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CITTERICH: Pellegrino come Pietro nel solco del Concilio

di Vittorio CitterichCome in una rapida sequenza scorrono in questo momento nella mente gli straordinari itinerari mondiali di Giovanni Paolo II. Specialmente per chi ha avuto la ventura, come me, di seguirli spesso in diretta, talvolta viaggiando sull’«aereo papale». Qualcosa di straordinario anche per il cronista, con quel compagno di viaggio che non disdegnava di farsi vedere, amabile quanto autorevole, e persino di farsi intervistare ad alta quota.

Episodi, aneddoti? Moltissimi, ma non è possibile sconfinare nell’aneddotica senza perdere il senso grande della storia vissuta. Tutto, in qualche modo, è collegato al Concilio. Lo stesso nome del Papa che, dopo il lampo dei trentatré giorni di Albino Luciani, congiunge i nomi di chi ha indetto il santo prodigio storico del Vaticano II (Papa Giovanni) e di chi l’ha portato a compimento (Paolo VI). Roncalli ha fatto viaggi brevi, Assisi, Loreto, le parrocchie romane, ma già lo chiamarono, per questo, «Giovanni fuori le mura». Nel senso che era uscito dalle prolungate e storicamente obbligate muraglie vaticane. E non soltanto dalle mura di pietra. Montini inaugurò la stagione dei viaggi postconciliari e già durante il Concilio aveva lasciato di stucco i vaticanisti volando a New York per portare alle Nazioni Unite la lettera di evangelizzazione e di pace che gli era stata affidata da Gesù. «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura». Mai più la guerra, l’epoca nucleare è il tempo del «cambiare mente», predicò Paolo VI, affidando poi il futuro della storia in Terra Santa anche attraverso l’abbraccio e la preghiera comune con il grande Patriarca ortodosso di Costantinopoli Atenagora.

Tanti viaggi, dall’Africa all’Asia, anche se, per il tempo breve che resta, non potranno assumere i ritmi e le estensioni del giovane successore Karol Wojtyla. Il primo viaggio di Giovanni Paolo II, già predisposto per il predecessore Giovanni Paolo I, è in Messico nel gennaio 1979, tre mesi dopo l’elezione. «Anch’io sono un teologo della liberazione», risponde con arguzia ai giornalisti che l’interrogano sulla controversia di una certa «teologia della liberazione» allora troppo tributaria di ideologie veteromarxiste del resto in piena decadenza nella stessa Unione Sovietica. Si spiega parlando all’assemblea operaia di Oaxaca e ricordando il lavoro manuale che ha fatto da giovane in Polonia. Un operaio indio lo interroga: «Tu hai detto che noi poveri dell’America latina siamo la speranza della Chiesa. Guarda Papa com’è ridotta questa speranza…». «Il Papa – risponde – sta con queste masse spesso abbandonate a un livello di vita ignobile e spesso sfruttate duramente. Il Papa vuole essere la vostra voce, la voce di coloro che non possono parlare, per essere coscienza delle coscienze, per farsi invito all’azione, per recuperare il tempo perduto, che è spesso tempo di sofferenze prolungate e di speranze non soddisfatte che esigono trasformazioni audaci».

Ma è il secondo viaggio di Giovanni Paolo II, il ritorno in Polonia, che indica una traccia fondamentale per gli itinerari successivi e il metodo di una presenza che, con la preghiera e con l’azione, tenderà sempre ad «abbattere mura e costruire ponti», per adoperare l’espressione che piaceva a La Pira. Quella cronaca del tempo di Pentecoste 1979 non la dimenticheremo mai. Il viaggio delle «premesse», per così dire. Intanto perché Giovanni Paolo II collegò anche teoreticamente il suo pellegrinaggio evangelizzatore, che avrebbe avuto dimensioni allora inimmaginabili, nei cinque continenti, proprio al Concilio al quale aveva partecipato da giovane arcivescovo di Cracovia. Un milione di persone nella principale piazza di Varsavia il 2 giugno 1979. Si riferisce a Paolo VI «primo Papa pellegrino dopo tanti secoli» al quale era stata negata la desiderata sosta in Polonia. Questo desiderio era così forte e radicato da attraversare l’arco di un pontificato – spiega ai suoi connazionali – ed ecco che ora si realizza in modo imprevedibile. Ed ecco la frase decisiva: «Quando con il Concilio Vaticano II tutta la Chiesa ha preso rinnovata coscienza di essere popolo di Dio che partecipa alla missione di Cristo, popolo che con questa missione attraversa la storia, popolo peregrinante, il Papa non poteva più restare “prigioniero del Vaticano”. Doveva diventare nuovamente il Pietro peregrinante, come quel primo che da Gerusalemme, attraversando Antiochia, era giunto a Roma per rendervi testimonianza a Cristo e sigillarla con il proprio sangue».

Questo forte rapporto con l’evento innovatore del Concilio, inteso come ritorno alle fonti originarie e dinamiche della fedeltà cristiana, quando gli apostoli di Cristo accolsero il soffio dello Spirito a Pentecoste, guida anche i primi passi del lungo itinerario del nuovo Papa peregrinante. Inserisce il suo peregrinare nei drammi e nelle complessità delle situazioni storiche con la disarmata potenza della preghiera e della parola che risulteranno più potenti delle potenze dominanti nel mondo. A cominciare appunto da quel primo ritorno in Polonia. Disse a Gniezno, proprio nella festa di Pentecoste del 1979: «Cristo non vuole forse che questo primo Papa polacco, Papa slavo, renda proprio qui manifesta, come è giusto che avvenga, l’unità spirituale dell’Europa cristiana che, debitrice delle grandi tradizioni dell’oriente e dell’occidente, professa una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio e padre di tutti… Questo Papa viene per parlare davanti a tutta la Chiesa, l’Europa e il mondo, di queste nazioni e di queste popolazioni spesso dimenticate. Viene a gridare con voce potente. Viene per indicare le strade che, in diverse maniere, conducono al cenacolo della Pentecoste, alla croce, alla risurrezione. Viene per abbracciare tutti questi popoli, per premerli sul cuore della Chiesa, sul cuore della Madre della Chiesa, nella quale pone una confidenza illimitata». Molti considereranno che questa omelia di Gniezno, quando la Polonia era ancora considerata una «periferia» duramente sottoposta al dominio di un’ideologia atea ed opprimente proveniente dalla Russia, è stata come un soffio che ha scalfito il muro che divideva l’Europa.

Allargando lo sguardo sui tantissimi viaggi che sono seguiti a quei primi, nell’arco di un lungo pontificato, sempre si riscontra questa straordinaria forza che deriva dalla preghiera e dalla parola. Dirette verso i popoli dimenticati, inserite nei più terribili drammi, dall’Europa alle Americhe, dall’Africa all’Asia, preghiera e parola di Giovanni Paolo II hanno avuto una funzione di guida e di speranza per tutti i popoli della terra. L’unico leader mondiale, si è detto. Ma è poco. Il solo piuttosto che, in tante situazioni confuse e contraddittorie, ha tratto dalla preghiera la forza di una parola decisiva: «Uomini non abbiate paura, aprite anzi spalancate le porte a Cristo!».