Benedetto XVI

Visita in Germania, i discorsi di Benedetto XVI

Pubblichiamo le traduzioni italiane dei testi integrali dei discorsi pronunciati da Benedetto XVI in occasione della sua visita apostolica in Germania (22-25 settembre 2011)

1. INCONTRO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI CON I GIORNALISTI DURANTE IL VOLO VERSO LA GERMANIA 

Questa mattina, 22 settembre, nel corso del viaggio aereo verso la Germania Benedetto XVI ha incontrato i giornalisti del Volo Papale. Pubblichiamo di seguito la trascrizione dell’intervista concessa dal Papa agli operatori dei media:

P. Lombardi: Santità, benvenuto fra noi. Siamo il solito gruppo dei suoi accompagnatori giornalisti che si preparano a dare al suo viaggio eco nella stampa mondiale, e sono molto grati che lei, già così dall’inizio, abbia tempo per noi, per aiutarci a capire bene il significato di questo viaggio, che è un viaggio particolare perché si va nella sua Patria e lei parlerà la sua lingua. Ci sono in Germania circa 4.000 giornalisti accreditati nelle diverse tappe del viaggio. Qui sull’aereo ne abbiamo 68, di cui un po’ più di 20 sono tedeschi. Allora, io le propongo alcune domande, e la prima gliela propongo in tedesco, in modo che lei possa parlare per i nostri colleghi tedeschi la loro e sua lingua. Spiego agli italiani che è una domanda su quanto il Papa si senta ancora tedesco.

Padre Lombardi: „Eure Heiligkeit, erlauben Sie uns zuerst eine sehr persönliche Frage. Wie deutsch fühlt sich Papst Benedikt XVI. noch? Und woran bemerkt er, wie sehr – oder zunehmend weniger – seine deutsche Herkunft eine Rolle spielt?”

Heilige Fater: „Hölderlin hat gesagt: Am meisten vermag doch die Geburt. Und das spüre ich natürlich auch. Ich bin in Deutschland geboren, und die Wurzel kann nicht abgeschnitten werden und soll nicht abgeschnitten werden. Ich habe meine kulturelle Formung in Deutschland empfangen. Meine Sprache ist deutsch, und die Sprache ist die Weise, in der der Geist lebt und wirksam wird. Meine ganze kulturelle Formung ist dort geschehen. Wenn ich Theologie treibe, tue ich es aus der inneren Form heraus, die ich an den deutschen Universitäten gelernt habe; und leider muß ich gestehen, daß ich immer noch mehr deutsche als andere Bücher lese, so daß in meiner kulturellen Lebensgestalt dieses Deutschsein sehr stark ist. Die Zugehörigkeit zu dieser eigenen Geschichte mit ihrer Größe und ihrer Schwere kann und soll nicht aufgehoben werden. Aber bei einem Christen kommt schon etwas anderes dazu. Er wird in der Taufe neugeboren, in ein neues Volk aus allen Völkern hinein, in ein Volk, das alle Völker und Kulturen umfaßt und in dem er nun wirklich ganz zuhause ist, ohne seine natürliche Herkunft zu verlieren. Wenn man dann eine große Verantwortung – wie ich die oberste Verantwortung – in diesem neuen Volk übernimmt, ist klar, daß man immer tiefer in dieses hineinwächst. Die Wurzel wird zum Baum, der sich vielfältig erstreckt, und das Daheimsein in dieser großen Gemeinschaft eines Volkes aus allen Völkern, der katholischen Kirche, wird lebendiger und tiefer, prägt das ganze Dasein, ohne das Vorherige aufzuheben. So würde ich sagen: Es bleibt die Herkunft, es bleibt die kulturelle Gestalt, es bleibt natürlich auch die besondere Liebe und Verantwortung, aber eingebettet und ausgeweitet in die große Zughörigkeit, in die Civitas Dei hinein, wie Augustinus sagen würde, das Volk aus allen Völkern, in dem wir alle Brüder und Schwestern sind.”

Padre Lombardi: „Vielen Dank, Heiliger Vater. Und jetzt fahren wir fort in italienisch.

[Padre Lombardi: Santità, ci consenta – all’inizio – una domanda molto personale. Quanto Papa Benedetto XVI si sente ancora tedesco? E quali sono gli aspetti dai quali egli si accorge quanto ancora – o quanto sempre meno – la sua origine tedesca influisca?Santo Padre: Hölderlin ebbe a dire: “più di tutto fa la nascita”, e questo naturalmente lo sento anch’io. Io sono nato in Germania e la radice non può essere, né deve essere tagliata. Ho ricevuto la mia formazione culturale in Germania, la mia lingua è il tedesco e la lingua è il modo in cui lo spirito vive ed opera. Tutta la mia formazione culturale è avvenuta lì! Quando mi occupo di teologia, lo faccio partendo dalla forma interiore che ho imparato nelle università tedesche e purtroppo devo ammettere che continuo ancora a leggere più libri tedeschi che in altre lingue, così che, nella struttura culturale della mia vita, questo essere tedesco è molto forte. L’appartenenza alla sua storia, con la sua grandezza e le sue debolezze, non può e non deve essere cancellata. Per un cristiano, però, si aggiunge ancora qualcos’altro. Con il Battesimo egli nasce di nuovo, nasce in un nuovo popolo che è da tutti i popoli, un popolo che comprende tutti i popoli e tutte le culture e nel quale ora si trova veramente a casa, senza perdere la sua origine naturale. Quando poi si assume una responsabilità grande – come me, che ho assunto la responsabilità suprema – in questo nuovo popolo, è evidente che ci si immedesima in modo sempre più profondo in esso. La radice diventa un albero che si estende in vario modo, e il fatto di essere a casa in questa grande comunità di un popolo da tutti i popoli, della Chiesa cattolica, diventa sempre più vivo e profondo, forgia tutta l’esistenza senza cancellare ciò che precede. Direi, quindi, che l’origine rimane, rimane la struttura culturale, rimane naturalmente anche l’amore particolare e la particolare responsabilità, ma tutto ciò inserito ed ampliato nella più grande appartenenza, nella “civitas Dei”, come direbbe Agostino, nel popolo da tutti i popoli in cui tutti siamo fratelli e sorelle.Padre Lombardi: Grazie, Santo Padre. Ed ora proseguiamo in italiano.]

Padre Lombardi: Santo Padre, negli ultimi anni vi è stato in Germania un aumento delle uscite dalla Chiesa, in parte anche a causa degli abusi commessi su minori da membri del clero. Quale è il suo sentimento su questo fenomeno? E che cosa direbbe a quelli che vogliono lasciare la Chiesa?

Santo Padre: Distinguiamo forse anzitutto la motivazione specifica di quelli che si sentono scandalizzati da questi crimini che sono stati rivelati in questi ultimi tempi. Io posso capire che, alla luce di tali informazioni, soprattutto se si tratta di persone vicine, uno dice: “Questa non è più la mia Chiesa. La Chiesa era per me forza di umanizzazione e di moralizzazione. Se rappresentanti della Chiesa fanno il contrario, non posso più vivere con questa Chiesa”. Questa è una situazione specifica. Generalmente le motivazioni sono molteplici, nel contesto della secolarizzazione della nostra società. E queste uscite, di solito, sono l’ultimo passo di una lunga catena di allontanamento dalla Chiesa. In questo contesto, mi sembra importante domandarsi, riflettere: “Perché sono nella Chiesa? Sono nella Chiesa come in un’associazione sportiva, un’associazione culturale ecc., dove ho i miei interessi e, se non trovano più risposta, esco; o essere nella Chiesa è una cosa più profonda?”. Io direi, sarebbe importante sapere che essere nella Chiesa non è essere in qualche associazione, ma essere nella rete del Signore, nella quale Egli tira fuori pesci buoni e cattivi dalle acque della morte alla terra della vita. Può darsi che in questa rete sono proprio accanto a pesci cattivi e sento questo, ma rimane vero che io non ci sono per questi o per questi altri, ma perché è la rete del Signore; è una cosa diversa da tutte le associazioni umane, una realtà che tocca il fondamento del mio essere. Parlando con queste persone, io penso che dobbiamo andare fino in fondo a questa questione: che cosa è la Chiesa? Che cosa è la sua diversità? Perché sono nella Chiesa, anche se ci sono scandali e povertà umane terribili? E così rinnovare la consapevolezza della specificità di questo essere Chiesa, del popolo da tutti i popoli, che è Popolo di Dio, e così imparare, sopportare anche scandali, e lavorare contro questi scandali proprio essendo all’interno, in questa grande rete del Signore.

Padre Lombardi: Grazie, Santità. Non è la prima volta che gruppi di persone si manifestano contrari alla sua venuta in un Paese. La relazione della Germania con Roma era tradizionalmente critica, in parte anche nello stesso ambito cattolico. I temi controversi sono noti da tempo: condom, eucaristia, celibato. Prima del suo viaggio, anche dei parlamentari hanno assunto posizioni critiche. Ma anche prima del suo viaggio in Gran Bretagna l’atmosfera non sembrava amichevole e poi le cose sono andate a buon fine. Con quali sentimenti Lei si reca ora nella sua antica patria e si rivolgerà ai tedeschi?

Santo Padre: Anzitutto, direi che è una cosa normale che in una società libera e in un tempo secolarizzato ci siano opposizioni contro una visita del Papa. E’ anche giusto che si esprima – rispetto tutti quanti – che esprimano questa loro contrarietà: fa parte della nostra libertà e dobbiamo prendere atto che il secolarismo e anche l’opposizione proprio al cattolicesimo nelle nostre società è forte. E quando si manifestano queste opposizioni in modo civile, non c’è nulla da dire contro. Dall’altra parte è anche vero che c’è tanta aspettativa e tanto amore per il Papa. Ma forse devo ancora dire che in Germania ci sono diverse dimensioni di questa opposizione: la vecchia opposizione tra cultura germanica e romanica, i contrasti della storia, poi siamo il Paese della Riforma, che ha accentuato ancora questi contrasti. Ma c’è anche un grande consenso alla fede cattolica, una crescente convinzione che abbiamo bisogno di convinzione, abbiamo bisogno di una forza morale nel nostro tempo, abbiamo bisogno di una presenza di Dio in questo nostro tempo. Così so che insieme all’opposizione – che trovo naturale e da aspettarsi – c’è tanta gente che mi aspetta con gioia, che aspetta una festa della fede, un essere insieme, e vuole aspettare la gioia di conoscere Dio e di vivere insieme nel futuro, che Dio ci tiene per mano e ci mostra la strada. Per questo vado con gioia nella mia Germania e sono felice di portare il messaggio di Cristo nella mia terra.

Padre Lombardi: Grazie e ancora un’ultima domanda. Santo Padre, Lei visiterà a Erfurt l’antico convento del riformatore, Martin Luther. I cristiani evangelici, e i cattolici in dialogo con loro, si stanno preparando a commemorare il quinto centenario della Riforma. Con quale messaggio, con quali pensieri Lei si prepara all’incontro? Il suo viaggio deve essere visto anche come un gesto fraterno nei confronti dei fratelli e sorelle separati da Roma?

Santo Padre: Quando ho accettato l’invito a questo viaggio era per me evidente che l’ecumenismo con i nostri amici evangelici dovesse essere un punto forte, un punto centrale di questo viaggio. Noi viviamo in un tempo di secolarismo, come già detto, dove i cristiani insieme hanno la missione di rendere presente il messaggio di Dio, il messaggio di Cristo, di rendere possibile credere, andare avanti con queste grandi idee, verità. E perciò il mettersi insieme, tra cattolici ed evangelici, è un elemento fondamentale per il nostro tempo, anche se istituzionalmente non siamo perfettamente uniti, anche se rimangono problemi, anche grandi problemi, nel fondamento della fede in Cristo, in Dio trinitario e nell’uomo come immagine di Dio, siamo uniti, e questo mostrare al mondo e approfondire questa unità è essenziale in questo momento storico. Perciò sono molto grato ai nostri amici, fratelli e sorelle protestanti, che hanno reso possibile un segno molto significativo: l’incontro nel monastero dove Lutero ha iniziato il suo cammino teologico, la preghiera nella chiesa dove è stato ordinato sacerdote e il parlare insieme sulla nostra responsabilità di cristiani in questo tempo. Sono molto felice di poter mostrare così questa unità fondamentale, che siamo fratelli e sorelle e lavoriamo insieme per il bene dell’umanità, annunciando il lieto messaggio di Cristo, del Dio che ha un volto umano e che parla con noi.

2. CERIMONIA DI BENVENUTO, AL CASTELLO DI BELLEVUE DI BERLIN

Signor Presidente Federale, Signore e Signori, Cari amici,

mi sento molto onorato per l’amabile accoglienza che mi riservate qui al Castello Bellevue. Sono particolarmente grato a Lei, Signor Presidente Wulff, per l’invito a questa Visita ufficiale, che è il mio terzo soggiorno come Papa nella Repubblica Federale di Germania. La ringrazio di cuore per le parole gentili e profonde di benvenuto che mi ha rivolto. La mia gratitudine va ugualmente ai rappresentanti del Governo Federale, del Bundestag e del Bundesrat nonché della Città di Berlino per la loro presenza con cui esprimono il loro rispetto per il Papa come Successore dell’Apostolo Pietro. E non da ultimo ringrazio i tre Vescovi ospitanti, l’Arcivescovo Woelki di Berlino, il Vescovo Wanke di Erfurt e l’Arcivescovo Zollitsch di Friburgo, nonché tutti coloro che, a vari livelli ecclesiali e pubblici, hanno collaborato nei preparativi di questo Viaggio nella mia patria, contribuendo in tal modo alla sua buona riuscita.

Pur essendo questo Viaggio una Visita ufficiale che rafforzerà le buone relazioni tra la Repubblica Federale di Germania e la Santa Sede, in primo luogo non sono venuto qui per perseguire determinati obiettivi politici o economici, come fanno altri uomini di stato, ma per incontrare la gente e parlare con lei di Dio. Perciò sono lieto che vi sia una grande rappresentanza dei cittadini della Repubblica Federale. Grazie!

Nei confronti della religione – Lei, Signor Presidente Federale, l’ha menzionato – vediamo una crescente indifferenza nella società che, nelle sue decisioni, ritiene la questione della verità piuttosto come un ostacolo, e dà invece la priorità alle considerazioni utilitaristiche.

D’altra parte c’è bisogno di una base vincolante per la nostra convivenza, altrimenti ognuno vive solo seguendo il proprio individualismo. La religione è uno di questi fondamenti per una convivenza riuscita. “Come la religione ha bisogno della libertà, così anche la libertà ha bisogno della religione.” Queste parole del grande vescovo e riformatore sociale Wilhelm von Ketteler, di cui si celebra quest’anno il secondo centenario della nascita, sono ancora attuali1.

La libertà ha bisogno di un legame originario ad un’istanza superiore. Il fatto che ci sono valori che non sono assolutamente manipolabili, è la vera garanzia della nostra libertà. Chi si sente obbligato al vero e al bene, subito sarà d’accordo con questo: la libertà si sviluppa solo nella responsabilità di fronte a un bene maggiore. Tale bene esiste solamente per tutti insieme; quindi devo interessarmi sempre anche dei miei prossimi. La libertà non può essere vissuta in assenza di relazioni.

Nella convivenza umana non si dà libertà senza solidarietà. Ciò che sto facendo a scapito degli altri, non è libertà, ma azione colpevole che nuoce agli altri e con questo, alla fine, anche a me stesso. Posso realizzarmi veramente quale persona libera solo usando le mie forze anche per il bene degli altri. E questo vale non soltanto per l’ambito privato ma anche per la società. Secondo il principio di sussidiarietà, la società deve dare spazio sufficiente alle strutture più piccole per il loro sviluppo e, allo stesso tempo, deve essere di supporto, in modo che esse, un giorno, possano reggersi anche da sole.

Qui, al Castello Bellevue, che deve il suo nome alla splendida vista sulla riva della Sprea e che è situato non lontano dalla Colonna della Vittoria, dal Bundestag e dalla Porta di Brandeburgo, siamo proprio nel centro di Berlino, la capitale della Repubblica Federale di Germania. Il castello con il suo passato movimentato è – come tanti edifici della città – una testimonianza della storia tedesca. Noi ne conosciamo le pagine grandi e nobili e siamo grati per questo. Ma anche lo sguardo chiaro sulle pagine oscure della storia è possibile, e solo esso ci permette di imparare dal passato e di ricevere impulsi per il presente. La Repubblica Federale di Germania è diventata ciò che è oggi attraverso la forza della libertà plasmata dalla responsabilità davanti a Dio e dell’uno davanti all’altro. Essa ha bisogno di questa dinamica che coinvolge tutti gli ambiti dell’umano per poter continuare a svilupparsi nelle condizioni attuali. Ne ha bisogno in un mondo che necessita di un profondo rinnovamento culturale e della riscoperta di valori fondamentali su cui costruire un futuro migliore (Enciclica Caritas in veritate, 21).

