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Discorso di Sarkozy al Laterano
Pubblichiamo la traduzione italiana delle parti salienti discorso pronunciato in francese dal presidente della Repubblica francese Nikolas Sarkozy, giovedì 20 dicembre 2007 nella Sala della Segnatura in San Giovanni in Laterano, in occasione della presa di possesso del canonicato onorario della Basilica di San Giovanni in Laterano, che gli spetta come successore del re di Francia, figlia maggiore della Chiesa.
Le sarei parimenti riconoscente, Eminenza, di voler trasmettere a Sua Santità Benedetto XVI i miei sinceri ringraziamenti per l’apertura del suo palazzo pontificio che ci permette di ritrovarci questa sera. L’udienza che il Santo Padre mi ha concesso stamani è stata per me un momento emozionante e di grande interesse. Rinnovo al Santo Padre il mio attaccamento al progetto di un suo viaggio in Francia nel secondo semestre del 2008. In quanto presidente di tutti i francesi, mi faccio portatore delle speranze che tale prospettiva suscita nei miei concittadini cattolici e in numerose diocesi. Qualunque siano le tappe del suo viaggio, Benedetto XVI sarà il benvenuto in Francia.
Nel recarmi stasera in San Giovanni in Laterano, accettando il titolo di canonico onorario di questa basilica, che fu conferito per la prima volta a Enrico IV e che da allora è stato trasmesso a quasi tutti i capi di Stato francesi, assumo pienamente su di me il passato della Francia e il legame particolare che ha unito così a lungo la nostra nazione alla Chiesa.
Con il battesimo di Clodoveo la Francia è diventata Figlia maggiore della Chiesa. È un fatto. Facendo di Clodoveo il primo sovrano cristiano, quell’evento ha avuto conseguenze importanti sul destino della Francia e sulla cristianizzazione dell’Europa. In seguito, a più riprese, nel corso della storia, i sovrani francesi hanno avuto l’occasione di manifestare quanto fosse profondo l’attaccamento che li legava alla Chiesa e ai successori di Pietro. (…) Al di là dei fatti storici, è soprattutto perché la fede cristiana è penetrata in profondità nella società francese, nella sua cultura, nei suoi paesaggi, nel suo modo di vivere, nella sua architettura, nella sua letteratura, che la Francia ha con la sede apostolica una relazione così particolare. Le radici della Francia sono essenzialmente cristiane. E la Francia ha dato all’irradiamento del cristianesimo un contributo eccezionale.
Contributo spirituale e morale tramite un’abbondanza di santi e di sante di portata universale: san Bernardo di Chiaravalle, san Luigi, san Vincenzo de’ Paoli, santa Bernadette di Lourdes, santa Teresa di Lisieux, san Jean-Marie Vianney, Frédéric Ozanam, Charles de Foucauld… Contributo letterario e artistico: da Couperin a Péguy, da Claudel a Bernanos, Vierne, Poulenc, Duruflé, Mauriac o ancora Messiaen. Contributo intellettuale, tanto caro a Benedetto XVI, che si tratti di Blaise Pascal, Jacques Bénigne Bossuet, Jacques Maritain, Emmanuel Mounier, Henri de Lubac, Yves Congar, René Girard… Mi sia consentito citare anche l’apporto determinante della Francia all’archeologia biblica ed ecclesiale, qui a Roma, ma anche in Terra Santa, così come all’esegesi biblica, in particolare con la Scuola biblica e archeologica francese di Gerusalemme.
Voglio inoltre rievocare tra voi questa sera la figura del cardinale Jean-Marie Lustiger che ci ha lasciati la scorsa estate. Il suo irraggiamento e la sua influenza hanno anch’essi di gran lunga oltrepassato le frontiere della Francia. Ho tenuto a partecipare alle sue esequie, perché nessun francese è rimasto indifferente alla testimonianza della sua vita, alla forza dei suoi scritti, al mistero della sua conversione. Per tutti i cattolici la sua scomparsa ha rappresentato un grande dolore. (…)
Quanto profondamente il cristianesimo sia iscritto nella nostra storia e nella nostra cultura è visibile qui a Roma nella presenza mai interrotta di francesi all’interno della Curia, con le più alte responsabilità. Voglio salutare stasera il cardinale Etchegaray, il cardinale Poupard, il cardinale Tauran, monsignor Mamberti, il cui operato onora la Francia.
