordiamo insieme queste raccomandazioni: “Non prendete per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, ne denaro… rimanete nella casa dove vi daranno alloggio” (cfr Mc 6,8-11). Sembrerebbe qualcosa di impossibile.

Potremmo concentrarci sulle parole «pane», «denaro», «borsa», «bastone», «sandali», «tunica». E sarebbe legittimo. Ma mi sembra che ci sia una parola-chiave, che potrebbe passare inosservata di fronte all’impatto di quelle che ho appena enumerato. Una parola centrale nella spiritualità cristiana, nell’esperienza di discepolato: ospitalità. Gesù, come buon maestro, pedagogo, li invia a vivere l’ospitalità. Dice loro: “Rimanete dove vi accoglieranno”. Li manda ad imparare una delle caratteristiche fondamentali della comunità credente. Potremmo dire che il cristiano è colui che ha imparato ad ospitare, che ha imparato ad accogliere.

Gesù non li invia come potenti, come proprietari, capi, o carichi di leggi e di norme; al contrario, indica loro che il cammino del cristiano è semplicemente trasformare il cuore, il proprio, e aiutare a trasformare quello degli altri. Imparare a vivere in un altro modo, con un’altra legge, sotto un’altra normativa. E’ passare dalla logica dell’egoismo, della chiusura, dello scontro, della divisione, della superiorità, alla logica della vita, della gratuità, dell’amore. Dalla logica del dominio, dell’oppressione, della manipolazione, alla logica dell’accogliere, del ricevere e del prendersi cura.

Sono due le logiche che sono in gioco, due modi di affrontare la vita e di affrontare la missione.

Quante volte pensiamo la missione sulla base di progetti o programmi. Quante volte immaginiamo l’evangelizzazione intorno a migliaia di strategie, tattiche, manovre, trucchi, cercando di convertire le persone con le nostre argomentazioni. Oggi il Signore ce lo dice molto chiaramente: nella logica del Vangelo non si convince con le argomentazioni, le strategie, le tattiche, ma semplicemente imparando ad accogliere, a ospitare.

La Chiesa è madre dal cuore aperto che sa accogliere, ricevere, specialmente chi ha bisogno di maggiore cura, chi è in maggiore difficoltà. La Chiesa, come la voleva Gesù, è la casa dell’ospitalità. E quanto bene possiamo fare se ci incoraggiamo ad imparare questo linguaggio dell’ospitalità, questo linguaggio del ricevere, dell’accogliere! Quante ferite, quanta disperazione si può curare in una dimora dove uno possa sentirsi accolto! Per questo bisogna tenere le porte aperte, soprattutto le porte del cuore.

Ospitalità con l’affamato, con l’assetato, con lo straniero, con il nudo, con il malato, con il prigioniero (cfr Mt 25,34-37), con il lebbroso, con il paralitico. Ospitalità con chi non la pensa come noi, con chi non ha fede o l’ha perduta, e magari per colpa nostra. Ospitalità con il perseguitato, con il disoccupato. Ospitalità con le culture diverse, di cui questa terra paraguaiana è così ricca. Ospitalità con il peccatore, perché ognuno di noi pure lo è.

Tante volte ci dimentichiamo che c’è un male che precede i nostri peccati, che viene prima. C’è una radice che causa tanti ma tanti danni, che distrugge silenziosamente tante vite. C’è un male che, poco a poco, si fa un nido nel nostro cuore e “mangia” la nostra vitalità: la solitudine. Solitudine che può avere molte cause, molti motivi. Quanto distrugge la vita e quanto ci fa male! Ci separa dagli altri, da Dio, dalla comunità. Ci rinchiude in noi stessi. Perciò quello che è proprio della Chiesa, di questa madre, non è principalmente gestire cose, progetti, ma imparare a vivere la fraternità con gli altri. È la fraternità accogliente la migliore testimonianza che Dio è Padre, perché «da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri» (Gv13,35).

In questo modo Gesù, ci apre ad una nuova logica. Un orizzonte pieno di vita, di bellezza, di verità, di pienezza.