Auspico che gli incontri durante le varie tappe del mio Viaggio – qui a Berlino, a Erfurt, nell’Eichsfeld e a Friburgo – possano dare un piccolo contributo in merito. Che in questi giorni Dio conceda la sua benedizione a noi tutti. Grazie. ____________________ 1 Discorso alla prima assemblea dei cattolici in Germania, 1848. In: Erwin Iserloh (ed.): Wilhelm Emmanuel von Ketteler: Sämtliche Werke und Briefe, Mainz, 1977, vol. I, 1, p. 18.

3. VISITA AL PARLAMENTO FEDERALE

Reichstag di Berlin Giovedì, 22 settembre 2011

Illustre Signor Presidente Federale! Signor Presidente del Bundestag! Signora Cancelliere Federale! Signora Presidente del Bundesrat! Signore e Signori Deputati!

È per me un onore e una gioia parlare davanti a questa Camera alta – davanti al Parlamento della mia Patria tedesca, che si riunisce qui come rappresentanza del popolo, eletta democraticamente, per lavorare per il bene della Repubblica Federale della Germania. Vorrei ringraziare il Signor Presidente del Bundestag per il suo invito a tenere questo discorso, così come per le gentili parole di benvenuto e di apprezzamento con cui mi ha accolto. In questa ora mi rivolgo a Voi, stimati Signori e Signore – certamente anche come connazionale che si sa legato per tutta la vita alle sue origini e segue con partecipazione le vicende della Patria tedesca. Ma l’invito a tenere questo discorso è rivolto a me in quanto Papa, in quanto Vescovo di Roma, che porta la suprema responsabilità per la cristianità cattolica. Con ciò Voi riconoscete il ruolo che spetta alla Santa Sede quale partner all’interno della Comunità dei Popoli e degli Stati. In base a questa mia responsabilità internazionale vorrei proporVi alcune considerazioni sui fondamenti dello Stato liberale di diritto.

Mi si consenta di cominciare le mie riflessioni sui fondamenti del diritto con una piccola narrazione tratta dalla Sacra Scrittura. Nel Primo Libro dei Re si racconta che al giovane re Salomone, in occasione della sua intronizzazione, Dio concesse di avanzare una richiesta. Che cosa chiederà il giovane sovrano in questo momento? Successo, ricchezza, una lunga vita, l’eliminazione dei nemici? Nulla di tutto questo egli chiede. Domanda invece: “Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male” (1Re 3,9). Con questo racconto la Bibbia vuole indicarci che cosa, in definitiva, deve essere importante per un politico. Il suo criterio ultimo e la motivazione per il suo lavoro come politico non deve essere il successo e tanto meno il profitto materiale. La politica deve essere un impegno per la giustizia e creare così le condizioni di fondo per la pace. Naturalmente un politico cercherà il successo senza il quale non potrebbe mai avere la possibilità dell’azione politica effettiva. Ma il successo è subordinato al criterio della giustizia, alla volontà di attuare il diritto e all’intelligenza del diritto. Il successo può essere anche una seduzione e così può aprire la strada alla contraffazione del diritto, alla distruzione della giustizia. “Togli il diritto – e allora che cosa distingue lo Stato da una grossa banda di briganti?” ha sentenziato una volta sant’Agostino.[1] Noi tedeschi sappiamo per nostra esperienza che queste parole non sono un vuoto spauracchio. Noi abbiamo sperimentato il separarsi del potere dal diritto, il porsi del potere contro il diritto, il suo calpestare il diritto, così che lo Stato era diventato lo strumento per la distruzione del diritto – era diventato una banda di briganti molto ben organizzata, che poteva minacciare il mondo intero e spingerlo sull’orlo del precipizio. Servire il diritto e combattere il dominio dell’ingiustizia è e rimane il compito fondamentale del politico. In un momento storico in cui l’uomo ha acquistato un potere finora inimmaginabile, questo compito diventa particolarmente urgente. L’uomo è in grado di distruggere il mondo. Può manipolare se stesso. Può, per così dire, creare esseri umani ed escludere altri esseri umani dall’essere uomini. Come riconosciamo che cosa è giusto? Come possiamo distinguere tra il bene e il male, tra il vero diritto e il diritto solo apparente? La richiesta salomonica resta la questione decisiva davanti alla quale l’uomo politico e la politica si trovano anche oggi.

In gran parte della materia da regolare giuridicamente, quello della maggioranza può essere un criterio sufficiente. Ma è evidente che nelle questioni fondamentali del diritto, nelle quali è in gioco la dignità dell’uomo e dell’umanità, il principio maggioritario non basta: nel processo di formazione del diritto, ogni persona che ha responsabilità deve cercare lei stessa i criteri del proprio orientamento. Nel terzo secolo, il grande teologo Origene ha giustificato così la resistenza dei cristiani a certi ordinamenti giuridici in vigore: “Se qualcuno si trovasse presso il popolo della Scizia che ha leggi irreligiose e fosse costretto a vivere in mezzo a loro … questi senz’altro agirebbe in modo molto ragionevole se, in nome della legge della verità che presso il popolo della Scizia è appunto illegalità, insieme con altri che hanno la stessa opinione, formasse associazioni anche contro l’ordinamento in vigore…”[2]

In base a questa convinzione, i combattenti della resistenza hanno agito contro il regime nazista e contro altri regimi totalitari, rendendo così un servizio al diritto e all’intera umanità. Per queste persone era evidente in modo incontestabile che il diritto vigente, in realtà, era ingiustizia. Ma nelle decisioni di un politico democratico, la domanda su che cosa ora corrisponda alla legge della verità, che cosa sia veramente giusto e possa diventare legge non è altrettanto evidente. Ciò che in riferimento alle fondamentali questioni antropologiche sia la cosa giusta e possa diventare diritto vigente, oggi non è affatto evidente di per sé. Alla questione come si possa riconoscere ciò che veramente è giusto e servire così la giustizia nella legislazione, non è mai stato facile trovare la risposta e oggi, nell’abbondanza delle nostre conoscenze e delle nostre capacità, tale questione è diventata ancora molto più difficile.

Come si riconosce ciò che è giusto? Nella storia, gli ordinamenti giuridici sono stati quasi sempre motivati in modo religioso: sulla base di un riferimento alla Divinità si decide ciò che tra gli uomini è giusto. Contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, mai un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto – ha rimandato all’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un’armonia che però presuppone l’essere ambedue le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio. Con ciò i teologi cristiani si sono associati ad un movimento filosofico e giuridico che si era formato sin dal secolo II a. Cr. Nella prima metà del secondo secolo precristiano si ebbe un incontro tra il diritto naturale sociale sviluppato dai filosofi stoici e autorevoli maestri del diritto romano.[3] In questo contatto è nata la cultura giuridica occidentale, che è stata ed è tuttora di un’importanza determinante per la cultura giuridica dell’umanità. Da questo legame precristiano tra diritto e filosofia parte la via che porta, attraverso il Medioevo cristiano, allo sviluppo giuridico dell’Illuminismo fino alla Dichiarazione dei Diritti umani e fino alla nostra Legge Fondamentale tedesca, con cui il nostro popolo, nel 1949, ha riconosciuto “gli inviolabili e inalienabili diritti dell’uomo come fondamento di ogni comunità umana, della pace e della giustizia nel mondo”.

Per lo sviluppo del diritto e per lo sviluppo dell’umanità è stato decisivo che i teologi cristiani abbiano preso posizione contro il diritto religioso, richiesto dalla fede nelle divinità, e si siano messi dalla parte della filosofia, riconoscendo come fonte giuridica valida per tutti la ragione e la natura nella loro correlazione. Questa scelta l’aveva già compiuta san Paolo, quando, nella sua Lettera ai Romani, afferma: “Quando i pagani, che non hanno la Legge [la Torà di Israele], per natura agiscono secondo la Legge, essi … sono legge a se stessi. Essi dimostrano che quanto la Legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza…” (Rm 2,14s). Qui compaiono i due concetti fondamentali di natura e di coscienza, in cui “coscienza” non è altro che il “cuore docile” di Salomone, la ragione aperta al linguaggio dell’essere. Se con ciò fino all’epoca dell’Illuminismo, della Dichiarazione dei Diritti umani dopo la seconda guerra mondiale e fino alla formazione della nostra Legge Fondamentale la questione circa i fondamenti della legislazione sembrava chiarita, nell’ultimo mezzo secolo è avvenuto un drammatico cambiamento della situazione. L’idea del diritto naturale è considerata oggi una dottrina cattolica piuttosto singolare, su cui non varrebbe la pena discutere al di fuori dell’ambito cattolico, così che quasi ci si vergogna di menzionarne anche soltanto il termine. Vorrei brevemente indicare come mai si sia creata questa situazione. È fondamentale anzitutto la tesi secondo cui tra l’essere e il dover essere ci sarebbe un abisso insormontabile. Dall’essere non potrebbe derivare un dovere, perché si tratterebbe di due ambiti assolutamente diversi. La base di tale opinione è la concezione positivista, oggi quasi generalmente adottata, di natura. Se si considera la natura – con le parole di Hans Kelsen – “un aggregato di dati oggettivi, congiunti gli uni agli altri quali cause ed effetti”, allora da essa realmente non può derivare alcuna indicazione che sia in qualche modo di carattere etico.[4] Una concezione positivista di natura, che comprende la natura in modo puramente funzionale, così come le scienze naturali la riconoscono, non può creare alcun ponte verso l’ethos e il diritto, ma suscitare nuovamente solo risposte funzionali. La stessa cosa, però, vale anche per la ragione in una visione positivista, che da molti è considerata come l’unica visione scientifica. In essa, ciò che non è verificabile o falsificabile non rientra nell’ambito della ragione nel senso stretto. Per questo l’ethos e la religione devono essere assegnati all’ambito del soggettivo e cadono fuori dall’ambito della ragione nel senso stretto della parola. Dove vige il dominio esclusivo della ragione positivista – e ciò è in gran parte il caso nella nostra coscienza pubblica – le fonti classiche di conoscenza dell’ethos e del diritto sono messe fuori gioco. Questa è una situazione drammatica che interessa tutti e su cui è necessaria una discussione pubblica; invitare urgentemente ad essa è un’intenzione essenziale di questo discorso.

Il concetto positivista di natura e ragione, la visione positivista del mondo è nel suo insieme una parte grandiosa della conoscenza umana e della capacità umana, alla quale non dobbiamo assolutamente rinunciare. Ma essa stessa nel suo insieme non è una cultura che corrisponda e sia sufficiente all’essere uomini in tutta la sua ampiezza. Dove la ragione positivista si ritiene come la sola cultura sufficiente, relegando tutte le altre realtà culturali allo stato di sottoculture, essa riduce l’uomo, anzi, minaccia la sua umanità. Lo dico proprio in vista dell’Europa, in cui vasti ambienti cercano di riconoscere solo il positivismo come cultura comune e come fondamento comune per la formazione del diritto, riducendo tutte le altre convinzioni e gli altri valori della nostra cultura allo stato di una sottocultura. Con ciò si pone l’Europa, di fronte alle altre culture del mondo, in una condizione di mancanza di cultura e vengono suscitate, al contempo, correnti estremiste e radicali. La ragione positivista, che si presenta in modo esclusivista e non è in grado di percepire qualcosa al di là di ciò che è funzionale, assomiglia agli edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mondo vasto di Dio. E tuttavia non possiamo illuderci che in tale mondo autocostruito attingiamo in segreto ugualmente alle “risorse” di Dio, che trasformiamo in prodotti nostri. Bisogna tornare a spalancare le finestre, dobbiamo vedere di nuovo la vastità del mondo, il cielo e la terra ed imparare ad usare tutto questo in modo giusto.

Ma come lo si realizza? Come troviamo l’ingresso nella vastità, nell’insieme? Come può la ragione ritrovare la sua grandezza senza scivolare nell’irrazionale? Come può la natura apparire nuovamente nella sua vera profondità, nelle sue esigenze e con le sue indicazioni? Richiamo alla memoria un processo della recente storia politica, nella speranza di non essere troppo frainteso né di suscitare troppe polemiche unilaterali. Direi che la comparsa del movimento ecologico nella politica tedesca a partire dagli anni Settanta, pur non avendo forse spalancato finestre, tuttavia è stata e rimane un grido che anela all’aria fresca, un grido che non si può ignorare né accantonare, perché vi si intravede troppa irrazionalità. Persone giovani si erano rese conto che nei nostri rapporti con la natura c’è qualcosa che non va; che la materia non è soltanto un materiale per il nostro fare, ma che la terra stessa porta in sé la propria dignità e noi dobbiamo seguire le sue indicazioni. È chiaro che qui non faccio propaganda per un determinato partito politico – nulla mi è più estraneo di questo. Quando nel nostro rapporto con la realtà c’è qualcosa che non va, allora dobbiamo tutti riflettere seriamente sull’insieme e tutti siamo rinviati alla questione circa i fondamenti della nostra stessa cultura. Mi sia concesso di soffermarmi ancora un momento su questo punto. L’importanza dell’ecologia è ormai indiscussa. Dobbiamo ascoltare il linguaggio della natura e rispondervi coerentemente. Vorrei però affrontare con forza un punto che – mi pare – venga trascurato oggi  come ieri: esiste anche un’ecologia dell’uomo. Anche l’uomo possiede una natura che deve rispettare e che non può manipolare a piacere. L’uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé. L’uomo non crea se stesso. Egli è spirito e volontà, ma è anche natura, e la sua volontà è giusta quando egli rispetta la natura, la ascolta e quando accetta se stesso per quello che è, e che non si è creato da sé. Proprio così e soltanto così si realizza la vera libertà umana.

Torniamo ai concetti fondamentali di natura e ragione da cui eravamo partiti. Il grande teorico del positivismo giuridico, Kelsen, all’età di 84 anni – nel 1965 – abbandonò il dualismo di essere e dover essere. (Mi consola il fatto che, evidentemente, a 84 anni si sia ancora in grado di pensare qualcosa di ragionevole.) Aveva detto prima che le norme possono derivare solo dalla volontà. Di conseguenza – aggiunge – la natura potrebbe racchiudere in sé delle norme solo se una volontà avesse messo in essa queste norme. Ciò, d’altra parte – dice – presupporrebbe un Dio creatore, la cui volontà si è inserita nella natura. “Discutere sulla verità di questa fede è una cosa assolutamente vana”, egli nota a proposito.[5] Lo è veramente? – vorrei domandare. È veramente privo di senso riflettere se la ragione oggettiva che si manifesta nella natura non presupponga una Ragione creativa, un Creator Spiritus?

A questo punto dovrebbe venirci in aiuto il patrimonio culturale dell’Europa. Sulla base della convinzione circa l’esistenza di un Dio creatore sono state sviluppate l’idea dei diritti umani, l’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge, la conoscenza dell’inviolabilità della dignità umana in ogni singola persona e la consapevolezza della responsabilità degli uomini per il loro agire. Queste conoscenze della ragione costituiscono la nostra memoria culturale. Ignorarla o considerarla come mero passato sarebbe un’amputazione della nostra cultura nel suo insieme e la priverebbe della sua interezza. La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma – dall’incontro tra la fede in Dio di Israele, la ragione filosofica dei Greci e il pensiero giuridico di Roma. Questo triplice incontro forma l’intima identità dell’Europa. Nella consapevolezza della responsabilità dell’uomo davanti a Dio e nel riconoscimento della dignità inviolabile dell’uomo, di ogni uomo, questo incontro ha fissato dei criteri del diritto, difendere i quali è nostro compito in questo momento storico.

Al giovane re Salomone, nell’ora dell’assunzione del potere, è stata concessa una sua richiesta. Che cosa sarebbe se a noi, legislatori di oggi, venisse concesso di avanzare una richiesta? Che cosa chiederemmo? Penso che anche oggi, in ultima analisi, non potremmo desiderare altro che un cuore docile – la capacità di distinguere il bene dal male e di stabilire così un vero diritto, di servire la giustizia e la pace. Vi ringrazio per la vostra attenzione.

  [1] De civitate Dei IV, 4, 1. [2] Contra Celsum GCS Orig. 428 (Koetschau); cfr A. Fürst, Monotheismus und Monarchie. Zum Zusammenhang von Heil und Herrschaft in der Antike. In: Theol.Phil. 81 (2006) 321 – 338; citazione p. 336; cfr anche J. Ratzinger, Die Einheit der Nationen. Eine Vision der Kirchenväter (Salzburg – München 1971) 60. [3] Cfr W. Waldstein, Ins Herz geschrieben. Das Naturrecht als Fundament einer menschlichen Gesellschaft (Augsburg 2010) 11ss; 31 – 61. [4] Waldstein, op. cit. 15 – 21. [5] Citato secondo Waldstein, op. cit. 19.

