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SANTARELLI: Genialmente imprevedibile ma fedele alla tradizione

di Umberto SantarelliCi vorranno decennî per apprezzare fino in fondo il magistero di Giovanni Paolo II: la sua vastità, la sua profondità, la rispondenza puntuale e coraggiosa alle emergenze alle sordità e alle crisi che hanno contrassegnato la nostra cultura in quest’ultimo quarto di secolo. Gli esiti di questa rilettura possono esser prevedibili fin da ora, così come preventivabile è l’onesta fatica che essa costerà, se davvero vorremo mettere a profitto fino in fondo tutto quel che ci è stato insegnato. Ma anche se non è certamente questo il momento adatto per tentare bilanci di questo genere, che richiedono distensione d’animo e lunga pazienza che l’ora del distacco impedisce, forse qualche rilievo, disorganico ma non del tutto frettoloso, è già fin d’ora possibile.

Il magistero di Giovanni Paolo II ha saputo essere spesso genialmente imprevedibile: come quando, sùbito dopo la caduta dei regimi del «socialismo reale», proprio lui, che di quella società a una sola dimensione aveva sperimentato su di sé e proclamato solennemente tutta la durezza, e mentre il mondo intero gli riconosceva meriti eccezionali per averne previsto e accelerato il processo di dissoluzione, non si soffermò neanche un istante a compiacersi di questa «vittoria» (che pure era di per sé innegabile), ma ebbe cura di segnalare con fulminea sorprendente lucidità il pericolo imminente d’una violenta oscillazione pendolare che poteva consegnare intere nazioni, già logorate da tante durissime esperienze, a una selvaggia reazione di segno diametralmente opposto che avrebbe potuto sommare, con effetti disastrosi, sventura a sventura. Parve a qualcuno un improvviso salto d’umore; e fu invece la prova d’un carisma di magistero che rendeva la sua lezione imparagonabile con quella di qualunque altra cattedra.

Un discorso analogo si potrebbe fare per l’impegno ecumenico di Giovanni Paolo II, che ha saputo radicare coraggiosamente la ricerca infaticabile dell’unità di tutti i cristiani (e, ancora oltre, della coesione cordiale tra tutti i credenti in Dio) su un’interpretazione del ministero petrino rigorosamente fedele alla traditio più antica sul primato del Vescovo di Roma, facendo nel contempo tesoro dell’esperienza personale che gli veniva dal suo esser nato e cresciuto in una terra di confine tra le cristianità sorelle d’Occidente e d’Oriente.

C’è un carattere fondamentale di questo insegnamento, però, che è possibile cogliere subito fino in fondo, e che rende la lezione di Karol Wojtyla un fatto largamente inedito. Giovanni Paolo II è stato capace di dare al suo magistero un timbro chiaramente personale. Tutto questo non riguarda affatto la sostanza delle cose che ci ha insegnato, e che s’inseriscono perfettamente nell’antica traditio della Chiesa di Roma puntualmente confrontata alle emergenze del tempo per trarre da questo confronto le lezioni che giorno dopo giorno gli sono apparse indispensabili. È stata piuttosto la volontà fermissima e la straordinaria capacità di filtrare queste lezioni del Pontificato romano attraverso la fortissima personalità dell’uomo Karol Wojtyla che le ha rese leggibilissime e assolutamente inconfondibili: non una volta le parole usate hanno lasciato trasparire un andamento scontato da prosa cancelleresca; leggere le sue lezioni, anche le più alte e solenni, è stato sempre come ascoltarle dalla sua voce intuendo lucidamente i moti dello spirito che le avevano dettate e le rendevano (proprio in virtù di quest’oggettiva evidenza) perfettamente comprensibili a tutti coloro che le ascoltavano con l’animo sgombro da pregiudizî. L’uomo, insomma, con tutta la sua personale ricchezza, non è mai scomparso dietro le cose pur grandi che ci ha insegnato. Una riprova indiscutibile di questa capacità di non smarrire mai le vere misure personali del rapporto con coloro ai quali si rivolgeva Giovanni Paolo II l’ha offerta quando non ha esitato a raccontare, pubblicamente e a bassa voce, in pagine d’incomparabile veracità, le sue più riposte esperienze personali: sembrava quasi che per un istante potesse aver dimenticato chi era, e invece stava esercitando come non mai il suo altissimo ufficio di Vescovo di Roma.

C’è un segno, solo apparentemente formale, che ha reso questo singolarissimo carisma perfettamente leggibile a tutti: è stato il passaggio, carico d’un significato che non è sfuggito a nessuno, da quell’antico «Noi», che da sempre faceva alto e solenne ogni pronunciamento del Magistero pontificio, al più usuale e corrente «io» che è riuscito a trasformare in confidenziale e coinvolgente colloquio tra persone il suo quotidiano discorrere con noi. Ce lo rammenteremo a lungo.