Dio non chiude mai gli orizzonti, Dio non è mai passivo di fronte alla vita, non è mai passivo di fronte alla sofferenza dei suoi figli. Dio non si lascia mai vincere in generosità. Per questo ci manda il suo Figlio, lo dona, lo consegna, lo condivide; affinché impariamo il cammino della fraternità, il cammino del dono. È definitivamente un nuovo orizzonte, è una nuova parola per tante situazioni di esclusione, di disgregazione, di chiusura, di isolamento. È una Parola che rompe il silenzio della solitudine.

E quando siamo stanchi o ci diventa pesante il compito di evangelizzare, è bene ricordare che la vita che Gesù ci offre risponde alle necessità più profonde delle persone, perché tutti siamo stati creati per l’amicizia con Gesù e per l’amore fraterno (cfr Esort. ap.Evangelii gaudium, 265).

Una cosa è certa: non possiamo obbligare nessuno a riceverci, ad ospitarci; è certo ed è parte della nostra povertà e della nostra libertà. Ma è altrettanto certo che nessuno può obbligarci a non essere accoglienti, ospitali verso la vita del nostro popolo. Nessuno può chiederci di non accogliere e abbracciare la vita dei nostri fratelli, soprattutto la vita di quelli che hanno perso la speranza e il gusto di vivere. Com’è bello immaginare le nostre parrocchie, comunità, cappelle, dove ci sono i cristiani, non con le porte chiuse, ma come veri centri di incontro tra noi e Dio. Come luoghi di ospitalità e di accoglienza.

La Chiesa è madre, come Maria. In lei abbiamo un modello. Accogliere, come Maria, che non ha dominato né si è impadronita della Parola di Dio, ma, al contrario, l’ha ospitata,l’ha portata in grembo e l’ha donata.

Accogliere come la terra che non domina il seme, ma lo riceve, lo nutre e lo fa germogliare.

Così vogliamo essere noi cristiani, così vogliamo vivere la fede in questo suolo paraguaiano, come Maria, accogliendo la vita di Dio nei nostri fratelli con fiducia, con la certezza che “il Signore ci darà la pioggia e la nostra terra darà il suo frutto”. Così sia.

Angelus

Ringrazio l’Arcivescovo di Asunción, Mons. Edmundo Ponziano Valenzuela Mellid, e l’Arcivescovo [ortodosso] del Sudamerica, Tarasios, per le cortesi parole.

Al termine di questa celebrazione rivolgiamo il nostro sguardo fiducioso alla Vergine Maria, Madre di Dio e Madre nostra. Ella è il dono di Gesù al suo popolo. Ce l’ha data come madre nell’ora della croce e della sofferenza. È frutto dell’oblazione di Cristo per noi. E, da allora, è sempre stata e sempre sarà con i suoi figli, specialmente i più piccoli e bisognosi. Lei è entrata nella trama della storia dei nostri popoli e delle loro genti. Come in molti altri Paesi dell’America Latina, la fede dei paraguaiani è impregnata di amore alla Vergine. Andate con fiducia dalla vostra madre, le aprite il vostro cuore, e le confidate le vostre gioie e i vostri dolori, le vostre speranze e le vostre sofferenze. La Vergine vi consola e con la tenerezza del suo amore accende in voi la speranza. Non cessate di invocare Maria e di confidare in lei, madre di misericordia per tutti i suoi figli senza distinzione.

Alla Vergine, che perseverò con gli Apostoli in attesa dello Spirito Santo (cfr At 1,13-14), chiedo anche che vegli sulla Chiesa e rafforzi i vincoli fraterni tra tutti i suoi membri. Con l’aiuto di Maria, la Chiesa sia casa di tutti, una casa che sappia ospitare, una madre per tutti i popoli.

Cari fratelli, vi chiedo per favore di non dimenticarvi di pregare per me. So molto bene quanto si ama il Papa in Paraguay. Anch’io vi porto nel mio cuore e prego per voi e per il vostro Paese.

Ed ora vi invito a recitare l’Angelus alla Vergine.