4. INCONTRO CON I RAPPRESENTANTI DELLA COMUNITÀ EBRAICA

Reichstag di Berlin Giovedì, 22 settembre 2011

Illustri Signore e Signori, cari amici!

Sono sinceramente contento di questo incontro con Voi qui a Berlino. Ringrazio di cuore il Signor Presidente, Dr. Dieter Graumann, per le gentili parole, che fanno anche riflettere. Esse mi manifestano quanto sia cresciuta la fiducia tra il Popolo ebraico e la Chiesa cattolica, che hanno in comune una parte non irrilevante delle loro tradizioni fondamentali, come Lei ha sottolineato. Al tempo stesso, tutti noi sappiamo bene che una comunione amorevole e comprensiva tra Israele e la Chiesa, nel rispetto reciproco per l’essere dell’altro, deve ulteriormente crescere ed è da includere in modo profondo nell’annuncio della fede.

Durante la mia visita nella Sinagoga di Colonia sei anni fa, il rabbino Teitelbaum parlò della memoria come di una delle colonne, di cui si ha bisogno per fondare su di esse un futuro pacifico. E oggi mi trovo in un luogo centrale della memoria, di una memoria spaventosa: da qui fu progettata ed organizzata la Shoah, l’eliminazione dei concittadini ebrei in Europa. Prima del terrore nazista in Germania viveva circa mezzo milione di ebrei, che costituivano una componente stabile della società tedesca. Dopo la seconda guerra mondiale, la Germania fu considerata come il “Paese della Shoah” in cui, in fondo, come ebreo, non si poteva più vivere. All’inizio quasi non c’era più alcun sforzo per rifondare le antiche comunità ebraiche, anche se dall’Est arrivavano continuamente persone singole e famiglie di ebrei. Molti di loro volevano emigrare e costruirsi una nuova esistenza, soprattutto negli Stati Uniti o in Israele.

In questo luogo bisogna anche richiamare alla memoria il pogrom della “notte dei cristalli” dal 9 al 10 novembre 1938. Pochi percepirono tutta la portata di tale atto di umano disprezzo come lo percepì il prevosto del Duomo di Berlino, Bernhard Lichtenberg, che, dal pulpito della cattedrale di Sant’Edvige, gridò: “Fuori il Tempio è in fiamme – è anch’esso una casa di Dio”. Il regime di terrore del nazionalsocialismo si fondava su un mito razzista, di cui faceva parte il rifiuto del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, del Dio di Gesù Cristo e delle persone credenti in Lui. L’“onnipotente” Adolf Hitler, era questo un idolo pagano, che voleva porsi come sostituto del Dio biblico, Creatore e Padre di tutti gli uomini. Con il rifiuto del rispetto per questo Dio unico si perde sempre anche il rispetto per la dignità dell’uomo. Di che cosa sia capace l’uomo che rifiuta Dio e quale volto possa assumere un popolo nel “no” a tale Dio, l’hanno rivelato le orribili immagini provenienti dai campi di concentramento alla fine della guerra.

Di fronte a questa memoria vi è da constatare, con gratitudine, che da qualche decennio si manifesta un nuovo sviluppo circa il quale si può addirittura parlare di una rifioritura della vita ebraica in Germania. È da sottolineare che in questo tempo la comunità ebraica si è resa benemerita in modo particolare nell’opera di integrazione di immigrati esteuropei.

Con gratitudine vorrei accennare anche al dialogo tra la Chiesa cattolica e l’Ebraismo, un dialogo che si sta approfondendo. La Chiesa sente una grande vicinanza al Popolo ebraico. Con la Dichiarazione Nostra aetate del Concilio Vaticano II si è cominciato a “percorrere un cammino irrevocabile di dialogo, di fraternità e di amicizia” (cfr Discorso nella Sinagoga di Roma, 17 gennaio 2010). Ciò vale per l’intera Chiesa cattolica, nella quale il beato Papa Giovanni Paolo II si è impegnato in modo particolarmente intenso a favore di questo nuovo cammino. Ciò vale ovviamente anche per la Chiesa cattolica in Germania che è ben consapevole della sua responsabilità particolare in questa materia. Nell’ambito pubblico si nota soprattutto la “Settimana della fraternità” che viene organizzata ogni anno nella prima settimana di marzo dalle associazioni locali per la collaborazione cristiano-ebraica.

Da parte cattolica ci sono inoltre incontri annuali tra Vescovi e Rabbini, come anche colloqui strutturati con il Consiglio centrale degli ebrei. Già negli anni Settanta, il Comitato Centrale dei Cattolici Tedeschi (ZdK) si è distinto con la fondazione di un forum “Ebrei e Cristiani”, che nel corso degli anni ha prodotto, in modo competente, molti documenti utili. E non vorrei neppure trascurare poi lo storico incontro per il dialogo ebreo-cristiano [tenuto in Germania] del marzo 2006, con la partecipazione del Cardinale Walter Kasper. Questa collaborazione porta frutto.

Accanto a queste importanti iniziative mi sembra che noi cristiani dobbiamo anche renderci sempre più conto della nostra affinità interiore con l’Ebraismo, di cui Lei ha parlato. Per i cristiani non può esserci una frattura nell’evento salvifico. La salvezza viene, appunto, dai Giudei (cfr Gv 4,22). Laddove il conflitto di Gesù con il Giudaismo del suo tempo è visto in modo superficiale, come un distacco dall’Antica Alleanza, si finisce per ridurlo a un’idea di liberazione che interpreta in modo erroneo la Torà, soltanto come osservanza servile di riti e prescrizioni esteriori. Di fatto, però, il Discorso della montagna non abolisce la Legge mosaica, ma svela le sue possibilità nascoste e fa emergere nuove esigenze; ci rimanda al fondamento più profondo dell’agire umano, al cuore, dove l’uomo sceglie tra il puro e l’impuro, dove si sviluppano fede, speranza e amore.

Il messaggio di speranza, che i libri della Bibbia ebraica e dell’Antico Testamento cristiano trasmettono, è stato assimilato e sviluppato da giudei e da cristiani in modo diverso. “Dopo secoli di contrapposizione, riconosciamo come nostro compito il far sì che questi due modi della nuova lettura degli scritti biblici – quella cristiana e quella giudaica – entrino in dialogo tra loro, per comprendere rettamente la volontà e la parola di Dio” (Gesù di Nazaret. Seconda Parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, p. 45). In una società sempre più secolarizzata, questo dialogo deve rinforzare la comune speranza in Dio. Senza tale speranza la società perde la sua umanità.

Tutto sommato possiamo constatare che lo scambio tra la Chiesa cattolica e l’Ebraismo in Germania ha già portato frutti promettenti. Sono cresciuti rapporti durevoli e fiduciosi. Certamente ebrei e cristiani hanno una responsabilità comune per lo sviluppo della società, la quale possiede sempre anche una dimensione religiosa. Possano tutti gli interessati continuare insieme questo cammino. Per questo l’Unico e l’Onnipotente – Ha Kadosch Baruch Hu – doni la sua Benedizione. Vi ringrazio.

5. MESSA NELL’OLYMPIASTADIUM DI BERLIN (22 settembre 2011)

Cari confratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio, cari fratelli e sorelle,

lo sguardo all’ampio stadio olimpico che voi riempite oggi in gran numero, suscita in me grande gioia e fiducia. Saluto con affetto tutti voi: i fedeli dell’Arcidiocesi di Berlino e delle Diocesi tedesche, nonché i numerosi pellegrini provenienti dai Paesi vicini. Quindici anni or sono, per la prima volta un Papa è venuto nella capitale federale Berlino. Tutti – anche io personalmente – abbiamo un ricordo molto vivo della Visita del mio venerato Predecessore, il Beato Giovanni Paolo II, e della Beatificazione del Prevosto del Duomo di Berlino Bernhard Lichtenberg – insieme a Karl Leisner – avvenuta proprio qui, in questo luogo.

Pensando a questi Beati e a tutta la schiera dei Santi e Beati, possiamo capire che cosa significhi vivere come tralci della vera vite che è Cristo, e portare frutto. Il Vangelo di oggi ci ha richiamato alla mente l’immagine di questa pianta, che è rampicante in modo rigoglioso nell’oriente e simbolo di forza vitale, una metafora per la bellezza e il dinamismo della comunione di Gesù con i suoi discepoli e amici, con noi.

Nella parabola della vite, Gesù non dice: “Voi siete la vite”, ma: “Io sono la vite, voi i tralci” (Gv 15,5). Ciò significa: “Così come i tralci sono legati alla vite, così voi appartenete a me! Ma appartenendo a me, appartenete anche gli uni agli altri”. E questo appartenere l’uno all’altro e a Lui non è una qualsiasi relazione ideale, immaginaria, simbolica, ma – vorrei quasi dire – un appartenere a Gesù Cristo in senso biologico, pienamente vitale. È la Chiesa, questa comunità di vita con Gesù Cristo e dell’uno per l’altro, che è fondata nel Battesimo e approfondita ogni volta di più nell’Eucaristia. “Io sono la vera vite”; questo, però, in realtà significa: “Io sono voi e voi siete me” – un’inaudita identificazione del Signore con noi, con la sua Chiesa.

Cristo stesso, quella volta, vicino a Damasco, chiese a Saulo, il persecutore della Chiesa: “Perché mi perseguiti?” (At 9,4). In tal modo il Signore esprime la comunanza di destino che deriva dall’intima comunione di vita della sua Chiesa con Lui, il Risorto. Egli continua a vivere nella sua Chiesa in questo mondo. Egli è con noi, e noi siamo con Lui. – “Perché mi perseguiti?” –In definitiva è Gesù che vogliono colpire i persecutori della sua Chiesa. E, allo stesso tempo, questo significa che noi non siamo soli quando siamo oppressi a causa della nostra fede. Gesù Cristo è da noi e con noi.

Nella parabola, il Signore Gesù dice ancora una volta: “Io sono la vite vera, e il Padre mio è l’agricoltore” (Gv 15,1), e spiega che il vignaiolo prende il coltello, taglia i tralci secchi e pota quelli che portano frutto perché portino più frutto. Per dirlo con l’immagine del profeta Ezechiele, come abbiamo ascoltato nella prima lettura, Dio vuole togliere dal nostro petto il cuore morto, di pietra, e darci un cuore vivente, di carne (cfr Ez 36,26). Vuole donarci una vita nuova e piena di forza. un cuore di amore, di bontà e di pace. Cristo è venuto a chiamare i peccatori. Sono loro che hanno bisogno del medico, non i sani (cfr Lc 5,31s.). E così, come dice il Concilio Vaticano II, la Chiesa è il “sacramento universale di salvezza” (Lumen gentium, 48) che esiste per i peccatori, per noi, per aprire a noi la via della conversione, della guarigione e della vita. Questa è la continua e grande missione della Chiesa, conferitale da Cristo.

Alcuni guardano la Chiesa fermandosi al suo aspetto esteriore. Allora la Chiesa appare solo come una delle tante organizzazioni in una società democratica, secondo le cui norme e leggi, poi, deve essere giudicata e trattata anche una figura così difficile da comprendere come la “Chiesa”. Se poi si aggiunge ancora l’esperienza dolorosa che nella Chiesa ci sono pesci buoni e cattivi, grano e zizzania, e se lo sguardo resta fisso sulle cose negative, allora non si schiude più il mistero grande e bello della Chiesa.

Quindi, non sorge più alcuna gioia per il fatto di appartenere a questa vite che è la “Chiesa”. Insoddisfazione e malcontento vanno diffondendosi, se non si vedono realizzate le proprie idee superficiali ed erronee di “Chiesa” e i propri “sogni di Chiesa”! Allora cessa anche il lieto canto “Sono grato al Signore, che per grazia mi ha chiamato nella sua Chiesa”, che generazioni di cattolici hanno cantato con convinzione.

Ma torniamo al Vangelo. Il Signore continua così: “Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me, … perché senza di me – si potrebbe anche tradurre: fuori di me – non potete far nulla” (Gv 15,4).

Ognuno di noi è messo di fronte a tale decisione. Il Signore, nella sua parabola, ci dice di nuovo quanto essa sia seria: “Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi raccolgono i tralci buttati via, li gettano nel fuoco e li bruciano” (cfr Gv 15,6). Al riguardo, S. Agostino commenta: “L’uno o l’altro spetta al tralcio, o la vite o il fuoco; se [il tralcio] non è nella vite, sarà nel fuoco; quindi affinché non sia nel fuoco, sia nella vite” (In Joan. Ev. tract. 81,3 [PL 35, 1842]).

La scelta qui richiesta ci fa capire, in modo insistente, il significato fondamentale della nostra decisione di vita. Ma, allo stesso tempo, l’immagine della vite è un segno di speranza e di fiducia. Incarnandosi, Cristo stesso è venuto in questo mondo per essere il nostro fondamento. In ogni necessità e aridità, Egli è la sorgente che dona l’acqua della vita che ci nutre e ci fortifica. Egli stesso porta su di sé ogni peccato, paura e sofferenza e, in fine, ci purifica e ci trasforma misteriosamente in tralci buoni che danno vino buono. In questi momenti di bisogno, a volte ci sentiamo come finiti sotto un torchio, come i grappoli d’uva che vengono pigiati completamente. Ma sappiamo che, uniti a Cristo, diventiamo vino maturo. Dio sa trasformare in amore anche le cose pesanti e opprimenti nella nostra vita. Importante è che “rimaniamo” nella vite, in Cristo. In questo breve brano, l’evangelista usa la parola “rimanere” una dozzina di volte. Questo “rimanere-in-Cristo” segna l’intero discorso. Nel nostro tempo di inquietudine e di qualunquismo, in cui così tanta gente perde l’orientamento e il sostegno; in cui la fedeltà dell’amore nel matrimonio e nell’amicizia è diventata così fragile e di breve durata; in cui vogliamo gridare, nel nostro bisogno, come i discepoli di Emmaus: “Signore, resta con noi, perché si fa sera (cfr Lc 24,29), sì, è buio intorno a noi!”; in questo tempo il Signore risorto ci offre un rifugio, un luogo di luce, di speranza e fiducia, di pace e sicurezza. Dove la siccità e la morte minacciano i tralci, là in Cristo c’è futuro, vita e gioia, là c’è sempre perdono e nuovo inizio, trasformazione entrando nel suo amore.

Rimanere in Cristo significa, come abbiamo già visto, rimanere anche nella Chiesa. L’intera comunità dei credenti è saldamente compaginata in Cristo, la vite. In Cristo, tutti noi siamo uniti insieme. In questa comunità Egli ci sostiene e, allo stesso tempo, tutti i membri si sostengono a vicenda. Insieme resistiamo alle tempeste e offriamo protezione gli uni agli altri. Noi non crediamo da soli, crediamo con tutta la Chiesa di ogni luogo e di ogni tempo, con la Chiesa che è in Cielo e sulla terra.

La Chiesa quale annunciatrice della Parola di Dio e dispensatrice dei sacramenti ci unisce con Cristo, la vera vite. La Chiesa quale “pienezza e completamento del Redentore” – come la chiamava Pio XII – (Pio XII, Mystici corporis, AAS 35 [1943] p. 230: “plenitudo et complementum Redemptoris”) è per noi pegno della vita divina e mediatrice dei frutti di cui parla la parabola della vite. Così la Chiesa è il dono più bello di Dio. Pertanto, Agostino poteva dire: “Ognuno possiede lo Spirito Santo nella misura in cui ama la Chiesa” (In Ioan. Ev. tract. 32, 8 [PL 35, 1646]). Con la Chiesa e nella Chiesa possiamo annunciare a tutti gli uomini che Cristo è la fonte della vita, che Egli è presente, che Egli è la grande realtà che cerchiamo e a cui aneliamo. Egli dona se stesso e così ci dona Dio, la felicità, l’amore. Chi crede in Cristo, ha un futuro. Perché Dio non vuole ciò che è arido, morto, artificiale, che alla fine è gettato via, ma vuole ciò che è fecondo e vivo, la vita in abbondanza, e Lui ci dà la vita in abbondanza.

Cari fratelli e sorelle! Auguro a tutti voi e a noi tutti di scoprire sempre più profondamente la gioia di essere uniti con Cristo nella Chiesa – con tutti i suoi affanni e le sue oscurità – di poter trovare nelle vostre necessità conforto e redenzione e che tutti noi possiamo diventare il vino delizioso della gioia e dell’amore di Cristo per questo mondo. Amen.

6. INCONTRO CON I RAPPRESENTANTI DELLA COMUNITÀ MUSULMANA

Salone dei ricevimenti – Nunziatura Apostolica di Berlin Venerdì, 23 settembre 2011

Cari amici musulmani,

mi è gradito porgere qui, oggi, un saluto a Voi, Rappresentanti di diverse comunità musulmane presenti in Germania. Ringrazio molto cordialmente il professore Mouhanad Khorchide per le cortesi parole di saluto e per le riflessioni profonde che ci ha presentato. Esse mostrano come è cresciuta un’atmosfera di rispetto e di fiducia tra la Chiesa cattolica e le comunità musulmane in Germania e diventi visibile ciò che insieme ci sostiene.

