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Convivenze e immigrati, questi articoli non esistono più
Professore, ripartiamo da capo. Che cos’è uno Statuto?
«Lo Statuto di una Regione è una fonte che è chiamata dall’articolo 123 della Costituzione a disciplinare alcuni oggetti. Non è una fonte a competenza generale dove un Consiglio regionale fantasioso può mettere ciò che vuole: la missione principale dello Statuto di una Regione è quella di contenere le disposizioni sulla forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento. Questa è la materia statutaria».
Se così è, qual è l’intento della Costituzione nel chiedere che le Regioni abbiano degli Statuti propri?
«È quello di demandare allo Statuto il compito di costruire una buona, efficace ed efficiente democrazia regionale. Ovvero delle istituzioni regionali che diano delle risposte ai cittadini. E non impegnarsi in proclamazioni che lasciano il tempo che trovano, come è successo agli Statuti degli anni ’70, ed hanno poi una scarsa attuazione».
E in Toscana invece cosa è accaduto?
«Qui c’è stato il fraintendimento di fondo. La discussione ha finito per andare anche sui massimi sistemi dimenticandosi che in un ordinamento come il nostro c’è una Costituzione e un processo di costituzionalizzazione a livello sovranazionale, luoghi dove meglio si trovano contenuti i principi e i diritti fondamentali».
Così siamo arrivati al ricorso del Governo e alla sentenza della Corte costituzionale
«E la presa di posizione della Corte è molto forte e netta. Ma non è stata compresa del tutto. Di fatto si è evidenziato solo il fatto che, in fondo, non ci sono profili di incostituzionalità. E di conseguenza lo Statuto può essere promulgato, può entrare in vigore la nuova legge elettorale, il voto di preferenza è stato abolito e i consiglieri regionali aumenteranno da 50 a 65. E quindi ha vinto la Regione».
Ma ho l’impressione che lei stia per dire che tutto è più articolato
«Sì. Le cose sono molto più complesse. È vero che la Regione ha avuto ragione dalla Corte su sei profili sui quali ha dichiarato la non fondatezza del ricorso del Governo. Ma certo non su quelli relativi alle disposizioni di principio quali per esempio il riconoscimento delle altre forme di convivenza oltre alla famiglia fondata sul matrimonio e l’estensione del diritto di voto agli immigrati, per fare due esempi. La Corte, nel caso specifico, dice che il ricorso è inammissibile perché queste disposizioni non hanno alcuna efficacia giuridica».
Che cosa significa questo?
«Vuol dire che queste disposizioni, pur essendo formalmente inserite nello Statuto, sono in realtà solo un manifesto politico e culturale. Quindi la Corte non ha dato nessun via libera alle unioni omosessuali, come è stato detto nei giorni scorsi. La Corte ha fatto un’operazione più radicale che se ne avesse dichiarato l’incostituzionalità: infatti arriva a dire che questi articoli dello Statuto regionali sono disposizioni apparenti. E quindi, di fatto, come disposizioni non esistono. Se si fosse fatto maggiore attenzione a questo pronunciamento della Corte Costituzionale certe affermazioni trionfalistiche da un lato e preoccupate dall’altro si sarebbero potute evitare».
Quindi il pronunciamento della Corte Costituzionale è duro verso la Regione?
«Quella della Corte è un’affermazione molto ferma che ha pochi precedenti nelle altre sentenze. Non ho ricordo di una sentenza che abbia detto di disposizioni contenute in un atto normativo che non sono disposizioni».
Sul piano pratico il Consiglio regionale nella propria legislazione potrà riconoscere qualcosa alle coppie di fatto?
«L’articolo 4 dello Statuto regionale di fatto non esiste più. E allora riemerge quello che avrebbe dovuto emergere fin dall’inizio: il tessuto costituzionale e la giurisprudenza della Corte costituzionale. La quale, in linea di principio e salvo alcune eccezioni, nega l’equiparazione tra famiglia fondata sul matrimonio religioso o civile e coppie di fatto. Questo è il punto di partenza».