BENEDIZIONE: Il Signore vi benedica e vi protegga; faccia risplendere il suo volto su di voi e vi conceda la sua misericordia; volga il suo sguardo su di voi e vi conceda pace. E la benedizione di Dio Onnipotente, Padre, Figlio e Spirito Santo discenda su di voi e con voi rimanga sempre.

Incontro con i Giovani sul lungofiume «Costanera»

Discorso pronunciato a braccio

Cari giovani, buon pomeriggio!

Dopo aver letto il Vangelo, Orlando si è avvicinato per salutarmi e mi ha detto: “Ti chiedo di pregare per la libertà di ognuno di noi, di tutti”. E’ la benedizione che ha chiesto Orlando per ognuno di noi. E’ la benedizione che chiediamo adesso tutti insieme: la libertà. Perché la libertà è un dono che ci dà Dio, ma bisogna saperlo accogliere, bisogna saper avere il cuore libero. Perché tutti sappiamo che nel mondo ci sono tanti lacci che ci legano il cuore e non lasciano che il cuore sia libero. Lo sfruttamento, la mancanza di mezzi per sopravvivere, la dipendenza dalla droga, la tristezza… tutte queste cose ci tolgono la libertà. E allora tutti insieme… ringraziando Orlando che ha chiesto questa benedizione, avere il cuore libero, un cuore che possa dire quello che pensa e quello che sente: questo è un cuore libero!… E questo è ciò che adesso chiediamo tutti insieme, questa benedizione che Orlando ha chiesto per tutti. Ripetete con me [il Santo Padre pronuncia la preghiera frase per frase e i giovani ripetono]: Signore Gesù, dammi un cuore libero. Che non sia schiavo di tutte le trappole del mondo. Che non sia schiavo della comodità, dell’inganno. Che non sia schiavo della “bella vita”. Che non sia schiavo dei vizi. Che non sia schiavo di una falsa libertà, che è fare quello che mi piace in ogni momento. Grazie, Orlando, per averci fatto rendere conto che dobbiamo domandare un cuore libero. Chiedetelo tutti i giorni!

Abbiamo ascoltato due testimonianze: quella di Liz e quella di Manuel. Liz ci insegna una cosa. Come Orlando ci ha insegnato a pregare per avere un cuore libero, Liz con la sua vita ci insegna che non bisogna essere come Ponzio Pilato, lavarsene le mani! Liz avrebbe potuto tranquillamente mettere sua mamma in un ricovero, sua nonna in un altro ricovero e vivere la sua vita da giovane, divertendosi, studiando quello che voleva. E ha detto: “No. La nonna, la mamma…”. E Liz è diventata serva, servitrice e, se volete ancora più forte, servente della mamma e della nonna. E lo ha fatto con affetto! A tal punto – diceva lei – che addirittura si sono scambiati i ruoli e lei ha finito per essere la mamma di sua mamma, nel modo in cui la curava. Sua mamma, con quella malattia così crudele che confonde le cose. E lei ha bruciato la sua vita, fino ad ora, fino a 25 anni, servendo sua mamma e sua nonna. Sola? No, Liz non era sola. Lei ha detto due cose che ci devono aiutare. Ha parlato di un angelo, di una zia che è stata come un angelo; e ha parlato dell’incontro con gli amici nei fine settimana, con la comunità giovanile di evangelizzazione, con il gruppo giovanile che alimentava la sua fede. E quei due angeli – la zia che l’assisteva e il gruppo giovanile – le davano più forza per andare avanti. E questo si chiama solidarietà. Come si chiama? [i giovani rispondono: “Solidarietà!”] Quando ci facciamo carico del problema dell’altro. E lei ha trovato lì un’oasi di pace per il suo cuore stanco. Ma c’è una cosa che ci sfugge. Lei non ha detto: “Faccio questo e basta”. Ha studiato. Ed è infermiera. E nel fare tutto questo, l’aiuto, la solidarietà che ha ricevuto da voi, dal vostro gruppo, che ha ricevuto da quella zia che era come un angelo, l’ha aiutata ad andare avanti. E oggi, a 25 anni, ha la grazia che Orlando ci faceva chiedere: ha un cuore libero. Liz mette in pratica il quarto comandamento: “Onora tuo padre e tua madre”. Liz esprime la sua vita – la brucia! – nel servizio a sua madre. E’ un grado altissimo di solidarietà, è un grado altissimo di amore. Una testimonianza. “Padre, allora è possibile amare?”. Qui avete qualcuno che ci insegna ad amare.