Berlino è un luogo opportuno per un tale incontro, non solo perché qui si trova la moschea più antica sul territorio della Germania, ma anche perché a Berlino vive il numero più grande di musulmani rispetto a tutte le altre città della Germania.

A partire dagli anni ‘70, la presenza di numerose famiglie musulmane è divenuta sempre di più un tratto distintivo di questo Paese. Sarà tuttavia necessario impegnarsi costantemente per una migliore reciproca conoscenza e comprensione. Ciò è essenziale non solo per una convivenza pacifica, ma anche per l’apporto che ciascuno è in grado di dare per la costruzione del bene comune all’interno della medesima società.

Molti musulmani attribuiscono grande importanza alla dimensione religiosa. Ciò, a volte, è interpretato come una provocazione in una società che tende ad emarginare questo aspetto o ad ammetterlo tutt’al più nella sfera delle scelte private dei singoli.

La Chiesa cattolica si impegna fermamente perché venga dato il giusto riconoscimento alla dimensione pubblica dell’appartenenza religiosa. Si tratta di un’esigenza che non diventa irrilevante nel contesto di una società maggiormente pluralista. In ciò va fatta attenzione che il rispetto verso l’altro sia sempre mantenuto. Questo rispetto reciproco cresce solo sulla base dell’intesa su alcuni valori inalienabili, propri della natura umana, soprattutto l’inviolabile dignità di ogni persona in quanto creatura di Dio. Tale intesa non limita l’espressione delle singole religioni; al contrario, permette a ciascuno di testimoniare in modo propositivo ciò in cui crede, non sottraendosi al confronto con l’altro.

In Germania – come in molti altri Paesi non solo occidentali – tale quadro di riferimento comune è rappresentato dalla Costituzione, il cui contenuto giuridico è vincolante per ogni cittadino, che sia appartenente o meno ad una confessione religiosa.

Naturalmente il dibattito sulla migliore formulazione di principi come la libertà di culto pubblico, è vasto e sempre aperto, tuttavia è significativo il fatto che la Legge Fondamentale tedesca li esprima in un modo ancora oggi valido, a distanza di più di 60 anni (cfr art. 4, 2). In essa troviamo espresso prima di tutto quell’ethos comune che è alla base della convivenza civile e che in qualche modo segna anche le regole apparentemente solo formali del funzionamento degli organi istituzionali e della vita democratica.

Potremmo chiederci come possa un tale testo, elaborato in un’epoca storica radicalmente diversa, in una situazione culturale quasi uniformemente cristiana, essere adatto alla Germania di oggi, che vive nel contesto di un mondo globalizzato ed è segnata da un notevole pluralismo in materia di convinzioni religiose.

La ragione di ciò, mi pare, si trova nel fatto che i padri della Legge Fondamentale ebbero la piena consapevolezza, in quel momento importante, di dover cercare una base veramente solida, nella quale tutti i cittadini potessero riconoscersi e che potesse essere una base portante per tutti, al di là delle differenze. Nel fare ciò, tenendo presenti la dignità dell’uomo e la responsabilità davanti a Dio, essi non prescindevano dalla propria appartenenza religiosa; per molti di loro, anzi, la visione cristiana dell’uomo era la vera forza ispiratrice. Tuttavia sapevano che tutti gli uomini devono confrontarsi con retroterra confessionali diversi o addirittura non religiosi: il terreno comune per tutti fu trovato nel riconoscimento di alcuni diritti inalienabili, che sono propri della natura umana e che precedono ogni formulazione positiva.

In questo modo una società allora sostanzialmente omogenea pose il fondamento che oggi possiamo ritenere valido per un tempo segnato dal pluralismo. Fondamento che, in realtà, indica anche degli evidenti confini a tale pluralismo: non è pensabile, infatti, che una società possa sostenersi nel lungo termine senza un consenso sui valori etici fondamentali.

Cari amici, sulla base di quanto ho qui accennato, penso che sia possibile una collaborazione feconda tra cristiani e musulmani. E in questo modo contribuiamo alla costruzione di una società che, sotto molti aspetti, sarà diversa da ciò che abbiamo portato con noi dal passato. In quanto uomini religiosi, a partire dalle rispettive convinzioni possiamo dare una testimonianza importante in molti settori cruciali della vita sociale. Penso, ad esempio, alla tutela della famiglia fondata sul matrimonio, al rispetto della vita in ogni fase del suo naturale decorso o alla promozione di una più ampia giustizia sociale.

Anche per questo ritengo importante celebrare una Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia del mondo; vogliamo fare questo – come ben sapete – il prossimo 27 ottobre ad Assisi, a 25 anni dallo storico incontro in quel luogo guidato dal mio Predecessore, il Beato Giovanni Paolo II. Con tale raduno vogliamo mostrare, con semplicità, che da uomini religiosi noi offriamo il nostro particolare contributo per la costruzione di un mondo migliore, riconoscendo al tempo stesso la necessità, per l’efficacia della nostra azione, di crescere nel dialogo e nella stima reciproca.

Con questi sentimenti rinnovo il mio cordiale saluto e vi ringrazio per questo incontro, che per me costituisce un grande arricchimento in questo soggiorno nella mia patria. Grazie per la vostra attenzione!

7. INCONTRO CON I RAPPRESENTANTI DEL CONSIGLIO DELLA “CHIESA EVANGELICA IN GERMANIA”

Sala del Capitolo dell’ex-Convento degli Agostiniani di Erfurt, Venerdì, 23 settembre 2011

Illustri Signore e Signori!

Prendendo la parola, vorrei innanzitutto ringraziare di cuore per questa opportunità d’incontrarci qui. La mia particolare gratitudine va a Lei, caro Fratello Presidente Schneider, che mi ha dato il benvenuto e che con le sue parole mi ha accolto in mezzo a voi. Lei ha aperto il suo cuore, ha espresso apertamente la fede veramente comune, il desiderio di unità. E noi siamo anche lieti, poiché ritengo che questa assemblea, i nostri incontri, vengano celebrati anche come la festa della comunione nella fede. Vorrei inoltre ringraziare tutti per il vostro dono di poter conversare insieme come cristiani qui, in questo luogo storico.

Per me, come Vescovo di Roma, è un momento di profonda emozione incontrarvi qui, nell’antico convento agostiniano di Erfurt. Abbiamo appena sentito che qui Lutero ha studiato teologia. Qui è stato ordinato sacerdote. Contro il desiderio del padre, egli non continuò gli studi di giurisprudenza, ma studiò teologia e si incamminò verso il sacerdozio nell’Ordine di sant’Agostino. E in questo cammino non gli interessava questo o quello. Ciò che non gli dava pace era la questione su Dio, che fu la passione profonda e la molla della sua vita e dell’intero suo cammino. “Come posso avere un Dio misericordioso?”: questa domanda gli penetrava nel cuore e stava dietro ogni sua ricerca teologica e ogni lotta interiore. Per Lutero la teologia non era una questione accademica, ma la lotta interiore con se stesso, e questo, poi, era una lotta riguardo a Dio e con Dio.

“Come posso avere un Dio misericordioso?”. Che questa domanda sia stata la forza motrice di tutto il suo cammino mi colpisce sempre nuovamente nel cuore. Chi, infatti, si oggi si preoccupa ancora di questo, anche tra i cristiani? Che cosa significa la questione su Dio nella nostra vita? Nel nostro annuncio? La maggior parte della gente, anche dei cristiani,  oggi dà per scontato che Dio, in ultima analisi, non si interessa dei nostri peccati e delle nostre virtù. Egli sa, appunto, che tutti siamo soltanto carne. Se si crede ancora in un al di là e in un giudizio di Dio, allora quasi tutti presupponiamo in pratica che Dio debba essere generoso e, alla fine, nella sua misericordia, ignorerà le nostre piccole mancanze. La questione non ci preoccupa più. Ma sono veramente così piccole le nostre mancanze? Non viene forse devastato il mondo a causa della corruzione dei grandi, ma anche dei piccoli, che pensano soltanto al proprio tornaconto? Non viene forse devastato a causa del potere della droga, che vive, da una parte, della brama di vita e di denaro e, dall’altra, dell’avidità di piacere delle persone dedite ad essa? Non è forse minacciato dalla crescente disposizione alla violenza che, non di rado, si maschera con l’apparenza della religiosità? La fame e la povertà potrebbero devastare a tal punto intere parti del mondo se in noi l’amore di Dio e, a partire da Lui, l’amore per il prossimo, per le creature di Dio, gli uomini, fosse più vivo? E le domande in questo senso potrebbero continuare. No, il male non è un’inezia. Esso non potrebbe essere così potente se noi mettessimo Dio veramente al centro della nostra vita. La domanda: Qual è la posizione di Dio nei miei confronti, come mi trovo io davanti a Dio? – questa scottante domanda di Lutero deve diventare di nuovo, e certamente in forma nuova, anche la nostra domanda, non accademica, ma concreta. Penso che questo sia il primo appello che dovremmo sentire nell’incontro con Martin Lutero.

E poi è importante: Dio, l’unico Dio, il Creatore del cielo e della terra, è qualcosa di diverso da un’ipotesi filosofica sull’origine del cosmo. Questo Dio ha un volto e ci ha parlato. Nell’uomo Gesù Cristo è diventato uno di noi – insieme vero Dio e vero uomo. Il pensiero di Lutero, l’intera sua spiritualità era del tutto cristocentrica: “Ciò che promuove la causa di Cristo” era per Lutero il criterio ermeneutico decisivo nell’interpretazione della Sacra Scrittura. Questo, però, presuppone che Cristo sia il centro della nostra spiritualità e che l’amore per Lui, il vivere insieme con Lui orienti la nostra vita.

Ora forse si potrebbe dire: va bene, ma cosa ha a che fare tutto questo con la nostra situazione ecumenica? Tutto ciò è forse soltanto un tentativo di eludere con tante parole i problemi urgenti, nei quali aspettiamo progressi pratici, risultati concreti? A questo riguardo rispondo: la cosa più necessaria per l’ecumenismo è innanzitutto che, sotto la pressione della secolarizzazione, non perdiamo quasi inavvertitamente le grandi cose che abbiamo in comune, che di per sé ci rendono cristiani e che ci sono restate come dono e compito. È stato l’errore dell’età confessionale aver visto per lo più soltanto ciò che separa, e non aver percepito in modo esistenziale ciò che abbiamo in comune nelle grandi direttive della Sacra Scrittura e nelle professioni di fede del cristianesimo antico. È questo per me il grande progresso ecumenico degli ultimi decenni: che ci siamo resi conto di questa comunione e, nel pregare e cantare insieme, nell’impegno comune per l’ethos cristiano di fronte al mondo, nella comune testimonianza del Dio di Gesù Cristo in questo mondo, riconosciamo tale comunione come il nostro comune fondamento imperituro.

Certo, il pericolo di perderla non è irreale. Vorrei far brevemente notare due aspetti. Negli ultimi tempi, la geografia del cristianesimo è profondamente cambiata e sta cambiando ulteriormente. Davanti ad una forma nuova di cristianesimo, che si diffonde con un immenso dinamismo missionario, a volte preoccupante nelle sue forme, le Chiese confessionali storiche restano spesso perplesse. È un cristianesimo di scarsa densità istituzionale, con poco bagaglio razionale e ancora meno bagaglio dogmatico e anche con poca stabilità. Questo fenomeno mondiale – che mi viene continuamente descritto dai vescovi di tutto il mondo – ci pone tutti davanti alla domanda: che cosa ha da dire a noi di positivo e di negativo questa nuova forma di cristianesimo? In ogni caso, ci mette nuovamente di fronte alla domanda su che cosa sia ciò che resta sempre valido e che cosa possa o debba essere cambiato, di fronte alla questione circa la nostra scelta fondamentale nella fede.

Più profonda e nel nostro Paese più scottante è la seconda sfida per l’intera cristianità; di essa vorrei parlare: si tratta del contesto del mondo secolarizzato, nel quale dobbiamo vivere e testimoniare oggi la nostra fede. L’assenza di Dio nella nostra società si fa più pesante, la storia della sua rivelazione, di cui ci parla la Scrittura, sembra collocata in un passato che si allontana sempre di più. Occorre forse cedere alla pressione della secolarizzazione, diventare moderni mediante un annacquamento della fede? Naturalmente, la fede deve essere ripensata e soprattutto rivissuta oggi in modo nuovo per diventare una cosa che appartiene al presente. Ma non è l’annacquamento della fede che aiuta, bensì solo il viverla interamente nel nostro oggi. Questo è un compito ecumenico centrale nel quale dobbiamo aiutarci a vicenda: a credere in modo più profondo e più vivo. Non saranno le tattiche a salvarci, a salvare il cristianesimo, ma una fede ripensata e rivissuta in modo nuovo, mediante la quale Cristo, e con Lui il Dio vivente, entri in questo nostro mondo. Come i martiri dell’epoca nazista ci hanno condotti gli uni verso gli altri e hanno suscitato la prima grande apertura ecumenica, così anche oggi la fede, vissuta a partire dell’intimo di se stessi, in un mondo secolarizzato, è la forza ecumenica più forte che ci ricongiunge, guidandoci verso l’unità nell’unico Signore. E per questo lo preghiamo di imparare di nuovo a vivere la fede per poter diventare così una cosa sola.

8. CELEBRAZIONE ECUMENICA AD ERFURT

Chiesa dell’ex-Convento degli Agostiniani di Erfurt, Venerdì, 23 settembre 2011

Cari fratelli e sorelle nel Signore!

“Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola” (Gv 17,20): così ha detto Gesù nel Cenacolo, al Padre. Egli intercede per le generazioni future di credenti. Guarda al di là del Cenacolo verso il futuro. Ha pregato anche per noi. E prega per la nostra unità. Questa preghiera di Gesù non è semplicemente una cosa del passato. Sempre Egli sta davanti al Padre intercedendo per noi, e così in quest’ora sta in mezzo a noi e vuole attrarci nella sua preghiera. Nella preghiera di Gesù si trova il luogo interiore, più profondo, della nostra unità. Diventeremo una sola cosa, se ci lasceremo attirare dentro tale preghiera. Ogni volta che, come cristiani, ci troviamo riuniti nella preghiera, questa lotta di Gesù riguardo a noi e con il Padre per noi dovrebbe toccarci profondamente nel cuore. Quanto più ci lasciamo attrarre in questa dinamica, tanto più si realizza l’unità.

È rimasta inascoltata la preghiera di Gesù? La storia del cristianesimo è, per così dire, il lato visibile di questo dramma, in cui Cristo lotta e soffre con noi esseri umani. Sempre di nuovo Egli deve sopportare il contrasto con l’unità, e tuttavia sempre di nuovo si compie anche l’unità con Lui e così con il Dio trinitario. Dobbiamo vedere ambedue le cose: il peccato dell’uomo, che si nega a Dio, si ritira in se stesso, ma anche le vittorie di Dio, che sostiene la Chiesa nonostante la sua debolezza e attira continuamente uomini dentro di sé, avvicinandoli così gli uni agli altri. Per questo, in un incontro ecumenico, non dovremmo soltanto lamentare le divisioni e le separazioni, bensì ringraziare Dio per tutti gli elementi di unità che ha conservato per noi e sempre di nuovo ci dona. E questa gratitudine deve al contempo essere disponibilità a non perdere, in mezzo ad un tempo di tentazione e di pericoli, l’unità così donata.

L’unità fondamentale consiste nel fatto che crediamo in Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra. Che lo professiamo quale Dio trinitario – Padre, Figlio e Spirito Santo. L’unità suprema non è solitudine di una monade, ma unità attraverso l’amore. Crediamo in Dio – nel Dio concreto. Crediamo nel fatto che Dio ci ha parlato e si è fatto uno di noi. Testimoniare questo Dio vivente è il nostro comune compito nel momento attuale.

L’uomo ha bisogno di Dio, oppure le cose vanno abbastanza bene anche senza di Lui? Quando, in una prima fase dell’assenza di Dio, la sua luce continua ancora a mandare i suoi riflessi e tiene insieme l’ordine dell’esistenza umana, si ha l’impressione che le cose funzionino abbastanza bene anche senza Dio. Ma quanto più il mondo si allontana da Dio, tanto più diventa chiaro che l’uomo, nell’hybris del potere, nel vuoto del cuore e nella brama di soddisfazione e di felicità, “perde” sempre di più la vita. La sete di infinito è presente nell’uomo in modo inestirpabile. L’uomo è stato creato per la relazione con Dio e ha bisogno di Lui. Il nostro primo servizio ecumenico in questo tempo deve essere di testimoniare insieme la presenza del Dio vivente e con ciò dare al mondo la risposta di cui ha bisogno. Naturalmente di questa testimonianza fondamentale per Dio fa parte, in modo assolutamente centrale, la testimonianza per Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, che è vissuto insieme con noi, ha patito per noi, è morto per noi e, nella risurrezione, ha spalancato la porta della morte. Cari amici, fortifichiamoci in questa fede! Aiutiamoci a vicenda a viverla! Questo è un grande compito ecumenico che ci introduce nel cuore della preghiera di Gesù.

