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L’umiltà del dialogo
Ricerca e approfondimento delle motivazioni del dialogo ecumenico. Giovanni Paolo II si è trovato a percorrere una strada aperta dai suoi predecessori e dal Concilio Vaticano II, ma non l’ha seguita per il solo dovere di continuità: vi ha portato la nota di una passione personale e una continuità di interventi che costituiscono una ricca e suggestiva “summa” del suo pensiero sui temi propri dell’ambito ecumenico. Una “summa” di cui egli stesso ha tracciato le linee essenziali nell’enciclica Ut unum sint (1995). In questo documento egli non esita a mettere in discussione l’esercizio storico del primato e a proporre alla comune preghiera la “conversione di Pietro”, perché possa “servire i fratelli” ed essere strumento di unità ecclesiale, chiamando tutti ad una generale “conversione del cuore” per “la realizzazione della via ecumenica verso l’unità”. Ma già nell’enciclica Redemptor hominis (1979), la prima dopo la sua elezione, aveva indicato la via dell’unione dei cristiani: “Nella presente situazione storica della c ristianità e del mondo non appare altra possibilità di adempiere la missione universale della Chiesa, per quanto riguarda i problemi ecumenici, che quella di cercare lealmente, con perseveranza, con umiltà e anche con coraggio, le vie di avvicinamento e di unione”. Da allora (1979) non vi è documento di qualche importanza uscito dalla mente di Giovanni Paolo II che non abbia avuto un pensiero e un’indicazione di carattere ecumenico.
Fedeltà alla tradizione cattolica. Non mancano, certamente, nel suo insegnamento anche delle raccomandazioni che sembrano un freno e ritorno indietro rispetto ad acquisizioni di accordo o di avvicinamento raggiunti: il caso delle comunità cristiane nate dalla Riforma che non hanno titolo per essere chiamate Chiese e Chiese sorelle sollevato dalla Dominus Jesus, così pure l’accentuazione di differenze nella considerazione dell’Eucaristia in cui sembra maggiore la preoccupazione di marcare ciò che divide piuttosto che ciò che unisce. Ed è anche innegabile che con Giovanni Paolo II la Chiesa cattolica abbia ripreso e accentuato la sua tradizionale forma di vita e d’espressione di pietà: devozione mariana, recita del rosario, adorazione eucaristica, le stesse indulgenze riproposte nel Giubileo. Qualcuno ha visto in questa doppia linea pastorale di Giovanni Paolo II, quella ecumenica e quella volta a rinsaldare le tradizioni cattoliche, anche quelle contestate da cristiani non cattolici, una contraddizione intrinseca al suo pontificato. La storia dirà più e meglio di quanto si possa dire oggi. In questi 25 anni, però, l’ecumenismo, contrariamente a quanto asserito da altri, non è piombato nel gelido inverno in cui muore ogni forma di vita, ma è entrato nella maturità che esige capacità di realismo e assunzione di responsabilità di fronte a Cristo e al Vangelo e anche di fronte alla storia di secoli cristiani che non possono essere cancellati.
Motivazioni forti. Raccogliendo alcune espressioni del vocabolario ecumenico di Giovanni Paolo II troviamo delle parole forti che potrebbero costituire una specie di decalogo, un imperativo per la coscienza di ogni cristiano. Egli parla di sofferenza per le divisioni, di peccato e di scandalo, pone delle sfide e quando sono offerte a lui le raccoglie senza esitazione con gesti di amicizia, preghiere interconfessionali comuni, discorsi di incoraggiamento, tesi sempre a sottolineare la volontà di Gesù che i suoi siano una cosa sola. È il caso della celebrazione del centenario della nascita di Lutero, in occasione della quale propone uno stile nuovo e positivo di considerare il riformatore e apre una breccia importante nelle relazioni con i luterani. Con loro, infatti, è stato possibile firmare una dichiarazione congiunta di “consenso differenziato” sulla giustificazione (Augsburg, 31 ottobre 1999).
Oltre le Chiese cristiane. “Prioritario e irreversibile” è stato il lavoro compiuto nei 25 anni di pontificato da Giovanni Paolo II per favorire il dialogo tra cristiani in vista dell’unità visibile. Si può affermare che egli abbia gettato le basi di una teologia delle religioni che prima non esisteva. Quell’incontro del 27 ottobre del 1986 ad Assisi, che si è ripetuto in forme analoghe il 9 gennaio 1993 e il 24 gennaio 2002, non è stato privo di conseguenze, che alcuni hanno considerato negative, quasi un cedimento allo spirito del tempo proclive ad una forma d’irenismo tollerante e vago. Ma molti altri hanno sentito che quell’avvenimento era più che un beau geste: rappresentava una svolta epocale nel rapporto tra le religioni. In modo chiaro in quella riunione l’umanità ha potuto capire che le religioni sono per la pace, per questo, Dio non deve essere un nome che divide: “Il nome di Dio è un nome di pace”.