Primo: libertà, cuore libero. Allora, tutti insieme [con i giovani]: “Primo: cuore libero”. Secondo: solidarietà per accompagnare. Solidarietà. Questo è ciò che ci insegna questa testimonianza. E Manuel non ha avuto una vita facile. Manuel non è un “cocco di mamma”, non è stato un “pupo”; non è stato un bambino e oggi un ragazzo dalla vita facile. Ha detto parole dure: “Sono stato sfruttato, sono stato maltrattato, a rischio di cadere nelle dipendenze… Ero solo”. Sfruttamento, maltrattamenti e solitudine. E invece di fare cose negative, invece di andare a rubare, si è messo a lavorare! Invece di vendicarsi della vita, ha guardato avanti! E Manuel ha usato una frase bella: “Ho potuto andare avanti, perché nella situazione in cui mi trovavo era difficile parlare di futuro”. Quanti giovani, voi, oggi hanno la possibilità di studiare, di sedersi a tavola con la famiglia tutti i giorni, hanno la possibilità che non manchi loro l’essenziale? Quanti di voi hanno queste cose? Tutti insieme, quelli che hanno questo, dicano: “Grazie Signore!” [giovani: “Grazie Signore!”]. Perché qui abbiamo avuto una testimonianza di un ragazzo che fin da bambino ha saputo che cos’era il dolore, la tristezza, che è stato sfruttato, maltrattato, che non aveva da mangiare e che era solo. Signore, salva i bambini e le bambine che si trovano in questa situazione! E per noi, Signore, grazie. “Grazie Signore!” [giovani: “Grazie Signore!”].

Libertà del cuore – vi ricordate? -, libertà del cuore, quello che ci diceva Orlando. Servizio, solidarietà, quello che ci diceva Liz. Speranza, lavoro, lottare per la vita, andare avanti: quello che ci diceva Manuel. Come vedete, la vita non è facile per molti giovani. E questo voglio che lo comprendiate. Voglio che ve lo mettiate in testa. “Se per me la vita è relativamente facile, ci sono altri ragazzi per i quali non è relativamente facile”. Addirittura, ce ne sono alcuni che la disperazione spinge alla delinquenza, spinge al delitto, spinge a collaborare con la corruzione. A questi ragazzi, a queste ragazze, dobbiamo dire che noi siamo loro vicino, che vogliamo dare loro una mano, che volgiamo aiutarli, con solidarietà, con amore, con speranza.

Ci sono due frasi che hanno detto i due che hanno parlato, Liz e Manuel. Due frasi, sono belle. Ascoltatele. Liz ha detto che ha incominciato a conoscere Gesù, conoscere Gesù, e questo è aprire la porta alla speranza. E Manuel ha detto: “Ho conosciuto Dio, mia fortezza”. Cioè, conoscere Dio, avvicinarsi a Gesù, è speranza e fortezza. E questo è ciò che abbiamo bisogno di trovare nei giovani oggi: giovani con speranza e giovani con fortezza. Non vogliamo giovani “smidollati”, giovani del “fin qui e non di più”, né sì né no. Non vogliamo giovani che si stancano subito e vivono stanchi, con la faccia annoiata. Vogliamo giovani forti. Vogliamo giovani con speranza e con fortezza. Perché? Perché conoscono Gesù, perché conoscono Dio. Perché hanno un cuore libero. Cuore libero! Ripetete! [i giovani ripetono ogni volta] Soldarietà! Lavoro! Speranza! Impegno! Conoscere Gesù! Conoscere Dio mia fortezza! Un giovane che vive così ha la faccia annoiata? [“No!”] Ha il cuore triste? [“No!”] Questa è la strada! Però per questo ci vuole sacrificio, bisogna andare controcorrente. Le Beatitudini che abbiamo letto poco fa sono il progetto di Gesù per noi. Ed è un progetto controcorrente. Gesù vi dice: «Beati i poveri in spirito». Non dice: “Beati i ricchi, quelli che accumulano soldi”. No. I poveri in spirito, quelli che sono capaci di avvicinarsi e comprendere chi è un povero. Gesù non dice: “Beati quelli che se la passano bene”, ma dice: “Beati quelli che hanno la capacità di affliggersi per il dolore degli altri”. E così di seguito… Io vi raccomando di leggere dopo, a casa, le Beatitudini, che si trovano nel capitolo quinto di San Matteo. In che capitolo sono? [giovani: “Quinto”] Di quale Vangelo? [“San Matteo”]. Leggetele e meditatele, che vi farà bene.