La serietà della fede in Dio si manifesta nel vivere la sua parola. Si manifesta, nel nostro tempo, in modo molto concreto, nell’impegno per quella creatura che Egli volle a sua immagine, per l’uomo. Viviamo in un tempo in cui i criteri dell’essere uomini sono diventati incerti. L’etica viene sostituita con il calcolo delle conseguenze. Di fronte a ciò noi come cristiani dobbiamo difendere la dignità inviolabile dell’uomo, dal concepimento fino alla morte – nelle questioni della diagnosi pre-impiantatoria fino all’eutanasia. “Solo chi conosce Dio, conosce l’uomo”, ha detto una volta Romano Guardini. Senza la conoscenza di Dio, l’uomo diventa manipolabile. La fede in Dio deve concretizzarsi nel nostro comune impegno per l’uomo. Fanno parte di tale impegno per l’uomo non soltanto questi criteri fondamentali di umanità, ma soprattutto e molto concretamente l’amore che Gesù Cristo ci insegna nella descrizione del Giudizio finale (Mt 25): il Dio giudice ci giudicherà secondo come  ci siamo comportati nei confronti di coloro che ci sono prossimi, nei confronti dei più piccoli dei suoi fratelli. La disponibilità ad aiutare, nelle necessità di questo tempo, al di là del proprio ambiente di vita è un compito essenziale del cristiano.

Ciò vale anzitutto, come detto, nell’ambito della vita personale di ciascuno. Ma vale poi nella comunità di un popolo e di uno Stato, in cui tutti noi dobbiamo farci carico gli uni degli altri. Vale per il nostro Continente, in cui siamo chiamati alla solidarietà in Europa. E, infine, vale al di là di tutte le frontiere: la carità cristiana esige oggi il nostro impegno anche per la giustizia nel vasto mondo. So che da parte dei tedeschi e della Germania si fa molto per rendere possibile a tutti gli uomini un’esistenza degna dell’uomo, e per questo vorrei dire una parola di viva gratitudine.

Infine vorrei ancora accennare ad una dimensione più profonda del nostro obbligo di amare. La serietà della fede si manifesta soprattutto anche quando essa ispira certe persone a mettersi totalmente a disposizione di Dio e, a partire da Dio, degli altri. I grandi aiuti diventano concreti soltanto quando sul luogo esistono coloro che sono totalmente a disposizione dell’altro e con ciò rendono credibile l’amore di Dio. Persone del genere sono un segno importante per la verità della nostra fede.

Alla vigilia della mia visita si è parlato diverse volte di un dono ecumenico dell’ospite, che ci si aspettava da una tale visita. Non c’è bisogno che io specifichi i doni menzionati in tale contesto. Al riguardo vorrei dire che questo, come per lo più è apparso, costituisce un fraintendimento politico della fede e dell’ecumenismo. Quando un Capo di Stato visita un Paese amico, generalmente precedono contatti tra le istanze, che preparano la stipulazione di uno o anche di più accordi tra i due Stati: nella ponderazione dei vantaggi e degli svantaggi si arriva al compromesso che, alla fine, appare vantaggioso per ambedue le parti, così che poi il trattato può essere firmato. Ma la fede dei cristiani non si basa su una ponderazione dei nostri vantaggi e svantaggi. Una fede autocostruita è priva di valore. La fede non è una cosa che noi escogitiamo e concordiamo. È il fondamento su cui viviamo. L’unità cresce non mediante la ponderazione di vantaggi e svantaggi, bensì solo attraverso un sempre più profondo penetrare nella fede mediante il pensiero e la vita. In questa maniera, negli ultimi 50 anni, e in particolare anche dalla visita di Papa Giovanni Paolo II, 30 anni fa, è cresciuta molta comunanza, della quale possiamo essere solo grati. Mi piace ricordare l’incontro con la commissione guidata dal Vescovo [luterano] Lohse, nella quale ci si è esercitati insieme in questo penetrare in modo profondo nella fede mediante il pensiero e la vita. A tutti coloro che hanno collaborato in questo – per la parte cattolica, in modo particolare, al Cardinale Lehmann – vorrei esprimere vivo ringraziamento. Non menziono altri nomi – il Signore li conosce tutti. Insieme possiamo tutti solo ringraziare il Signore per le vie dell’unità sulle quali ci ha condotti, ed associarci in umile fiducia alla sua preghiera: Fa’ che diventiamo una sola cosa, come Tu sei una sola cosa col Padre, perché il mondo creda che Egli Ti ha mandato” (cfr Gv 17,21).

9. VESPRI MARIANI A ETZELSBACH

Wallfahrtskapelle di Etzelsbach Venerdì, 23 settembre 2011

Cari fratelli e sorelle!

Di vero cuore vorrei salutare tutti voi che siete venuti qui, a Etzelsbach, per quest’ora di preghiera. Fin dalla mia giovinezza ho sentito parlare tanto dell’Eichsfeld che ho pensato: devo vederlo una volta e pregare insieme con voi. Ringrazio cordialmente il Vescovo Wanke, che già durante il volo mi ha presentato la vostra regione, e ringrazio i vostri portavoce e rappresentanti che mi hanno consegnato doni simbolici della vostra terra, e, al tempo stesso, hanno potuto darmi almeno un’idea della varietà di questa regione. 

Così sono molto felice che si sia realizzato il mio desiderio di visitare l’Eichsfeld e di ringraziare, assieme con voi, la Vergine Maria qui a Etzelsbach. “Qui, nell’amata vallata tranquilla” – dice un canto di pellegrini – e “sotto i vecchi tigli”, Maria ci dona sicurezza e nuova forza. In due dittature empie, che hanno mirato a togliere agli uomini la loro fede tradizionale, la gente dell’Eichsfeld era sicura di trovare qui, nel santuario di Etzelsbach, una porta aperta e un luogo di pace interiore. L’amicizia particolare con Maria, amicizia che è cresciuta da tutto questo, la vogliamo continuare, anche con questa celebrazione dei Vespri mariani di oggi.

Quando i cristiani in tutti i tempi e in tutti i luoghi si rivolgono a Maria, si fanno guidare dalla certezza spontanea che Gesù non può rifiutare le richieste che gli presenta sua Madre; e si poggiano sulla fiducia incrollabile che Maria è al tempo stesso anche Madre nostra – una Madre che ha sperimentato la sofferenza più grande di tutte, che percepisce insieme con noi tutte le nostre difficoltà e pensa in modo materno al loro superamento. Quante persone nel corso dei secoli sono andate in pellegrinaggio a Maria per trovare davanti all’immagine dell’Addolorata – come qui ad Etzelsbach – consolazione e conforto!

Guardiamo la sua immagine! Una donna di mezza età con le palpebre appesantite dal molto pianto e al contempo lo sguardo trasognato rivolto lontano, come se stesse meditando nel suo cuore su tutto ciò che era accaduto. Sulle sue ginocchia riposa il corpo esanime del Figlio; Ella lo stringe delicatamente e con amore, come un dono prezioso. Sul corpo denudato del Figlio vediamo i segni della crocifissione. Il braccio sinistro del Crocifisso cade verticalmente verso il basso. Forse questa scultura della Pietà – come spesso si usava – era originariamente collocata sopra un altare. Così il Crocifisso rimanda con il suo braccio disteso a quanto accade sull’altare dove il santo sacrificio da Lui compiuto è reso presente nell’Eucaristia.

Una particolarità dell’immagine miracolosa di Etzelsbach è la posizione del Crocifisso. Nella maggior parte delle rappresentazioni della Pietà, Gesù morto giace con il capo verso sinistra. Così l’osservatore può vedere la ferita del costato del Crocifisso. Qui a Etzelsbach, invece, la ferita del costato è nascosta, perché la salma, appunto, è orientata verso l’altro lato. A me sembra che in tale rappresentazione si nasconda un profondo significato, che si svela solo ad un’attenta contemplazione: nell’immagine miracolosa di Etzelsbach i cuori di Gesù e di sua Madre sono rivolti l’uno verso l’altro; i cuori s’avvicinano l’uno all’altro. Si scambiano a vicenda il loro amore. Sappiamo che il cuore è anche l’organo della sensibilità più profonda per l’altro, come pure l’organo dell’intima compassione. Nel cuore di Maria c’è lo spazio per l’amore che il suo Figlio divino vuole donare al mondo.

La devozione mariana si concentra nella contemplazione del rapporto tra la Madre e il suo Figlio divino. I fedeli, nella preghiera, nella sofferenza, nel ringraziamento e nella gioia, hanno trovato sempre nuovi aspetti e titoli che possono meglio dischiudere a noi questo mistero, per esempio l’immagine del Cuore immacolato di Maria come simbolo dell’unità profonda e senza riserve con Cristo nell’amore. Non è l’autorealizzazione, il voler possedere e costruire se stessi, a compiere il vero sviluppo della persona, cosa che oggi viene proposta come modello della vita moderna, ma che facilmente  si muta in una forma di egoismo raffinato. È piuttosto l’atteggiamento del dono di sé, la rinuncia a se stessi, che si orienta verso il cuore di Maria e con ciò anche verso il cuore di Cristo, come pure verso il prossimo, e solo in questo modo ci fa trovare noi stessi.

“Noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno” (Rm 8,28): è quanto abbiamo appena sentito nella lettura tratta dalla Lettera ai Romani. In Maria, Dio ha fatto concorrere tutto al bene e non cessa di far sì che, attraverso Maria, il bene si diffonda ulteriormente nel mondo. Dalla Croce, dal trono della grazia e della redenzione, Gesù ha dato agli uomini come Madre la propria Madre Maria. Nel momento del suo sacrificio per l’umanità, Egli rende Maria in certo modo mediatrice del flusso di grazia che deriva dalla Croce. Sotto la Croce, Maria diventa compagna e protettrice degli uomini nel loro cammino di vita. “Con la sua materna carità si prende cura dei fratelli del Figlio suo ancora peregrinanti e posti in mezzo a pericoli e affanni, fino a che non siano condotti nella patria beata” (Lumen gentium, 62), così l’ha espresso il Concilio Vaticano II. Sì, nella vita noi attraversiamo alterne vicende, ma Maria intercede per noi presso il Figlio suo e ci aiuta a trovare la forza dell’amore divino del Figlio e ad aprirci ad esso.

La nostra fiducia nell’intercessione efficace della Madre di Dio e la nostra gratitudine per l’aiuto sempre nuovamente sperimentato portano in sé in qualche modo l’impulso a spingere la riflessione al di là delle necessità del momento. Che cosa vuol dirci veramente Maria, quando ci salva da un pericolo? Vuole aiutarci a comprendere l’ampiezza e la profondità della nostra vocazione cristiana. Con delicatezza materna vuole farci capire che tutta la nostra vita deve essere una risposta all’amore ricco di misericordia del nostro Dio. Come se dicesse a noi: comprendi che Dio, il quale è la fonte di ogni bene e non vuole nient’altro che la tua vera felicità, ha il diritto di esigere da te una vita che si abbandoni totalmente e con gioia alla sua volontà e si adoperi perché anche gli altri facciano altrettanto. “Dove c’è Dio, là c’è futuro”. In effetti: dove lasciamo che l’amore di Dio agisca totalmente sulla nostra vita e nella nostra vita, là è aperto il cielo. Là è possibile plasmare il presente così che corrisponda sempre di più alla Buona Novella del nostro Signore Gesù Cristo. Là le piccole cose della vita quotidiana hanno il loro senso e là i grandi problemi trovano la loro soluzione.

In questa certezza, preghiamo Maria, in questa certezza crediamo in Gesù Cristo nostro Signore e nostro Dio. Amen.

10. SANTA MESSA AD ERFURT

Domplatz di Erfurt, Sabato 24 settembre 2011

Cari fratelli e sorelle!

“Lodate il Signore in ogni tempo, perché è buono”: così abbiamo appena cantato prima del Vangelo. Sì, abbiamo veramente motivo per ringraziare Dio con tutto il cuore. Se in questa città torniamo indietro col pensiero al 1981, l’anno giubilare di sant’Elisabetta, trent’anni fa, ai tempi della DDR – chi avrebbe immaginato che il muro e il filo spinato alle frontiere sarebbero caduti pochi anni dopo? E se andiamo ancora più indietro, di circa settant’anni fino al 1941, ai tempi del nazionalsocialismo, nella Grande Guerra – chi avrebbe potuto predire che il “Reich millenario” sarebbe stato ridotto in cenere già quattro anni dopo?

Cari fratelli e sorelle, qui in Turingia e nell’allora DDR avete dovuto sopportare una dittatura “bruna” [nazista] e una “rossa” [comunista], che per la fede cristiana avevano l’effetto che ha la pioggia acida. Tante conseguenze tardive di quel tempo sono ancora da smaltire, soprattutto nell’ambito intellettuale e in quello religioso. La maggioranza della gente in questa terra vive ormai lontana dalla fede in Cristo e dalla comunione della Chiesa. Gli ultimi due decenni, però, presentano anche esperienze positive: un orizzonte più ampio, uno scambio al di là delle frontiere, una fiduciosa certezza che Dio non ci abbandona e ci conduce per vie nuove. “Dove c’è Dio, là c’è futuro”.

Noi tutti siamo convinti che la nuova libertà abbia aiutato a conferire all’uomo una dignità più grande e ad aprire molteplici nuove possibilità. Dal punto di vista della Chiesa possiamo sottolineare con gratitudine molte facilitazioni: nuove possibilità per le attività parrocchiali, la ristrutturazione e l’ampiamento di chiese e di centri parrocchiali, iniziative diocesane di carattere pastorale o culturale. Ma davanti a noi, naturalmente, si presenta la domanda: queste possibilità ci hanno portato anche a crescita nella fede? Non bisogna forse cercare il fondamento della fede e della vita cristiana a un livello più profondo di quello della libertà sociale? Molti cattolici risoluti sono rimasti fedeli a Cristo e alla Chiesa proprio nella difficile situazione di un’oppressione esteriore. E noi oggi dove stiamo? Quelle persone hanno accettato svantaggi personali pur di vivere la propria fede. Vorrei qui ringraziare i sacerdoti e i loro collaboratori e collaboratrici di quei tempi. In particolare, vorrei ricordare la pastorale dei rifugiati immediatamente dopo la seconda guerra mondiale: allora molti ecclesiastici e laici hanno compiuto grandi cose per attenuare la situazione penosa dei profughi e donare loro una nuova Patria. Non da ultimo, un ringraziamento sincero va ai genitori che, in mezzo alla diaspora e in un ambiente politico ostile alla Chiesa, hanno educato i loro figli nella fede cattolica. Con gratitudine vorrei ricordare le Settimane Religiose per i bambini durante le vacanze, come anche il lavoro fruttuoso delle Case per la gioventù cattolica “Sankt Sebastian” a Erfurt e “Marcel Callo” a Heiligenstadt. Specialmente nell’Eichsfeld molti cristiani cattolici hanno resistito all’ideologia comunista. Voglia Dio ricompensare tutti abbondantemente per la perseveranza nella fede. La testimonianza coraggiosa e il paziente vivere con Lui, la paziente fiducia nella provvidenza di Dio sono come un seme prezioso che promette un abbondante frutto per il futuro.

La presenza di Dio si manifesta sempre in modo particolarmente chiaro nei Santi. La loro testimonianza di fede può darci anche oggi il coraggio per un nuovo risveglio. Pensiamo qui soprattutto ai santi Patroni della Diocesi di Erfurt: Elisabetta di Turingia, Bonifacio e Kilian. Elisabetta venne da un Paese estero, dall’Ungheria, a Wartburg in Turingia. Condusse una vita intensa di preghiera, unita alla penitenza e alla povertà evangelica. Scendeva regolarmente dal suo castello nella città di Eisenach per curarvi di persona i poveri e i malati. La sua vita su questa terra durò poco – raggiunse soltanto l’età di ventiquattro anni –, ma il frutto della sua santità si estende per i secoli. Sant’Elisabetta gode grande stima anche da parte dei cristiani evangelici; può aiutare tutti noi a scoprire la pienezza della fede, la sua bellezza e la sua profondità e la sua forza trasformante e purificante, e a tradurla nella nostra vita quotidiana.

