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DONI: Ma più dei libri resterà l’uomo

di Rodolfo Doni

Pur richiesto sul preciso tema del papa scrittore, questa sarà inevitabilmente una pagina di diario, perché non si può commentare col distacco critico necessario ma ancora con le lacrime agli occhi l’opera scritta innumerevole di encicliche, messaggi, lettere, saggi teologici e filosofici, opere di teatro e perfino poesie di uno, un papa, la cui presenza con i suoi atti pratici, discorsi e incontri e viaggi, e il suo solo apparire, era sovrastante, ed è ancora sovrastante talché stanotte fino alle tre di questa mattina di martedì in cui scrivo, la fila della folla venuta da ogni parte del mondo si allunga da piazza San Pietro sino a via della Conciliazione per entrare nella basilica dove è esposto il suo corpo: il corpo di quel Papa che con il suo solo apparire, non soltanto ha riempito di sé la scena ma giorno giorno ha riempito la nostra vita come, e più, di un familiare, più di un bel libro letto, più di un bel libro scritto. Quanti d’altronde di questa folla avranno letto i suoi libri, che sono stati tradotti in ogni parte del mondo, e fra cui l’ultimo, che è uno dei suoi più cospicui, quasi riassuntivo, Memoria e identità, di cui tra un attimo diremo? Ma c’è un altro motivo a condurmi inevitabilmente quasi a una pagina di diario. Credo di essere uno dei pochi, se non l’unico scrittore italiano, ad esser stato richiesto di scrivere su questo Papa ventisette anni fa da un altro giornale nel preciso momento della sua elezione, e adesso nell’ora del suo passaggio all’Eterno. Quella sera di ventisette anni fa, il «Tempo» di Roma e il suo direttore di allora, Gianni Letta, mi telefonò per avvertirmi che di lì a pochi minuti si sarebbe levata dopo i giorni di attesa, la fumata bianca, e dunque mi invitava a scriverne. E così scrissi una pagina nella quale davo voce ai sentimenti di sconcertata fiduciosa speranza verso ciò che quel Papa straniero, dall’impronunciabile nome, avrebbe detto e fatto. Scrissi parole che suonano diverse ma pur tanto consonanti oggi: «Promettesti, o Spirito Creatore, la tua assistenza nei momenti decisivi, ebbene questo d’oggi è uno di quei momenti storici in cui c’è bisogno di una grande Papa, poiché grande e terribile è il rischio che il mondo corre. La navicella della Chiesa dovrà resistere alle procelle che da ogni parte l’assalgono. Ebbene Tu, Spirito Creatore, fa’ divenire grande questo nuovo Papa. Fallo Tu grande. Così come come facesti grande Pietro, che era piccolo e al quale lo stesso Gesù, dopo avergli profetato il tradimento, aveva fatto la promessa “Ma io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga mai meno; e tu quando sarai convertito, conferma i tuoi fratelli!”». E così accadde allora! Grande dovette apparire Pietro quando si levò a parlare ai suoi condiscepoli che erano ancora tremanti. E così è accaduto con papa Wojtyla-Giovanni Paolo II. Apparve subito fin da quando, presentandosi ai fedeli dalla Loggia di San Pietro, disse come Pietro: «Non abbiate paura!» E poi disse: «Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo!». Ma, dunque, queste sue parole gridate con la forza del grande oratore che aggiunge alla incisività delle parole l’intonazione della voce e del gesto – il che non può in alcun modo fare lo scrittore – mi riporta al tema richiesto per questo scritto, il tema dello scrittore: dello scrivere, che, pur quando abita nella stessa persona, è facoltà ben diversa da quella dell’oratore che trae la stessa forza dalla folla mentre per lo scrittore l’interlocutore, lo diceva lo stesso Papini, era uno solo, quel giovane lontano e sconosciuto che un giorno si sarebbe messo in intimità con lui a mezzo del libro. Come raffrontare la forza degli scritti di Giovanni Paolo con la forza di quando parlava con i giovani oppure quando levando il braccio contro i capi mafia, gridava: «Pentitevi!». Quel grido di «Pentitevi!» risuona tutt’oggi sulla faccia di questa terra. I suoi scritti non potevano essere pari a quel suo dire e a quel suo fare. Del resto neanche il Diario di Papa Giovanni, che pure è un diario, cioè il genere più intimo-lirico che esista, raggiungeva la forza di emozione che dettero ad esempio le sue parole della «carezza ai vostri bambini». Per Giovanni Paolo siamo talmente schiacciati dalla sua presenza anche in questo momento appena asciugate le lacrime, che ogni raffronto fra la sua viva presenza e i suoi scritti è impossibile. C’è da chiedersi onestamente se per la «sovraesposizione mediatica» come qualcuno ha detto – non certo a lui attribuibile – c’è da chiedersi, se non vogliamo essere scioccamente elogiativi, se fosse stato un grande uomo di teatro, un grande drammaturgo e grande poeta. I suoi libri, encicliche, scritti sono tutti densi di saggezza e cultura. Leggiamo nell’ultimo e riepilogativo libro, dal bellissimo titolo, appunto, Memoria e identità, – al quale forse l’editore ha aggiunto il sottotitolo «Conversazioni a cavallo dei millenni», dove quel brutto «a cavallo» non lui nel suo polacco forse ha introdotto – leggiamo l’indice: vi troviamo tutta la materia, eterna, la materia di dibattito e la materia di grande attualità che egli ha trattato nella sua opera: «Mysterium iniquitatis, la coesistenza del bene e del male»; Per un giusto uso della libertà; La storia; La patria europea. La democrazia contemporanea; La missione della Chiesa; Il rapporto Chiesa-Stato; La democrazia contemporanea» ecc. Infine, personali e confidenziali, le ultime pagine intitolate: «Qualcuno aveva guidato quel proiettile». Anche queste sono scritte in forma dialogica di domanda e risposta con il suo segretario Stanislav Dziwicz e perdono inevitabilmente di quella incisività interiore e commozione che la presa diretta e della lirica, di cui la stessa mano di Giovanni Paolo – e sempre certamente il suo dire – ha avuto. Ad esempio, a proposito di quel male per il proiettile che lo ferì e la sofferenza che gli portò, dicono: «… Nello stesso tempo però, la grazia divina si è manifestata con ricchezza sovrabbondante. Non vi è male da cui Dio non possa trarre un bene più grande. Non c’è sofferenza che Egli non sappia trasformare in strada che conduce a lui…». Ma, oh! come, parlando, in un felice impulso emotivo egli avrebbe saputo dire in sintesi parole come quelle di un poeta per esprimere l’utilità del dolore, cioè: «Il soffrire passa, l’aver sofferto non passa!». D’altra parte, quanti tra gli stessi cattolici, dicevamo, leggeranno i suoi libri? Lo stesso sondaggio condotto su «Famiglia Cristiana» riguardo alla lettura dei cattolici è scoraggiante e uno studioso acuto quanto prudente come Giorgio Rumi arriva a parlare di «una specie di analfabetismo» dei cattolici per il libro. Dunque, la grande presenza di Papa Giovanni Paolo II non resterà, credo, affidata ai suoi libri e scritti, se non per quanto riguarda alcuni contenuti normativi. Ma è, e sarà affidata al suo stesso essere, al quale la santità, aggiungerà, questa sì, l’estrema corona.