Voglio ringraziare te, Liz; ti ringrazio, Manuel; e ti ringrazio, Orlando. Cuore libero, così dev’essere.

E devo andarmene… [giovani: “No!”]. L’altro giorno, un prete per scherzo mi ha detto: “Sì, Lei continui pure a dire ai giovani di fare chiasso, continui pure… Ma poi, il chiasso che fanno i giovani dobbiamo gestirlo noi!”. Fate chiasso, ma aiutate anche a gestire e organizzare il chiasso che fate. Fate chiasso e organizzatelo bene! Un chiasso che ci dia un cuore libero, un chiasso che ci dia solidarietà, un chiasso che ci dia speranza, un chiasso che nasca dall’aver conosciuto Gesù e dal sapere che Dio, che ho conosciuto, è la mia fortezza. Questo è il chiasso che vi invito a fare.

Dato che conoscevo le domande, perché me le avevano date prima, avevo scritto un discorso per voi, per darvelo, ma i discorsi sono noiosi…, e così lo consegno al Vescovo incaricato della Gioventù, perché lo pubblichi.

E ora, prima di andarmene, [“No!”] vi chiedo: primo, di continuare a pregare per me; secondo, di continuare a fare chiasso; terzo, di aiutare a organizzare il chiasso che fate perché non faccia disastri. E tutti insieme adesso, in silenzio, eleviamo il cuore a Dio. Ognuno nel suo cuore, a bassa voce, ripeta le parole:

Signore Gesù, ti ringrazio perché sono qui. Ti ringrazio di avermi dato fratelli come Liz, Manuel e Orlando. Ti ringrazio di avermi dato tanti fratelli che sono come loro, che ti hanno incontrato, Gesù, che ti conoscono, Gesù, che sanno che Tu, loro Dio, sei la loro fortezza. Gesù, ti prego per i ragazzi e le ragazze che non sanno che Tu sei la loro fortezza, e che hanno paura di vivere, paura di essere felici, hanno paura di sognare. Gesù, insegnaci a sognare, a sognare cose grandi, cose belle, cose che anche se sembrano quotidiane sono cose che allargano il cuore. Signore Gesù, dacci fortezza, dacci un cuore libero, dacci speranza, dacci amore, e insegnaci a servire. Amen.

Ora vi do la benedizione e vi chiedo, per favore, di pregare per me, e di pregare per tanti ragazzi e ragazze che non hanno la grazia che avete voi di aver conosciuto Gesù, che vi dà la speranza, vi dà un cuore libero e vi rende forti.

Discorso preparato dal Santo Padre:

Cari giovani,

mi dà grande gioia potermi incontrare con voi in questo clima di festa. Poter ascoltare le vostre testimonianze e condividere il vostro entusiasmo e amore per Gesù.

Grazie a Mons. Ricardo Valenzuela, responsabile della pastorale giovanile, per le sue parole. Grazie, Manuel e Liz, per il coraggio nel condividere le vostre esperienze e le vostre testimonianze in questo incontro. Non è facile parlare di cose personali, meno ancora davanti a tanta gente. Voi avete condiviso il più grande tesoro che avete, le vostre storie, la vostra vita e come Gesù è entrato in essa. Per rispondere alle vostre domande mi piacerebbe sottolineare alcune delle cose che avete condiviso.