Alle radici cristiane del nostro Paese rimanda anche la fondazione della Diocesi di Erfurt nell’anno 742 da parte di san Bonifacio. Questo evento costituisce, al contempo, la prima menzione documentata della città di Erfurt. Il Vescovo missionario Bonfacio era venuto dall’Inghilterra e faceva parte del suo stile di lavoro di operare in unità essenziale e in stretto collegamento con il Vescovo di Roma, il Successore di san Pietro. Sapeva che la Chiesa deve essere unita attorno a Pietro. Lo veneriamo come “Apostolo della Germania”; morì martire. Due dei suoi compagni che condivisero con lui la testimonianza del sangue per la fede cristiana sono seppelliti qui, nel Duomo di Erfurt: sono i santi Eoban ed Adelar.

Già prima dei missionari anglosassoni ha operato in Turingia san Kilian, un missionario itinerante che proveniva dall’Irlanda. Insieme con due compagni egli morì martire a Würzburg, perché criticava il comportamento moralmente sbagliato del duca di Turingia lì residente. E, infine, non vogliamo dimenticare san Severo, il Patrono della Severikirche qui nella Piazza del Duomo: nel quarto secolo, egli era Vescovo di Ravenna; nell’anno 836, le sue spoglie vennero portate a Erfurt, per radicare più profondamente la fede cristiana in questa regione. Da questi morti, infatti, partiva la testimonianza viva della Chiesa che perdura nel tempo, della fede, che feconda ogni epoca e ci indica il cammino della vita.

Chiediamoci: che cosa hanno in comune questi santi? Come possiamo descrivere l’aspetto particolare della loro vita e comprendere che ci riguarda e che può operare nella nostra vita? I Santi ci mostrano anzitutto che è possibile e che è bene vivere in rapporto con Dio e vivere questo rapporto in modo radicale, metterlo al primo posto e non riservare ad esso soltanto qualche angolo. I santi ci rendono evidente il fatto che Dio, da parte sua, si è rivolto per primo verso di noi. Noi non potremmo giungere fino a Lui e protenderci in qualche modo verso ciò che è ignoto, se non ci avesse amato per primo, se non ci fosse venuto incontro per primo. Dopo essere già venuto incontro ai Padri con le parole della chiamata, Egli stesso si è mostrato a noi in Gesù Cristo e in Lui continua a mostrarsi a noi. Cristo ci viene incontro anche oggi, parla ad ognuno, come ha appena fatto nel Vangelo, e invita ciascuno di noi ad ascoltarlo, ad imparare a comprenderLo e a seguirLo. Questo invito e questa possibilità, i Santi l’hanno valorizzata, hanno riconosciuto il Dio concreto, lo hanno visto e ascoltato, Gli sono andato incontro e hanno camminato con Lui; si sono, per così dire, fatti contagiare da Lui, e si sono protesi dal loro intimo verso di Lui – nel continuo dialogo della preghiera – e da Lui hanno ricevuto la luce che dischiuse loro la vita vera.

La fede è sempre anche essenzialmente un credere insieme con gli altri. Nessuno può credere da solo. Riceviamo la fede, ci dice Paolo, attraverso l’ascolto. E l’ascolto è un processo dell’essere insieme in modo spirituale e fisico. Soltanto nella grande comunione dei fedeli di ogni tempo che hanno trovato Cristo e che sono stati trovati da Lui posso credere. Il fatto di poter credere lo devo innanzitutto a Dio che si rivolge a me e, per così dire, “accende” la mia fede. Ma molto concretamente devo la mia fede a coloro che mi sono vicini e che hanno creduto prima di me e credono insieme con me. Questo grande “con”, senza il quale non può esserci alcuna fede personale, è la Chiesa. E questa Chiesa non si ferma davanti alle frontiere dei Paesi, lo dimostrano le nazionalità dei santi da me menzionati: Ungheria, Inghilterra, Irlanda e Italia. Qui si evidenzia quanto sia importante lo scambio spirituale che si espande attraverso l’intera Chiesa universale. Sì, è stato fondamentale per lo sviluppo della Chiesa nel nostro Paese e continua ad essere fondamentale per ogni tempo: che crediamo insieme in tutti i Continenti e che impariamo gli uni dagli altri a credere. Se noi ci apriamo a tutta la fede in tutta la storia e nelle sue testimonianze in tutta la Chiesa, allora la fede cattolica ha futuro anche come forza pubblica in Germania. Al tempo stesso le figure dei Santi di cui ho parlato ci mostrano la grande fecondità di una vita con Dio, la fecondità di questo amore radicale per Dio e per il prossimo. I Santi, anche dove sono soltanto pochi, cambiano il mondo. E i grandi Santi continuano a essere forze trasformatrici in ogni tempo.

Così i cambiamenti politici dell’anno 1989 nel nostro Paese non erano motivati soltanto dal desiderio di benessere e di libertà di movimento, ma, in modo decisivo, dal desiderio di veracità. Questo desiderio venne tenuto desto, fra l’altro, da persone che stavano totalmente al servizio di Dio e del prossimo ed erano disposte a sacrificare la propria vita. Essi e i santi ricordati ci danno il coraggio di trarre profitto dalla nuova situazione. Non vogliamo nasconderci in una fede solamente privata, ma vogliamo gestire in modo responsabile la libertà raggiunta. Come i santi Kilian, Bonifacio, Adelar, Eoban ed Elisabetta di Turingia vogliamo andare incontro ai nostri concittadini da cristiani ed invitarli a scoprire con noi la pienezza della Buona Novella, la sua presenza e la sua forza vitale e bellezza. Allora assomiglieremo alla famosa campana del Duomo di Erfurt che porta il nome di “Gloriosa”. Essa è ritenuta la più grande campana medioevale del mondo ad oscillazione libera. È un segno vivo del nostro profondo radicamento nella tradizione cristiana, ma anche un richiamo a metterci in cammino ed impegnarci nella missione. Suonerà anche oggi alla fine della Messa solenne. Possa stimolarci a rendere visibile ed udibile nel mondo – secondo l’esempio dei Santi – la testimonianza di Cristo, a rendere udibile e visibile la gloria di Dio e, in tal modo, a vivere in un mondo in cui Dio è presente e rende la vita bella e ricca di significato. Amen.

11. SALUTO ALLA CITTADINANZA DI FREIBURG IM BREISGAU

Münsterplatz di Freiburg im Breisgau, Sabato, 24 settembre 2011

Cari amici,

con grande gioia vi saluto tutti e vi ringrazio per la cordiale accoglienza, che mi avete riservato.  Dopo i begli incontri a Berlino ed Erfurt, sono lieto di poter essere ora con voi a Friburgo, illuminato e scaldato dal sole. Un grazie particolare va al vostro caro Arcivescovo Robert Zollitsch per l’invito – ha talmente insistito che, alla fine, ho dovuto  dire: devo davvero andare a Friburgo! – e per il suo gentile indirizzo di benvenuto.

“Dove c’è Dio, là c’è futuro”, così suona il motto di queste giornate. Come Successore dell’Apostolo Pietro, al quale il Signore, appunto, ha dato l’incarico – nel cenacolo -  di confermare i fratelli (cfr Lc 22,32), sono venuto volentieri da voi, in questa bella città,  per pregare insieme con voi, per proclamare la parola di Dio e per celebrare insieme l’Eucaristia. Chiedo la vostra preghiera affinché questi giorni siano fruttuosi, affinché Dio confermi la nostra fede, rafforzi la nostra speranza e accresca il nostro amore. Che in questi giorni diventiamo di nuovo consapevoli di quanto Dio ci ami e che Egli veramente è buono. E così dobbiamo essere colmati dalla fiducia che Egli è buono verso di noi e che ha una potere buono e che Egli porta noi, e tutto ciò che muove il nostro cuore ed è importante per noi, nelle sue mani. E vogliamo metterlo consapevolmente nelle sue mani. In Lui il nostro futuro è assicurato; Egli dona senso alla nostra vita e può condurla alla pienezza. Il Signore vi accompagni nella pace e renda tutti noi messaggeri della sua pace! Grazie di cuore per l’accoglienza.

12. INCONTRO CON I RAPPRESENTANTI DELLE CHIESE ORTODOSSE ED ORTODOSSE ORIENTALI

Hörsaal del Seminario di Freiburg im Breisgau, Sabato, 24 settembre 2011

Eminenze, Eccellenze, Venerati Rappresentanti delle Chiese ortodosse ed ortodosse orientali,

sono molto contento di ritrovarci oggi qui insieme. Ringrazio di cuore tutti Voi per la Vostra presenza e per la possibilità di questo scambio amichevole. Ringrazio in particolare Lei, caro Metropolita Augustinos per le sue profonde parole. Mi ha colpito soprattutto ciò che Lei ha detto sulla Madre di Dio e sui Santi che abbracciano e uniscono tutti i secoli. E in questo contesto ripeto volentieri ciò che ho detto altrove: senza dubbio, fra le Chiese e le comunità cristiane, l’Ortodossia, teologicamente, è la più vicina a noi; cattolici ed ortodossi hanno conservato la medesima struttura della Chiesa delle origini; in questo senso tutti noi siamo “Chiesa delle origini”, che tuttavia è sempre presente e nuova. E così osiamo sperare, anche se da un punto di vista umano emergono ripetutamente difficoltà, che non sia troppo lontano il giorno in cui potremo di nuovo celebrare insieme l’Eucaristia (cfr Luce del Mondo. Un colloquio con Peter Seewald, pp. 129s).

Con interesse e simpatia la Chiesa cattolica segue – e io personalmente – lo sviluppo delle comunità ortodosse in Europa occidentale che hanno registrato una notevole crescita. In Germania – così ho appreso – vivono oggi circa un milione e seicentomila cristiani ortodossi ed ortodossi orientali. Essi sono diventati parte costitutiva della società, contribuendo a rendere più vivo il patrimonio delle culture cristiane e della fede cristiana in Europa. Mi compiaccio dell’intensificazione della collaborazione pan ortodossa, che negli ultimi anni ha fatto progressi essenziali. La fondazione delle Conferenze Episcopali Ortodosse – di cui Lei ci ha parlato – là dove le Chiese ortodosse sono in diaspora, è espressione delle salde relazioni all’interno dell’ortodossia. Sono contento che lo scorso anno in Germania si sia fatto tale passo. Le esperienze che si vivono in queste Conferenze Episcopali rafforzino l’unione tra le Chiese ortodosse e facciano progredire gli sforzi per un concilio panortodosso.

Fin dal tempo in cui ero professore a Bonn e poi, in particolare, da Arcivescovo di Monaco e Frisinga, attraverso l’amicizia personale con rappresentanti delle Chiese ortodosse, ho potuto conoscere e apprezzare l’Ortodossia in modo sempre più profondo. A quel tempo si è iniziato anche il lavoro della Commissione congiunta della Conferenza Episcopale Tedesca e della Chiesa ortodossa. Da allora, con i suoi testi in merito a questioni pastorali e pratiche, essa promuove la comprensione reciproca e contribuisce a consolidare e sviluppare le relazioni cattolico-ortodosse in Germania.

Rimane altrettanto importante la continuazione del lavoro per chiarire le differenze teologiche, perché il loro superamento è indispensabile per il ristabilimento della piena unità, che auspichiamo e per la quale preghiamo. Noi sappiamo che è soprattutto sulla questione del primato che dobbiamo continuare, con pazienza e umiltà, gli sforzi nel confronto per la sua giusta comprensione. Penso che qui le riflessioni circa il discernimento tra la natura e la forma dell’esercizio del primato come le ha fatte Papa Giovanni Paolo II nell’Enciclica Ut unum sint (n. 95), possono ancora darci fruttuosi impulsi.

Guardo con gratitudine anche al lavoro della Commissione mista internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse orientali. Sono contento, venerate Eminenze e venerati Rappresentanti delle Chiese ortodosse orientali, di incontrare con Voi i rappresentanti delle Chiese coinvolte in questo dialogo. I risultati ottenuti fanno crescere la comprensione gli uni degli altri e l’avvicinarsi gli uni agli altri.

Nell’attuale tendenza del nostro tempo, in cui non poche persone vogliono, per così dire, “liberare” la vita pubblica da Dio, le Chiese cristiane in Germania – tra le quali anche i cristiani ortodossi ed ortodossi orientali –, sulla base della fede nell’unico Dio e Padre di tutti gli uomini, camminano insieme sulla via di una testimonianza pacifica per la comprensione e per la comunione tra i popoli. Facendo questo, non tralasciano di mettere il miracolo dell’incarnazione di Dio al centro dell’annuncio. Consapevoli che su questo miracolo si fonda ogni dignità della persona, si impegnano insieme per la protezione della vita umana dal suo concepimento fino alla sua morte naturale. La fede in Dio, il Creatore della vita, e il restare assolutamente fedeli alla dignità di ogni persona rafforzano i cristiani nell’opporsi decisamente ad ogni intervento manipolatore e selettivo nei confronti della vita umana. Inoltre, conoscendo il valore del matrimonio e della famiglia, in quanto cristiani ci sta molto a cuore, come cosa importante, proteggere l’integrità e la singolarità del matrimonio tra un uomo e una donna da ogni interpretazione sbagliata. Qui l’impegno comune dei cristiani, tra cui i fedeli ortodossi ed ortodossi orientali, dà un contributo prezioso per l’edificazione di una società che può avere un futuro, nella quale si porta il dovuto rispetto alla persona umana.

Vorrei, infine, rivolgere lo sguardo a Maria, – Lei l’ha presentata a noi come Panaghia – alla Hodegetria, la “guida del cammino”, che è venerata anche in Occidente col titolo “Nostra Signora del cammino”. La Santissima Trinità ha donato all’umanità Maria, la Vergine Madre, affinché Ella, con la sua intercessione, ci guidi attraverso i tempi e ci indichi il cammino verso il compimento. A Lei vogliamo affidarci e presentare la nostra richiesta di diventare, in Cristo, una comunità sempre più intimamente unita, a lode e gloria del Suo nome. Dio Vi benedica tutti! Grazie.

13. INCONTRO CON IL CONSIGLIO DEL COMITATO CENTRALE DEI CATTOLICI TEDESCHI (ZDK)

Hörsaal del Seminario di Freiburg im Breisgau, Sabato, 24 settembre 2011

Illustri Signori e Signore, cari fratelli e sorelle,

sono grato per la possibilità di incontrarmi, qui a Friburgo, con voi, Membri del Consiglio del Comitato Centrale dei Cattolici Tedeschi. Volentieri vi manifesto il mio apprezzamento per il vostro impegno nel sostenere in pubblico gli interessi dei cattolici e nel dare impulso all’opera apostolica della Chiesa e dei cattolici nella società. Allo stesso tempo, vorrei ringraziarLa, caro signor Presidente Glück, per le sue cortesi parole in cui ha detto molte cose importanti e degne di riflessione.

Cari amici, da anni esistono i cosiddetti programmi exposure negli aiuti ai Paesi in via di sviluppo. Persone responsabili della politica, dell’economia e della Chiesa vivono, per un certo tempo, con i poveri in Africa, Asia o America Latina e condividono la loro vita concreta quotidiana. Si mettono nella situazione di vita di queste persone per vedere il mondo con gli occhi di queste persone e per trarre da questa esperienza insegnamenti per il proprio agire solidale.

Immaginiamo che un tale programma exposure abbia luogo qui in Germania. Esperti provenienti da un Paese lontano verrebbero a vivere per una settimana presso una famiglia tedesca media. Qui ammirerebbero tante cose, ad esempio il benessere, l’ordine e l’efficienza. Ma, con uno sguardo non prevenuto, constaterebbero anche tanta povertà: povertà per quanto riguarda le relazioni umane e povertà nell’ambito religioso.

Viviamo in un tempo caratterizzato, in gran parte, da un relativismo subliminale che penetra tutti gli ambiti della vita. A volte, questo relativismo diventa battagliero, rivolgendosi contro persone che dicono di sapere dove si trova la verità o il senso della vita.

E notiamo come questo relativismo eserciti sempre di più un influsso sulle relazioni umane e sulla società. Ciò trova espressione anche nell’incostanza e nella discontinuità di tante persone e in un eccessivo individualismo. Qualcuno non sembra affatto capace di rinunciare a qualcosa o di fare un sacrificio per altri. Anche l’impegno altruistico per il bene comune, nei campi sociali e culturali, oppure per i bisognosi, sta diminuendo. Altri non sono più in grado di legarsi in modo incondizionato ad un partner. Quasi non si trova più il coraggio di promettere di essere fedele per tutta la vita; il coraggio di decidersi e di dire: io ora appartengo totalmente a te, oppure di impegnarsi con decisione per la fedeltà e la veracità, e di cercare con sincerità le soluzioni dei problemi.

Cari amici, nel programma exposure, all’analisi segue la riflessione comune. Tale elaborazione deve guardare la persona umana nella sua totalità, e di questa fa parte – non solo in modo implicito, ma proprio in modo esplicito – la sua relazione con il Creatore.

