Inginocchiati a un confessionale, giovani si abbracciano e si sciolgono in lacrime senza freno. Poco distante, su un gradone di un altare marmoreo ci sono persone più anziane: piangono anche loro. È automatico il pianto: neanche il tempo di portare la destra alla fronte per un segno di croce che già la vista di lui disteso sul feretro incalza inesorabile la lunga processione scompare dagli occhi. Ma non appena si è fatto quel passo che allontana da lì, dal Papa che per tanti giovani è stato il Papa di tutta la vita, non c’è niente da fare: le gambe che pure hanno sopportato una giornata intera in coda sotto il sole vengono meno. Bisogna piangere: è una liberazione, un saluto, un ricordo, una commiserazione, forse, per noi rimasti qui. Chissà cosa significano per ciascuno le lacrime versate in ginocchio appoggiati dove capita, in quella navata sinistra di San Pietro. Chissà quale immagine ciascuno ha in mente del Giovanni Paolo in tante parti del mondo acclamato ritmicamente dai giovani. Forse lo sanno i mille bigliettini scritti anche quelli come si può, su un pezzo di giornale, su una carta trovata in tasca, quei tanti «Grazie» messi nelle ceste che gli addetti del Vaticano raccolgono incessanti. Piange anche chi, forse un po’ in troppi, non ha resistito alla tentazione di continuare a scattare foto col telefonino mentre passava davanti alla salma. Ma anche chi non ha portato via un’immagine elettronica, ne porterà una ben più duratura nel suo ricordo. Non lo scorderà tanto facilmente quel mercoledì 6 aprile 2005. Era il giorno assegnato alla Toscana dalle autorità che dovevano gestire l’enorme afflusso di quanti volevano dare l’estremo omaggio al Papa: una giornata di fatica paziente, cominciata con una sveglia notturna, un viaggio in un affollatissimo treno o in pullman. E proseguita poi con dodici estenuanti ore di cammino, avanzando lentamente in un muro umano che partiva da Ponte Vittorio e portava dritto lì, all’ultimo saluto a lui, al Wojtyla che aveva girato il mondo per essere accanto a tutti e a cui tutti ora volevano essere accanto. Non c’entravano, per una volta giornali e televisioni: la gente non fa una cosa del genere per poter dire il fatidico «io c’ero». No, le motivazioni sono più profonde: «Per me essere qui è una forma di ringraziamento. Si può fare solamente questo per una persona che sembrava essere eterna», spiega convinta una ragazza pratese che ha appena cominciato una coda di cui la fine non si può se non immaginare. Se dopo mezza giornata di cammino per fare poche centinaia di metri si arriva lì davanti a Wojtyla disteso, avvolto nel manto rosso, lo si saluta per meno di un secondo e poi si piange per sfogare la propria commozione, non si può dire che l’atmosfera della lunga distesa umana sia luttuosa: non c’è tristezza in questa coda. Per niente. E se si prendessero uno per uno le migliaia di persone passate da lì quel giorno, nessuno direbbe oggi, dopo un anno, di essere stato allora a un rito funebre. «No, non c’è lutto», sosteneva sul momento don Sergio Occhipinti da Palaia, arrivato coi parrocchiani. «C’è la gioia della resurrezione in questa piazza». Aveva ragione. Saranno stati i canti sereni diffusi dagli altoparlanti, le preghiere scandite in tutte le lingue, le chitarre e gli applausi, ma lì di certo non c’era tetro lutto. Qualcuno rammenta di aver ricevuto, bambino, un rosario in dono da Giovanni Paolo II. Altri, più anziani, ricordano di essere stati a dare l’estremo saluto anche ad altri pontefici. Molti, quasi tutti, lo hanno conosciuto soltanto in televisione, i bambini solo negli anni della malattia e della sofferenza. Ma per tutti è un momento speciale essere in coda qui e nessuno, seppure con i piedi doloranti e nonostante chi tenta di passare avanti («ma n’do cori?», tutt’al più si sente), è intenzionato a rinunciare. Grazie a una Roma paziente che, invasa, accoglie i pellegrini sopportando autobus stracolmi e traffico decuplicato, grazie alle forze dell’ordine e ai tanti volontari che porgono agognate bottigliette d’acqua, tutto fila liscio. Quando si entra in piazza San Pietro sembra di essere quasi arrivati. E invece ci sono ancora delle ore da camminare. Stessa cosa quando si passa la soglia della Basilica. Pare di essere lì, ma ci vuole ancora un’altra ora. E se dopo tutta quest’attesa il saluto che si può fare al Papa dura meno delle parole «L’eterno riposo», non c’è delusione: non è uno spettacolo, quello che conta è aver espresso la propria gratitudine. Ritornare adesso con la memoria a quei momenti di un anno fa riporterà a tutti ricordi diversi: chi quel flash di Giovanni Paolo II disteso tra le guardie svizzere, chi il percorso interminabile per arrivarci, chi il calar della sera in piazza San Pietro con le candele accese e i disegni dei bambini appiccicati alle colonne. A qualcuno tornerà in mente anche quella navata sinistra e quel pianto liberatorio: il Papa di tutta la vita era lì, disteso, morto. Ma bisognava rialzarsi, subito. Lui, duemila anni fa, ci ha insegnato così. Lui non è morto.