Manuel, tu ci hai detto qualcosa come: “Oggi sento un gran desiderio di servire gli altri, ho voglia di superarmi”. Hai passato momenti molto difficili, situazioni molto dolorose, però oggi hai molta voglia di servire, di uscire, di condividere la vita con gli altri.

Liz, non è per nulla facile fare da madre ai propri genitori e ancor meno quando uno è giovane, però, quanta saggezza e quanta maturità ci sono nelle tue parole quando ci hai detto: “Oggi gioco con lei, gli cambio i pannolini, sono tutte cose che oggi offro a Dio, e sto appena restituendo tutto quello che mia madre ha fatto per me”.

Voi giovani paraguayani siete davvero coraggiosi!

Avete anche condiviso con gli altri come avete fatto per poter andare avanti, dove avete trovato le forze. Ambedue avete detto: “Nella parrocchia”. Negli amici della parrocchia e nei ritiri spirituali che lì venivano organizzati. Due chiavi molto importanti: gli amici e i ritiri spirituali.

Gli amici. L’amicizia è uno dei doni più grandi che una persona, che un giovane può avere e può offrire. È vero. Com’è difficile vivere senza amici! E notate che sarà una delle cose più belle che Gesù dice: «Vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15). Uno dei segreti più grandi del cristiano si radica nell’essere amici, amici di Gesù. Quando uno vuole bene a qualcuno, gli sta accanto, se ne prende cura, lo aiuta, gli dice quello che pensa, sì, ma non lo abbandona. Così si comporta Gesù con noi, non ci abbandona mai. Gli amici si sopportano, si accompagnano, si proteggono. Così è il Signore con noi. Ci sopporta.

I ritiri spirituali. Sant’Ignazio fa una famosa meditazione chiamata delle due bandiere. Descrive da un lato la bandiera del demonio e dall’altro la bandiera di Cristo. Un po’ come due squadre con maglie diverse, e ci domanda in quale ci piacerebbe giocare.

Con questa meditazione, ci fa immaginare come sarebbe appartenere a una o all’altra squadra. Sarebbe come domandarci: Con chi vuoi giocare nella vita? E dice Sant’Ignazio che il demonio per reclutare giocatori promette a quelli che giocheranno con lui ricchezza, onori, gloria, potere. Saranno famosi. Tutti li adoreranno.

Dall’altra parte, ci presenta lo stile di gioco di Gesù. Non come qualcosa di fantastico. Gesù non ci presenta una vita da stelle, da celebrità, ma al contrario ci dice che giocare con Lui è un invito all’umiltà, all’amore, al servizio verso il prossimo. Gesù non ci mente. Ci prende sul serio.

Nella Bibbia, il demonio viene chiamato il padre della menzogna. Quello che ti prometteva, o meglio ti faceva credere che facendo determinate cose saresti felice. E poi ti rendevi conto che non eri per niente felice, che eri andato dietro a qualcosa che lungi dal procurarti la felicità, ti ha fatto sentire più vuoto, più triste. Amici: il diavolo è un “venditore di fumo”. Ti promette, ti promette, ma non ti dà nulla, non mantiene mai nulla di ciò che promette. È un cattivo pagatore. Ti fa desiderare cose che non dipendono da lui, che tu le ottenga o no. Ti fa riporre la speranza in qualcosa che non ti renderà mai felice. Questo è il suo gioco, la sua strategia. Parlare molto, promettere molto e non fare nulla. E’ un gran “venditore di fumo” perché tutto quello che ci propone è frutto della divisione, del competere con gli altri, dello schiacciare la testa agli altri per ottenere le nostre cose. È un “venditore di fumo” perché, per raggiungere tutto questo, l’unica strada è mettere da parte i tuoi amici, non sopportare nessuno. Perché tutto si basa sull’apparenza. Ti fa credere che il tuo valore dipende da quanto possiedi.