Le radici cristiane della Francia sono visibili anche in simboli quali i Pii Istituti, la messa annuale di Santa Lucia e quella della cappella di Santa Petronilla. E poi c’è ovviamente la tradi-zione che fa del presidente della Repubblica francese il canonico onorario di San Giovanni in Laterano. San Giovanni in Laterano, niente di meno. È la cattedrale del Papa, è la ‘testa e la madre di tutte le chiese di Roma e del mondo’, è una chiesa cara al cuore dei romani. Che la Francia sia legata alla Chiesa cattolica da questo titolo simbolico è la traccia di una storia comune in cui il cristianesimo ha contato molto per la Francia e la Francia ha contato molto per il cristianesimo. È dunque con la massima naturalezza, come il Generale de Gaulle, come Valéry Giscard d’Estaing, e più recentemente come il presidente Chirac, che sono venuto a iscrivermi in questa tradizione.
Come il battesimo di Clodoveo, anche la laicità è un fatto nel nostro Paese. Conosco le sofferenze che la sua applicazione ha provocato in Francia nei cattolici, nei sacerdoti, nelle congregazioni, prima e dopo il 1905. So che l’interpretazione della legge del 1905 come un testo di libertà, di tolleranza, di neutralità è in parte una ricostruzione retrospettiva del passato. È soprattutto attraverso il loro sacrificio nelle trincee della Grande guerra, attraverso la condivisione delle sofferenze dei loro concittadini, che i sacerdoti e i religiosi di Francia hanno disarmato l’anticlericalismo; ed è la loro comune intelligenza che ha consentito alla Francia e alla Santa Sede di superare i loro dissidi e ristabilire le relazioni.
Tuttavia nessuno più contesta che il regime francese della laicità sia oggi una libertà: libertà di credere o non credere, libertà di praticare una religione e libertà di cambiarla, libertà di non venire offesi nella propria sensibilità da pratiche ostentatrici, libertà per i genitori di far impartire ai figli un’educazione conforme alle loro convinzioni, libertà di non essere discriminati dall’amministrazione in funzione del proprio credo.
Il nostro Paese è cambiato molto. I cittadini francesi hanno convinzioni più varie di un tempo. Perciò la laicità si afferma come necessità e opportunità. È diventata una condizione della pace civile. Ed è per questo che il popolo francese è stato tanto pronto a difendere la libertà scolastica quanto a voler vietare i segni di ostentazione nella scuola.
Stando così le cose, la laicità non potrebbe essere negazione del passato. Non ha il potere di tagliare alla Francia le sue radici cristiane. Ha cercato di farlo. Non avrebbe dovuto. Come Benedetto XVI, ritengo che una nazione che ignori l’eredità etica, spirituale, religiosa della propria storia commetta un crimine contro la propria cultura, contro quel miscuglio di storia, di patrimonio, d’arte e di tradizioni popolari che impregna profondamente il nostro modo di vivere e di pensare. Strappare le radici vuol dire perdere il significato, vuol dire indebolire il cemento dell’identità nazionale e inaridire ulteriormente i rapporti sociali che tanto hanno bisogno di simboli di memoria.
Per questo dobbiamo tenere insieme i due capi della corda: accettare le radici cristiane della Francia, e anche valorizzarle, continuando a difendere la laicità giunta a maturità. Ecco il senso del passo che ho voluto compiere stasera in San Giovanni in Laterano.
È giunto il momento che, in uno stesso spirito, le religioni, in particolare la religione cattolica che è la nostra religione maggioritaria, e tutte le forze vive della nazione guardino insieme alla posta in gioco del futuro e non più solo alle ferite del passato.
Condivido l’opinione di Benedetto XVI quando ritiene, nella sua ultima enciclica, che la speranza sia una delle questioni più importanti del nostro tempo. Dal secolo dei Lumi, l’Europa ha sperimentato molte ideologie. Di volta in volta ha riposto le speranze nell’emancipazione degli individui, nella democrazia, nel progresso tecnico, nel miglioramento delle condizioni economiche e sociali, nella morale laica. Ha deragliato nel comunismo e nel nazismo. Nessuna di quelle diverse prospettive che chiaramente non metto sullo stesso piano è stata in grado di rispondere al bisogno profondo degli uomini e delle donne di trovare un senso all’esistenza.
Certo, fondare una famiglia, contribuire alla ricerca scientifica o alle scienze umane e sociali, insegnare, lottare per le proprie idee, in particolare quelle della dignità umana, guidare un Paese, possono dare senso a una vita. Sono queste piccole e grandi speranze «che, giorno per giorno, ci mantengono in cammino» per riprendere le parole dell’enciclica del Santo Padre. Non rispondono però alle domande fondamentali dell’essere umano sul senso della vita, sul mistero della morte. Non sanno spiegare cosa accada prima della vita e dopo la morte.