Vediamo che nel nostro mondo ricco occidentale c’è carenza: Tante persone sono carenti dell’esperienza della bontà di Dio. Non trovano alcun punto di contatto con le Chiese istituzionali e le loro strutture tradizionali. Ma perché? Penso che questa sia una domanda sulla quale dobbiamo riflettere molto seriamente. Occuparsi di questa domanda è il compito principale del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione. Ma essa, ovviamente, riguarda tutti noi. Permettetemi di affrontare qui un punto della situazione specifica tedesca. In Germania la Chiesa è organizzata in modo ottimo. Ma, dietro le strutture, vi si trova anche la relativa forza spirituale, la forza della fede nel Dio vivente? Sinceramente dobbiamo però dire che c’è un’eccedenza delle strutture rispetto allo Spirito. Aggiungo: La vera crisi della Chiesa nel mondo occidentale è una crisi di fede. Se non arriveremo ad un vero rinnovamento nella fede, tutta la riforma strutturale resterà inefficace.

Ma torniamo alle persone alle quali manca l’esperienza della bontà di Dio. Hanno bisogno di luoghi, dove possano parlare della loro nostalgia interiore. E qui siamo chiamati a cercare nuove vie dell’evangelizzazione. Una di queste vie potrebbe essere costituita dalle piccole comunità, dove si vivono amicizie, che sono approfondite nella frequente adorazione comunitaria di Dio. Qui ci sono persone che raccontano le loro piccole esperienze di fede nel posto di lavoro e nell’ambito della famiglia e dei conoscenti, testimoniando, in tal modo, una nuova vicinanza della Chiesa alla società. A quelle persone appare poi in modo sempre più chiaro che tutti hanno bisogno di questo cibo dell’amore, dell’amicizia concreta l’uno con l’altro e con il Signore. Resta importane il collegamento con la linfa vitale dell’Eucaristia, perché senza Cristo non possiamo far nulla (cfr Gv 15,5).

Cari fratelli e sorelle, che il Signore ci indichi sempre la via per essere insieme luci nel mondo e per mostrare al nostro prossimo la via verso la sorgente, dove possono soddisfare il loro più profondo desiderio di vita Vi ringrazio.

14. VEGLIA DI PREGHIERA CON I GIOVANI ALLA FIERA DI FREIBURG IM BREISGAU

Fiera di Freiburg im Breisgau, Sabato, 24 settembre 2011

Cari giovani amici!

Durante tutto il giorno ho pensato con gioia a questa serata in cui sarei potuto stare qui insieme con voi ed essere unito a voi nella preghiera. Alcuni forse saranno già stati presenti alla Giornata Mondiale della Gioventù, dove abbiamo potuto sperimentare la particolare atmosfera di tranquillità, di profonda comunione e di intima gioia che caratterizza una veglia serale di preghiera. Auguro che anche noi tutti possiamo fare tale esperienza in questo momento: che il Signore ci tocca e ci fa testimoni gioiosi, che pregano insieme e si fanno garanti gli uni per gli altri, non soltanto stasera, ma durante tutta la nostra vita.

In tutte le chiese, nelle cattedrali e nei conventi, dovunque si radunano i fedeli per la celebrazione della Veglia pasquale, la più santa di tutte le notti è inaugurata con l’accensione del cero pasquale, la cui luce viene poi trasmessa a tutti i presenti. Una minuscola fiamma irradia in tanti luci ed illumina la casa di Dio al buio. In tale meraviglioso rito liturgico, che abbiamo imitato in questa veglia di preghiera, si svela a noi, attraverso segni più eloquenti delle parole, il mistero della nostra fede cristiana. Lui, Cristo, che dice di se stesso: “Io sono la luce del mondo” (Gv 8,12), fa brillare la nostra vita, perché sia vero ciò che abbiamo appena ascoltato nel Vangelo: “Voi siete la luce del mondo” (Mt 5,14). Non sono i nostri sforzi umani o il progresso tecnico del nostro tempo a portare luce in questo mondo. Sempre di nuovo facciamo l’esperienza che il nostro impegno per un ordine migliore e più giusto incontra i suoi limiti. La sofferenza degli innocenti e, infine, la morte di ogni uomo costituiscono un buio impenetrabile che può forse essere rischiarato per un momento da nuove esperienze, come da un fulmine nella notte. Alla fine, però, rimane un’oscurità angosciante.

Intorno a noi può esserci il buio e l’oscurità, e tuttavia vediamo una luce: una piccola fiamma, minuscola, che è più forte del buio apparentemente tanto potente ed insuperabile. Cristo, che è risorto dai morti, brilla in questo mondo, e lo fa nel modo più chiaro proprio là dove secondo il giudizio umano tutto sembra cupo e privo di speranza. Egli ha vinto la morte – Egli vive – e la fede in Lui penetra come una piccola luce tutto ciò che è buio e minaccioso. Chi crede in Gesù, certamente non vede sempre soltanto il sole nella vita, quasi che gli possano essere risparmiate sofferenze e difficoltà, ma c’è sempre una luce chiara che gli indica una via, la via che conduce alla vita in abbondanza (cfr Gv 10,10). Gli occhi di chi crede in Cristo scorgono anche nella notte più buia una luce e vedono già il chiarore di un nuovo giorno.

La luce non rimane sola. Tutt’intorno si accendono altre luci. Sotto i loro raggi si delineano i contorni dell’ambiente così che ci si può orientare. Non viviamo da soli nel mondo. Proprio nelle cose importanti della vita abbiamo bisogno di altre persone. Così, in modo particolare, nella fede non siamo soli, siamo anelli della grande catena dei credenti. Nessuno arriva a credere se non è sostenuto dalla fede degli altri e, d’altra parte, con la mia fede contribuisco a confermare gli altri nella loro fede. Ci aiutiamo a vicenda ad essere esempi gli uni per gli altri, condividiamo con gli altri ciò che è nostro, i nostri pensieri, le nostre azioni, il nostro affetto. E ci aiutiamo a vicenda ad orientarci, ad individuare il nostro posto nella società.

Cari amici, “Io sono la luce del mondo – Voi siete la luce del mondo”, dice il Signore. È una cosa misteriosa e grandiosa che Gesù dica di se stesso e di ciascuno di noi la medesima cosa, e cioè di “essere luce”. Se crediamo che Egli è il Figlio di Dio che ha guarito i malati e risuscitato i morti, anzi, che Egli stesso è risorto dal sepolcro e vive veramente, allora capiamo che Egli è la luce, la fonte di tutte le luci di questo mondo. Noi invece sperimentiamo sempre di nuovo il fallimento dei nostri sforzi e l’errore personale nonostante le nostre buone intenzioni. A quanto appare il mondo in cui viviamo, nonostante il progresso tecnico, in ultima analisi non diventa più buono. Esistono tuttora guerre, terrore, fame e malattia, povertà estrema e repressione senza pietà. E anche quelli che nella storia si sono ritenuti “portatori di luce”, senza però essere stati illuminati da Cristo, l’unica vera luce, non hanno creato alcun paradiso terrestre, bensì hanno instaurato dittature e sistemi totalitari, in cui anche la più piccola scintilla di umanesimo è stata soffocata.

A questo punto non dobbiamo tacere il fatto che il male esiste. Lo vediamo, in tanti luoghi di questo mondo; ma lo vediamo anche – e questo ci spaventa – nella nostra stessa vita. Sì, nel nostro stesso cuore esistono l’inclinazione al male, l’egoismo, l’invidia, l’aggressività. Con una certa autodisciplina ciò forse è, in qualche misura, controllabile. E’ più difficile, invece, con forme di male piuttosto nascosto, che possono avvolgerci come una nebbia indistinta, e sono la pigrizia, la lentezza nel volere e nel fare il bene. Ripetutamente nella storia, persone attente hanno fatto notare che il danno per la Chiesa non viene dai suoi avversari, ma dai cristiani tiepidi. Come può allora Cristo dire che i cristiani – e con ciò forse anche quei cristiani deboli – sono la luce del mondo? Forse capiremmo se Egli gridasse: Convertitevi! Siate la luce del mondo! Cambiate la vostra vita, rendetela chiara e splendente! Non dobbiamo forse restare stupiti che il Signore non ci rivolga un appello, ma dica che siamo la luce del mondo, che siamo luminosi, che splendiamo nel buio?

Cari amici, l’apostolo san Paolo, in molte delle sue lettere, non teme di chiamare “santi” i suoi contemporanei, i membri delle comunità locali. Qui si rende evidente che ogni battezzato – ancor prima di poter compiere opere buone – è santificato da Dio. Nel Battesimo, il Signore accende, per così dire, una luce nella nostra vita, una luce che il catechismo chiama la grazia santificante. Chi conserva tale luce, chi vive nella grazia è santo.

Cari amici, ripetutamente l’immagine dei santi è stata sottoposta a caricatura e presentata in modo distorto, come se essere santi significasse essere fuori dalla realtà, ingenui e senza gioia. Non di rado si pensa che un santo sia soltanto colui che compie azioni ascetiche e morali di altissimo livello e che perciò certamente si può venerare, ma mai imitare nella propria vita. Quanto è errata e scoraggiante questa opinione! Non esiste alcun santo, fuorché la beata Vergine Maria, che non abbia conosciuto anche il peccato e che non sia mai caduto. Cari amici, Cristo non si interessa tanto a quante volte nella vita vacilliamo e cadiamo, bensì a quante volte noi, con il suo aiuto, ci rialziamo. Non esige azioni straordinarie, ma vuole che la sua luce splenda in voi. Non vi chiama perché siete buoni e perfetti, ma perché Egli è buono e vuole rendervi suoi amici. Sì, voi siete la luce del mondo, perché Gesù è la vostra luce. Voi siete cristiani – non perché realizzate cose particolari e straordinarie – bensì perché Egli, Cristo, è la vostra, nostra vita. Voi siete santi, noi siamo santi, se lasciamo operare la sua Grazia in noi.

Cari amici, questa sera, in cui ci raduniamo in preghiera attorno all’unico Signore, intuiamo la verità della parola di Cristo secondo la quale non può restare nascosta una città collocata sopra un monte. Questa assemblea brilla nei vari significati della parola – nel chiarore di innumerevoli lumi, nello splendore di tanti giovani che credono in Cristo. Una candela può dar luce soltanto se si lascia consumare dalla fiamma. Essa resterebbe inutile se la sua cera non nutrisse il fuoco. Permettete che Cristo arda in voi, anche se questo può a volte significare sacrificio e rinuncia. Non temete di poter perdere qualcosa e restare, per così dire, alla fine a mani vuote. Abbiate il coraggio di impegnare i vostri talenti e le vostre doti per il Regno di Dio e di donare voi stessi – come la cera della candela – affinché per vostro mezzo il Signore illumini il buio. Sappiate osare di essere santi ardenti, nei cui occhi e cuori brilla l’amore di Cristo e che, in questo modo, portano luce al mondo. Io confido che voi e tanti altri giovani qui in Germania siate fiaccole di speranza, che non restano nascoste. “Voi siete la luce del mondo”. “Dove c’è Dio, là c’è futuro!” Amen.

15. SANTA MESSA ALL’AEROPORTO DI FREIBURG IM BREISGAU

Aeroporto turistico di Freiburg im Breisgau, Domenica, 25 settembre 2011

Cari fratelli e sorelle!

Per me è emozionante celebrare qui l’Eucaristia, il Ringraziamento, con tanta gente proveniente da diverse parti della Germania e dai Paesi confinanti. Vogliamo rivolgere il nostro ringraziamento soprattutto a Dio, nel quale viviamo, ci muoviamo ed esistiamo (cfr At 17,28). Ma vorrei ringraziare anche voi tutti per la vostra preghiera a favore del Successore di Pietro, affinché egli possa continuare a svolgere il suo ministero con gioia e fiduciosa speranza e confermare i fratelli nella fede.

“O Dio, che riveli la tua onnipotenza soprattutto con la misericordia e il perdono…”, abbiamo detto nella colletta del giorno. Nella prima lettura abbiamo ascoltato come Dio nella storia di Israele ha manifestato il potere della sua misericordia. L’esperienza dell’esilio babilonese aveva fatto cadere il popolo in una profonda crisi di fede: perché era sopravvenuta questa sciagura? Forse Dio non era veramente potente?

Ci sono teologi che, di fronte a tutte le cose terribili che avvengono oggi nel mondo, dicono che Dio non possa essere affatto onnipotente. Di fronte a questo, noi professiamo Dio, l’Onnipotente, il Creatore del cielo e della terra. E noi siamo lieti e riconoscenti che Egli sia onnipotente. Ma dobbiamo, al contempo, renderci conto che Egli esercita il suo potere in maniera diversa da come noi uomini siamo soliti fare. Egli stesso ha posto un limite al suo potere, riconoscendo la libertà delle sue creature. Noi siamo lieti e riconoscenti per il dono della libertà. Tuttavia, quando vediamo le cose tremende, che a causa di essa avvengono, ci spaventiamo. Fidiamoci di Dio, il cui potere si manifesta soprattutto nella misericordia e nel perdono. E siamo certi, cari fedeli: Dio desidera la salvezza del suo popolo. Desidera la nostra salvezza, la mia salvezza, la salvezza di ciascuno. Sempre, e soprattutto in tempi di pericolo e di cambiamento radicale, Egli ci è vicino e il suo cuore si commuove per noi, si china su di noi. Affinché il potere della sua misericordia possa toccare i nostri cuori, ci vuole l’apertura a Lui, ci vuole la libera disponibilità di abbandonare il male, di alzarsi dall’indifferenza e di dare spazio alla sua Parola. Dio rispetta la nostra libertà. Egli non ci costringe. Egli attende il nostro “sì” e lo mendica, per così dire.

Gesù nel Vangelo riprende questo tema fondamentale della predicazione profetica. Racconta la parabola dei due figli che sono invitati dal padre a lavorare nella vigna. Il primo figlio rispose: “«Non ne ho voglia»; ma poi, pentitosi, ci andò” (Mt 21,29). L’altro, invece, disse al padre: “«Sì, signore», ma non andò” (Mt 21,30). Alla domanda di Gesù, chi dei due abbia compiuto la volontà del padre, gli ascoltatori giustamente rispondono: “Il primo” (Mt 21,31). Il messaggio della parabola è chiaro: non contano le parole, ma l’agire, le azioni di conversione e di fede. Gesù – lo abbiamo sentito – rivolge questo messaggio ai sommi sacerdoti e agli anziani del popolo di Israele, cioè agli esperti di religione del suo popolo. Essi, prima, dicono “sì” alla volontà di Dio. Ma la loro religiosità diventa routine, e Dio non li inquieta più. Per questo avvertono il messaggio di Giovanni Battista e il messaggio di Gesù come un disturbo. Così, il Signore conclude la sua parabola con parole drastiche: “I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli” (Mt 21,31-32). Tradotta nel linguaggio del tempo, l’affermazione potrebbe suonare più o meno così: agnostici, che a motivo della questione su Dio non trovano pace; persone che soffrono a causa dei loro peccati e hanno desiderio di un cuore puro, sono più vicini al Regno di Dio di quanto lo siano  i fedeli “di routine”, che nella Chiesa vedono ormai soltanto l’apparato, senza che il loro cuore sia toccato da questo, dalla fede.

Così, la parola deve far riflettere molto, anzi, deve scuotere tutti noi. Questo, però, non significa affatto che tutti coloro che vivono nella Chiesa e lavorano per essa siano da valutare come lontani da Gesù e dal Regno di Dio. Assolutamente no! No, piuttosto è questo il momento per dire una parola di profonda gratitudine ai tanti collaboratori impiegati e volontari, senza i quali la vita nelle parrocchie e nell’intera Chiesa sarebbe impensabile. La Chiesa in Germania ha molte istituzioni sociali e caritative, nelle quali l’amore per il prossimo viene esercitato in una forma anche socialmente efficace e fino ai confini della terra. A tutti coloro che si impegnano nella Caritas tedesca o in altre organizzazioni, oppure che mettono generosamente a disposizione il loro tempo e le loro forze per incarichi di volontariato nella Chiesa, vorrei esprimere, in questo momento,  la mia gratitudine e il mio apprezzamento. Tale servizio richiede innanzitutto una competenza oggettiva e professionale. Ma nello spirito dell’insegnamento di Gesù ci vuole di più: il cuore aperto, che si lascia toccare dall’amore di Cristo, e così dà al prossimo, che ha bisogno di noi, più che un servizio tecnico: l’amore, in cui all’altro si rende visibile il Dio che ama, Cristo. Allora interroghiamoci, anche a partire dal Vangelo di oggi: come è il mio rapporto personale con Dio, nella preghiera, nella partecipazione alla Messa domenicale, nell’approfondimento della fede mediante la meditazione della Sacra Scrittura e lo studio del Catechismo della Chiesa Cattolica? Cari amici, il rinnovamento della Chiesa, in ultima analisi, può realizzarsi soltanto attraverso la disponibilità alla conversione e attraverso una fede rinnovata.