Al contrario, abbiamo Gesù, che ci offre il suo gioco. Non ci vede fumo, non ci promette apparentemente grandi cose. Non ci dice che la felicità si trova nella ricchezza, nel potere, nell’orgoglio. Al contrario. Ci mostra che la strada è un’altra. Questo Direttore Tecnico dice ai suoi giocatori: Beati, felici i poveri in spirito, quelli che piangono, i miti, quelli che hanno fame e sete della giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, quelli che lavorano per la pace, i perseguitati per la giustizia. E termina dicendo loro, rallegratevi per tutto questo (cfr Mt 5,1-12).

Perché? Perché Gesù non ci mente. Ci indica una via che è vita e verità. Egli è la grande prova di questo. È il suo stile, il suo modo di vivere la vita, l’amicizia, la relazione con il Padre. Ed è ciò a cui ci invita. A sentirci figli. Figli amati.

Lui non ti vende fumo. Perché sa che la felicità, quella vera, quella che riempie il cuore, non si trova nei vestiti costosi che indossiamo, nelle scarpe che ci mettiamo, nell’etichetta di una determinata marca. Egli sa che la felicità vera sta nell’essere sensibili, nell’imparare a piangere con quelli che piangono, nello stare vicini a quelli che sono tristi, nel dare una mano, un abbraccio. Chi non sa piangere, non sa ridere e pertanto non sa vivere. Gesù sa che in questo mondo di così tanta competizione, invidia e aggressività, la vera felicità deriva dall’imparare ad essere pazienti, a rispettare gli altri, a non condannare né giudicare nessuno. Chi si arrabbia perde, dice il proverbio. Non consegnate il cuore alla rabbia, al rancore. Felici coloro che hanno misericordia. Felici coloro che sanno mettersi nei panni dell’altro, che hanno la capacità di abbracciare, di perdonare. Tutti abbiamo qualche volta sperimentato questo. Tutti in qualche occasione ci siamo sentiti perdonati. Com’è bello! E’ come tornare in vita, è come avere una nuova opportunità. Non c’è niente di più bello che avere nuove opportunità. È come se la vita cominciasse di nuovo. Per questo, felici quelli che sono portatori di nuova vita, di nuove opportunità. Felici quelli che lavorano per questo, che lottano per questo. Sbagli ne facciamo tutti, errori, a migliaia. Per questo, felici quelli che sono capaci di aiutare gli altri nei loro errori, nei loro sbagli. Che sono veri amici e non abbandonano nessuno. Essi sono i puri di cuore, quelli che riescono a vedere oltre le contrarietà immediate e superano le difficoltà. Felici quelli che vedono soprattutto il buono che c’è negli altri.

Liz, tu hai nominato Chikitunga, questa Serva di Dio paraguayana. Hai detto che era come tua sorella, tua amica, il tuo modello. Ella, come tanti altri, ci mostra che il cammino delle Beatitudini è un cammino di pienezza, un cammino possibile, reale. Che riempie il cuore. Essi sono i nostri amici e modelli che hanno ormai terminato di giocare in questo “campo”, ma diventano quei giocatori indispensabili che uno osserva per dare il meglio di sé. Essi sono la prova che Gesù non è un “venditore di fumo”, che la sua proposta è di pienezza. Ma, soprattutto, è una proposta di amicizia, di vera amicizia, quell’amicizia di cui tutti abbiamo bisogno. Amici nello stile di Gesù. Però non per rimanere in noi stessi, ma per andare “in campo”, per andare a fare altri amici. Per “contagiare” l’amicizia di Gesù nel mondo, dovunque vi trovate, al lavoro, nello studio, nel divertimento, in whatsapp, facebook o twitter. Quando andate a ballare, o bevendo una buona bibita. In piazza o giocando una partita nel campo del quartiere. Là è dove stanno gli amici di Gesù. Non vendendo fumo, ma con perseveranza. La perseveranza di sapere che siamo felici, perché abbiamo un Padre nei cieli.