Tali domande appartengono a tutte le civiltà e a tutte le epoche. Non hanno perso nulla della loro pertinenza. Al contrario. Gli agi materiali sempre maggiori nei Paesi sviluppati, la frenesia del consumo, l’accumulo di beni sottolineano ogni giorno di più la profonda aspirazione degli uomini e delle donne a una dimensione che li superi, perché la soddisfano meno che mai.
«Quando le speranze si realizzano, prosegue Benedetto XVI, appare con chiarezza che ciò non era, in realtà, il tutto. Si rende evidente che l’uomo ha bisogno di una speranza che vada oltre. Si rende evidente che può bastargli solo qualcosa di infinito, qualcosa che sarà sempre più di ciò che egli possa mai raggiungere […] Se non possiamo sperare più di quanto è effettivamente raggiungibile, né più di quanto si possa sperare dalle autorità politiche ed economiche, la nostra vita si riduce a essere privata di speranza». O ancora, come scrisse Eraclito: «Se non si spera l’insperabile, non lo si riconoscerà mai». La mia profonda convinzione, che ho espresso in particolare nel libro di interviste che ho pubblicato sulla Repubblica, le religioni e la speranza, è che la frontiera tra fede e noncredenza non passi tra quanti credono e quanti non credono, ma attraversi ciascuno di noi. Anche chi sostiene di non credere non può dire di non interrogarsi sull’essenzialità. Il fatto spirituale è la tendenza naturale di tutti gli uomini a cercare una trascendenza. Il fatto religioso è la risposta delle religioni a tale aspirazione fondamentale.
Per tanto tempo la Repubblica laica ha sottostimato l’importanza dell’aspirazione spirituale. Perfino dopo il restauro delle relazioni diplomatiche tra la Francia e la Santa Sede, essa si è mostrata più diffidente che benevola di fronte ai culti. Ogni volta che ha fatto un passo verso le religioni, che si tratti del riconoscimento delle associazioni diocesane o della questione scolastica o delle congregazioni, ha dato l’impressione che agiva perché non poteva fare altrimenti. È solo nel 2002 che ha accettato il principio di un dialogo istituzionale regolare con la Chiesa cattolica. Mi sia permesso ugualmente di ricordare le virulenti critiche di cui sono stato oggetto al momento della creazione del Consiglio francese per il culto musulmano. Ancora oggi, la Repubblica mantiene le congregazioni sotto una forma di tutela, rifiuta di riconoscere un carattere di culto all’azione caritativa o ai mezzi di comunicazione delle Chiese, le ripugna riconoscere il valore dei diplomi rilasciati dalle istituzioni di istruzione superiore cattolica mentre la Convenzione di Bologna lo prevede, non accorda nessun valore ai diplomi di teologia, considera che non deve interessarsi alla formazione dei ministri del culto.
Penso che questa situazione sia dannosa per il nostro Paese. Certamente, coloro che non credono devono essere protetti da ogni forma di intolleranza e di proselitismo. Ma un uomo che crede è un uomo che spera. E l’interesse della Repubblica è che ci siano molti uomini e donne che nutrono speranza. La disaffezione progressiva delle parrocchie rurali, il deserto spirituale delle periferie, la scomparsa dei patronati e la penuria dei sacerdoti non hanno reso i francesi più felici. Questa è un’evidenza.
Vorrei anche dire che, se esiste incontestabilmente una morale umana indipendente dalla morale religiosa, la Repubblica ha interesse a che esista anche una riflessione morale ispirata alle convinzioni religiose. Anzitutto perché la morale laica rischia sempre di esaurirsi o di trasformarsi in fanatismo quando non è appoggiata a una speranza che colma l’aspirazione all’infinito. Poi e soprattutto perché una morale sprovvista di legami con il trascendente è maggiormente esposta alle contingenze storiche e in definitiva all’arrendevolezza. Come scriveva Joseph Ratzinger nella sua opera sull’Europa nella crisi delle culture, «il principio riconosciuto oggi è che la capacità dell’uomo sia la misura della sua azione. Ciò che sappiamo fare, possiamo anche farlo». A un certo punto, il pericolo è che il criterio dell’etica non sia più quello di cercare di fare ciò che dobbiamo fare, ma di fare ciò che possiamo fare.
