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SAVAGNONE: quel grido in Sicilia

di Giuseppe Savagnone

I siciliani – e non loro soltanto – non dimenticheranno mai le parole con cui Karol Woityla ad Agrigento, nel corso della sua visita in Sicilia del 1993, denunciava la “cultura della mafia, che è una cultura di morte, profondamente disumana, antievangelica, nemica della dignità delle persone e della convivenza civile”. Soprattutto non dimenticheranno quella specie di grido quasi sfuggito alla fine del discorso, al di fuori del testo ufficiale: “Questo popolo siciliano, talmente attaccato alla vita, un popolo che ama la vita, non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà contraria, civiltà della morte! Qui ci vuole la civiltà della vita! Nel nome di questo Cristo crocifisso e risorto, di questo Cristo che è Vita, Via, Verità e Vita!”. Tra i tanti aspetti della figura e dell’azione pastorale di questo grande Papa un posto centrale spetta sicuramente alla sua appassionata denuncia di tutto ciò che è contro la verità e la giustizia, intese non come astratti valori, ma in quanto inseparabili dal rispetto della vita e della dignità dell’uomo. Ciò non è avvenuto soltanto nei confronti della mafia. Vi è una profonda coerenza che lega fra di loro i documenti, i discorsi, le prese di posizione di questo pontificato e che si può ricondurre alla tenace difesa degli esseri umani, di cui Dio stesso ha avuto tanta considerazione da volerne assumere, con l’incarnazione, il volto. Da allora – scriveva, poco dopo la sua elezione, Giovanni Paolo II, nella sua prima enciclica, dall’eloquente titolo Redemptor hominis – è su questo volto che bisogna cercare, con infinita venerazione, i tratti misteriosi di quello divino. “Con la sua incarnazione, infatti, il Figlio stesso di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo”. Sì, Cristo può essere considerato da tanti punti di vista, ma quello che Karol Wojtyla ha messo al centro dell’attenzione del mondo è che in lui Dio si è definitivamente compromesso con l’uomo e che perciò solo in lui quest’ultimo trova la sua vera identità umana. Perciò, scriveva il Papa in questa stessa enciclica, “l’uomo è la via della Chiesa”. Non soltanto l’oggetto della sua attenzione, non soltanto la meta dei suoi sforzi, ma la strada a cui restare fedeli, se si vuole esserlo a Cristo. Da qui l’invocazione di una civiltà che, in nome di Cristo, sia civiltà della vita, e di una vita degnamente umana, contro tutte le prevaricazioni. Da qui la scelta di smascherare e affrontare senza mezzi termini quelle “strutture di peccato” che condizionano la crescita integrale soprattutto dei più poveri e dei più deboli, come nel caso della criminalità organizzata nel mezzogiorno d’Italia, o, in un orizzonte mondiale, nel caso dei regimi totalitari e del capitalismo selvaggio. La denuncia del Papa non ha arretrato nemmeno quando essa non riguardava le colpe degli altri, ma quelle commesse nel corso dei secoli dalla stessa Chiesa. Giovanni Paolo II si rendeva perfettamente conto che la sua richiesta di perdono per queste ultime avrebbe sconcertato non pochi prelati di Curia. Sapeva anche che ci sarebbero sempre stati, sul fronte opposto, degli scettici che avrebbero visto in questa scelta solo un’abile mossa della diplomazia pontificia. Ma non ha esitato nel percorrere fino in fondo questo cammino di umiliazione, perché era il cammino della verità e della giustizia, senza le quali non c’è vero rapporto con l’umanità dell’uomo. E, da questo, la sua energica battaglia contro tutte le menzogne e tutte le ingiustizie perpetrate nel mondo ha tratto una forza e una credibilità di cui forse solo oggi che il Papa è morto possiamo percepire la portata. E noi, chiamati a raccontare a quelli che verranno la sua straordinaria avventura, ci rendiamo conto, sempre più chiaramente, che non saremo degni di onorare la sua memoria se non sapremo, almeno in qualche misura, condividere il suo amore per l’uomo e imitare il suo coraggio.