Nella Repubblica laica, l’uomo politico che io sono non deve decidere in funzione di considerazioni religiose. Ma importa che la sua riflessione e la sua coscienza siano illuminate specialmente dai pareri che fanno referenza a norme e convinzioni libere dalle contingenze immediate. Tutte le intelligenze, tutte le spiritualità che esistono nel nostro Paese devono farne parte. Noi saremo più saggi se coniughiamo la ricchezza delle nostre differenti tradizioni. È per questo che mi auguro profondamente l’avvento di una laicità positiva, cioè una laicità che, pur vegliando alla libertà di pensare, a quella di credere o non credere, non considera che le religioni sono un pericolo, ma piuttosto un punto a favore. Non si tratta di modificare i grandi equilibri della legge del 1905. I francesi non lo auspicano e le religioni non lo chiedono. Si tratta, in compenso, di cercare il dialogo con le grandi religioni di Francia e di avere come principio quello di agevolare la vita quotidiana delle grandi correnti spirituali piuttosto che di cercare di complicarla a loro.
(…) Vorrei rivolgermi a coloro che tra voi sono impegnati nelle congregazioni, presso la Curia, nel sacerdozio e l’episcopato e a coloro che in questo momento si stanno formando da seminaristi.
(…) Mi rendo conto dei sacrifici che rappresenta una vita intera consacrata a Dio e agli altri. So che il vostro quotidiano è e sarà attraversato talvolta dallo scoraggiamento, dalla solitudine, e certamente anche dal dubbio. So anche che la qualità della vostra formazione, il sostegno delle vostre comunità, la fedeltà ai sacramenti, la lettura della Bibbia e la preghiera, vi permettono di superare queste prove.
Sappiate che abbiamo almeno una cosa in comune: quella di avere una vocazione. Non si è prete a metà, lo si è in tutte le dimensioni della propria vita. Credetemi che non si è neanche presidente a metà. Capisco che vi siete sentiti chiamati da una forza incontenibile che veniva da dentro, perché io stesso non mi sono mai seduto per chiedermi se avrei fatto politica, l’ho fatto. Capisco i sacrifici che fate per rispondere alla vostra vocazione perché anch’io conosco quelli che ho fatto per realizzare la mia.
(…) È grande il vostro contributo all’azione caritativa, alla difesa dei diritti dell’uomo e della dignità umana, al dialogo interreligioso, alla formazione delle menti e dei cuori, alla riflessione etica e filosofica. Lo vediamo radicato nella profondità della società francese, con una varietà di modi spesso insospettata, così come si dispiega attraverso il mondo. (…) Offrendo in Francia e nel mondo la testimonianza di una vita donata agli altri e riempita dall’esperienza di Dio, voi create speranza e sviluppate sentimenti nobili. È un’opportunità per il nostro Paese e da Presidente la considero con molta attenzione. Nella trasmissione dei valori e nell’apprendimento graduale della differenza tra bene e male, l’insegnante non potrà mai rimpiazzare il parroco o il pastore, anche se è importante che egli si accosti ad essi, perché gli mancherà sempre la radicalità del sacrificio della propria vita e il carisma di un impegno sostenuto dalla speranza.
Voglio inoltre evocare con voi la memoria dei monaci di Tibhérine e di monsignor Pierre Claverie, il cui sacrificio porterà un giorno frutti di pace: ne sono convinto. L’Europa ha troppo girato le spalle al Mediterraneo, anche se una parte delle sue radici vi affondano e se i Paesi rivieraschi di questo mare sono all’incrocio di un gran numero di sfide del mondo contemporaneo. Ho voluto che la Francia prenda l’iniziativa di un’Unione del Mediterraneo. La sua collocazione geografica, così come il suo passato e la sua cultura ve la conducono naturalmente. In questa parte del mondo in cui le religioni e le tradizioni culturali esasperano spesso le passioni, in cui lo scontro delle civiltà può rimanere allo stato di fantasma o rovesciarsi nella realtà, noi dobbiamo coniugare i nostri sforzi per raggiungere una coesistenza pacifica, rispettosa di ciascuno, senza rinnegare le nostre convinzioni profonde, in una zona di pace e di prosperità. Questa prospettiva incontra, mi sembra, l’interesse della Santa Sede.
Ma ciò che mi sta a cuore dirvi è che in questo mondo paradossale, ossessionato dal benessere materiale, ma sempre più in cerca di senso e di identità, la Francia ha bisogno di cattolici convinti che non temano di affermare ciò che sono e ciò in cui credono. (…) Come ha scritto Henri de Lubac, grande amico di Benedetto XVI, «la vita attira, come la gioia». È per questo che la Francia ha bisogno di cattolici felici che testimonino la loro speranza.
Ovunque agirete, nelle periferie, nelle istituzioni, accanto ai giovani, nel dialogo interreligioso, nelle università, io vi sosterrò. La Francia ha bisogno della vostra generosità, del vostro coraggio, della vostra speranza.