Nel Vangelo di questa Domenica – lo abbiamo visto – si parla di due figli, dietro i quali, però, ne sta, in modo misterioso, un terzo. Il primo figlio dice di sì, ma non fa ciò che gli è stato ordinato. Il secondo figlio dice di no, ma compie poi la volontà del padre. Il terzo figlio dice di “sì” e fa anche ciò che gli viene ordinato. Questo terzo figlio è il Figlio unigenito di Dio, Gesù Cristo, che ci ha tutti riuniti qui. Gesù, entrando nel mondo, ha detto: “Ecco, io vengo […] per fare, o Dio, la tua volontà” (Eb 10,7). Questo “sì”, Egli non l’ha solo pronunciato, ma l’ha compiuto e sofferto fin dentro la morte. Nell’inno cristologico della seconda lettura si dice: “Egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce” (Fil 2, 6-8). In umiltà ed obbedienza, Gesù ha compiuto la volontà del Padre, è morto sulla croce per i suoi fratelli e le sue sorelle  - per noi – e ci ha redenti dalla nostra superbia e caparbietà. Ringraziamolo per il suo sacrificio, pieghiamo le ginocchia davanti al suo Nome e proclamiamo insieme con i discepoli della prima generazione: “Gesù Cristo è il Signore – a gloria di Dio Padre” (Fil 2,10).

La vita cristiana deve misurarsi continuamente su Cristo: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” (Fil 2,5), scrive san Paolo nell’introduzione all’inno cristologico. E qualche versetto prima, egli già ci esorta: “Se dunque c’è qualche consolazione in Cristo, se c’è qualche conforto, frutto della carità, se c’è qualche comunione di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, rendete piena la mia gioia con un medesimo sentire e con la stessa carità, rimanendo unanimi e concordi” (Fil 2,1-2). Come Cristo era totalmente unito al Padre ed obbediente a Lui, così i suoi discepoli devono obbedire a Dio ed avere un medesimo sentire tra loro. Cari amici, con Paolo oso esortarvi: rendete piena la mia gioia con l’essere saldamente uniti in Cristo! La Chiesa in Germania supererà le grandi sfide del presente e del futuro e rimarrà lievito nella società, se i sacerdoti, le persone consacrate e i laici credenti in Cristo, in fedeltà alla propria vocazione specifica, collaborano in unità; se le parrocchie, le comunità e i movimenti si sostengono e si arricchiscono a vicenda; se i battezzati e cresimati, in unione con il Vescovo, tengono alta la fiaccola di una fede inalterata e da essa lasciano illuminare le loro ricche conoscenze e capacità. La Chiesa in Germania continuerà ad essere una benedizione per la comunità cattolica mondiale, se rimane fedelmente unita con i Successori di san Pietro e degli Apostoli, se cura in molteplici modi la collaborazione con i Paesi di missione e si lascia anche “contagiare” in questo dalla gioia nella fede delle giovani Chiese.

Con l’esortazione all’unità, Paolo collega il richiamo all’umiltà. Egli dice: “Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi,  con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri” (Fil 2,3-4). L’esistenza cristiana è una pro-esistenza: un esserci per l’altro, un impegno umile per il prossimo e per il bene comune. Cari fedeli, l’umiltà è una virtù che nel mondo di oggi e, in genere, di tutti i tempi, non gode di grande stima. Ma i discepoli del Signore sanno che questa virtù è, per così dire, l’olio che rende fecondi i processi di dialogo, possibile la collaborazione e cordiale l’unità. Humilitas, la parola latina per “umiltà”, ha a che fare con humus, cioè con l’aderenza alla terra, alla realtà. Le persone umili stanno con ambedue i piedi sulla terra. Ma soprattutto ascoltano Cristo, la Parola di Dio, la quale rinnova ininterrottamente la Chiesa ed ogni suo membro.

Chiediamo a Dio il coraggio e l’umiltà di camminare sulla via della fede, di attingere alla ricchezza della sua misericordia e di tenere fisso lo sguardo su Cristo, la Parola che fa nuove tutte le cose, che per noi è “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6), che è il nostro futuro. Amen.

16. ANGELUS ALL’AEROPORTO DI FREIBURG IM BREISGAU

Aeroporto turistico di Freiburg im Breisgau, Domenica, 25 settembre 2011

Cari fratelli e sorelle,

vogliamo concludere ora questa solenne Santa Messa con l’Angelus. Questa preghiera ci fa ricordare sempre di nuovo l’inizio storico della nostra salvezza. L’Arcangelo Gabriele presenta alla Vergine Maria il piano di salvezza di Dio, secondo il quale Ella avrebbe dovuto diventare la Madre del Redentore. Maria rimane turbata. Ma l’Angelo del Signore Le dice una parola di consolazione: “Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio.” Così Maria può dire il suo grande “sì”. Questo “sì” all’essere serva del Signore è l’affermazione fiduciosa al piano di Dio e alla nostra salvezza. E, infine, Maria dice questo “sì” a tutti noi, che sotto la croce le siamo stati affidati come figli (cfr Gv 19,27). Non revoca mai questa promessa. Ed è per questo che Ella deve essere chiamata felice, anzi, beata perché ha creduto nel compimento di ciò che Le era stato detto dal Signore (cfr Lc 1,45). Recitando ora questo saluto dell’Angelo, possiamo unirci a questo “sì” di Maria e aderire fiduciosamente alla bellezza del piano di Dio e della provvidenza che Egli, nella sua grazia, ha riservato per noi. Allora, anche nella nostra vita l’amore di Dio diventerà, per così dire, carne, prenderà sempre più forma. Non dobbiamo avere paura in mezzo a tutte le nostre preoccupazioni. Dio è buono. Allo stesso tempo, possiamo sentirci sostenuti dalla comunità dei tanti fedeli che in quest’ora pregano l’Angelus con noi, in tutto il mondo, attraverso la televisione e la radio.

17. INCONTRO CON CATTOLICI IMPEGNATI NELLA CHIESA E NELLA SOCIETÀ

Konzerthaus di Freiburg im Breisgau, Domenica, 25 settembre 2011

llustre Signor Presidente federale, Signor Presidente dei Ministri, Signor Sindaco, Illustri Signori e Signore, Cari Confratelli nel ministero episcopale e sacerdotale!

Sono contento di questo incontro con voi, che siete impegnati in molteplici modi per la Chiesa e la società. Questo mi offre un’occasione gradita di ringraziarvi qui personalmente con tutto il cuore per il vostro servizio e la vostra testimonianza quali “efficaci araldi della fede nelle cose sperate” (Lumen gentium, 35), come il Concilio Vaticano II definisce le persone che, in base alla fede, si preoccupano come voi del presente e del futuro. Nel vostro ambiente di lavoro difendete volentieri la causa della vostra fede e della Chiesa, cosa – come sappiamo – davvero non sempre facile nel tempo attuale.

Da decenni assistiamo ad una diminuzione della pratica religiosa, constatiamo un crescente distanziarsi di una parte notevole di battezzati dalla vita della Chiesa. Emerge la domanda: la Chiesa non deve forse cambiare? Non deve forse, nei suoi uffici e nelle sue strutture, adattarsi al tempo presente, per raggiungere le persone di oggi che sono alla ricerca e in dubbio?

Alla beata Madre Teresa fu richiesto una volta di dire quale fosse, secondo lei, la prima cosa da cambiare nella Chiesa. La sua risposta fu: Lei ed io!

Questo piccolo episodio ci rende evidenti due cose: da un lato, la religiosa intende dire all’interlocutore che la Chiesa non sono soltanto gli altri, non soltanto la gerarchia, il Papa e i Vescovi: Chiesa siamo tutti noi, i battezzati. Dall’altro lato, essa parte effettivamente dal presupposto: sì, c’è motivo per un cambiamento. Esiste un bisogno di cambiamento. Ogni cristiano e la comunità dei credenti nel suo insieme sono chiamati ad una continua conversione.

Come deve configurarsi concretamente questo cambiamento? Si tratta forse di un rinnovamento come lo realizza ad esempio un proprietario di casa attraverso una ristrutturazione o la tinteggiatura del suo stabile? Oppure si tratta qui di una correzione, per riprendere la rotta e percorrere in modo più spedito e diretto un cammino? Certamente, questi ed altri aspetti hanno importanza, e qui non possiamo affrontarli tutti. Ma per quanto riguarda il motivo fondamentale del cambiamento: esso è la missione apostolica dei discepoli e della Chiesa stessa.

Infatti, la Chiesa deve sempre di nuovo verificare la sua fedeltà a questa missione. I tre Vangeli sinottici mettono in luce diversi aspetti del mandato di tale missione: la missione si basa anzitutto  sull’esperienza personale: “Voi siete testimoni” (Lc 24,48); si esprime in relazioni: “Fate discepoli tutti i popoli” (Mt 28,19); trasmette un messaggio universale: “Proclamate il Vangelo a ogni creatura” (Mc 16,15). A causa delle pretese e dei condizionamenti del mondo, però, questa testimonianza viene ripetutamente offuscata, vengono alienate le relazioni e viene relativizzato il messaggio. Se poi la Chiesa, come dice Papa Paolo VI, “cerca di modellare se stessa secondo il tipo che Cristo le propone, avviene che la Chiesa si distingue profondamente dall’ambiente umano, in cui essa pur vive, o a cui essa si avvicina” (Lettera enciclica Ecclesiam suam, 60). Per compiere la sua missione, essa dovrà anche continuamente prendere le distanze dal suo ambiente, dovrà, per così dire, essere distaccata dal mondo.

La missione della Chiesa, infatti, deriva dal mistero del Dio uno e trino, dal mistero del suo amore creatore. E l’amore non è soltanto presente in qualche modo in Dio: Egli stesso lo è,  è per sua natura amore. E l’amore di Dio non vuole essere isolato in sé, ma secondo la sua natura vuole diffondersi. Nell’incarnazione e nel sacrificio del Figlio di Dio, esso ha raggiunto l’umanità – cioè noi – in modo particolare, e questo attraverso il fatto che Cristo, il Figlio di Dio è, per così dire, uscito dalla sfera del suo essere Dio, si è fatto carne ed è diventato uomo; non soltanto per confermare il mondo nel suo essere terreno, ed essere il suo compagno che lo lascia così come è, ma per trasformarlo. Dell’evento cristologico fa parte il dato incomprensibile che – come dicono i Padri della Chiesa – esiste un sacrum commercium, uno scambio tra Dio e gli uomini. I Padri lo spiegano così: noi non abbiamo nulla che potremmo dare a Dio, possiamo solo metterGli davanti il nostro peccato. Ed egli lo accoglie, lo assume come proprio, e in cambio ci dà se stesso e la sua gloria. Si tratta di uno scambio davvero disuguale che si compie nella vita e nella passione di Cristo. Egli si fa peccatore, prende il peccato su di sé, assume ciò che è nostro e ci dà ciò che è suo. Ma nello sviluppo del pensiero e della vita alla luce della fede, in seguito, si è reso evidente che non Gli diamo solo il peccato, bensì Egli ci ha dato la facoltà: dall’intimo ci dona la forza di darGli anche qualcosa di positivo, il nostro amore, di dargli l’umanità in senso positivo. Naturalmente è chiaro che solo grazie alla generosità di Dio, l’uomo, il mendicante che riceve la ricchezza divina, tuttavia, può anche dare qualcosa a Dio; Dio ci rende sopportabile il dono, rendendoci capaci di diventare donatori nei suoi confronti.

La Chiesa deve se stessa totalmente a questo scambio disuguale. Non possiede niente da sé stessa di fronte a Colui che l’ha fondata, in modo da poter dire: l’abbiamo fatto molto bene! Il suo senso consiste nell’essere strumento della redenzione, nel lasciarsi pervadere dalla parola di Dio e nell’introdurre il mondo nell’unione d’amore con Dio. La Chiesa s’immerge nell’attenzione condiscendente del Redentore verso gli uomini. Quando è davvero se stessa, essa è sempre in movimento, deve continuamente mettersi al servizio della missione, che ha ricevuto dal Signore. E per questo deve sempre di nuovo aprirsi alle preoccupazioni del mondo, del quale, appunto, essa stessa fa parte, dedicarsi senza riserve tali preoccupazioni, per continuare e rendere presente lo scambio sacro che ha preso inizio con l’Incarnazione.

Nello sviluppo storico della Chiesa si manifesta, però, anche una tendenza contraria: quella cioè di una Chiesa soddisfatta di se stessa, che si accomoda in questo mondo, è autosufficiente e si adatta ai criteri del mondo. Non di rado dà così all’organizzazione e all’istituzionalizzazione un’importanza maggiore che non alla sua chiamata all’essere aperta verso Dio e ad un aprire il mondo verso il prossimo.

Per corrispondere al suo vero compito, la Chiesa deve sempre di nuovo fare lo sforzo di distaccarsi da questa sua secolarizzazione e diventare nuovamente aperta verso Dio. Con ciò essa segue le parole di Gesù: “Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo” (Gv 17,16), ed è proprio così che Lui si dona al mondo. In un certo senso, la storia viene in aiuto alla Chiesa attraverso le diverse epoche di secolarizzazione, che hanno contribuito in modo essenziale alla sua purificazione e riforma interiore.

Le secolarizzazioni infatti – fossero esse l’espropriazione di beni della Chiesa o la cancellazione di privilegi o cose simili – significarono ogni volta una profonda liberazione della Chiesa da forme di mondanità: essa si spoglia, per così dire, della sua ricchezza terrena e torna ad abbracciare pienamente la sua povertà terrena. Con ciò condivide il destino della tribù di Levi che, secondo l’affermazione dell’Antico Testamento, era la sola tribù in Israele che non possedeva un patrimonio terreno, ma, come parte di eredità, aveva preso in sorte esclusivamente Dio stesso, la sua parola e i suoi segni. Con tale tribù, la Chiesa condivideva in quei momenti storici l’esigenza di una povertà che si apriva verso il mondo, per distaccarsi dai suoi legami materiali, e così anche il suo agire missionario tornava ad essere credibile.

Gli esempi storici mostrano che la testimonianza missionaria di una Chiesa distaccata dal mondo emerge in modo più chiaro. Liberata dai fardelli e dai privilegi materiali e politici, la Chiesa può dedicarsi meglio e in modo veramente cristiano al mondo intero, può essere veramente aperta al mondo. Può nuovamente vivere con più scioltezza la sua chiamata al ministero dell’adorazione di Dio e al servizio del prossimo. Il compito missionario, che è legato all’adorazione cristiana e dovrebbe determinare la struttura della Chiesa, si rende visibile in modo più chiaro. La Chiesa si apre al mondo, non per ottenere l’adesione degli uomini per un’istituzione con le proprie pretese di potere, bensì per farli rientrare in se stessi e così condurli a Colui del quale ogni persona può dire con Agostino: Egli è più intimo a me di me stesso (cfr Conf. 3,6,11). Egli, che è infinitamente al di sopra di me, è tuttavia talmente in me stesso da essere la mia vera interiorità. Mediante questo stile di apertura della Chiesa verso il mondo è, insieme, tracciata anche la forma in cui l’apertura al mondo da parte del singolo cristiano può realizzarsi in modo efficace e adeguato.

Non si tratta qui di trovare una nuova tattica per rilanciare la Chiesa. Si tratta piuttosto di deporre tutto ciò che è soltanto tattica e di cercare la piena sincerità, che non trascura né reprime alcunché della verità del nostro oggi, ma realizza la fede pienamente nell’oggi vivendola, appunto, totalmente nella sobrietà dell’oggi, portandola alla sua piena identità, togliendo da essa ciò che solo apparentemente è fede, ma in verità è convenzione ed abitudine.

Diciamolo ancora con altre parole: la fede cristiana è per l’uomo uno scandalo sempre e non soltanto nel nostro tempo. Che il Dio eterno si preoccupi di noi esseri umani, ci conosca; che l’Inafferrabile sia diventato in un determinato momento in un determinato luogo, afferrabile; che l’Immortale abbia patito e sia morto sulla croce; che a noi esseri mortali siano promesse la risurrezione e la vita eterna – credere questo è per gli uomini senz’altro una vera pretesa.

Questo scandalo, che non può essere abolito se non si vuole abolire il cristianesimo, purtroppo, è stato messo in ombra proprio recentemente dagli altri scandali dolorosi degli annunciatori della fede. Si crea una situazione pericolosa, quando questi scandali prendono il posto dello skandalon primario della Croce e così lo rendono inaccessibile, quando cioè nascondono la vera esigenza cristiana dietro l’inadeguatezza dei suoi messaggeri.

Vi è una ragione in più per ritenere che sia nuovamente l’ora di trovare il vero distacco del mondo, di togliere coraggiosamente ciò che vi è di mondano nella Chiesa. Questo, naturalmente, non vuol dire ritirarsi dal mondo, anzi, il contrario. Una Chiesa alleggerita degli elementi mondani è capace di comunicare agli uomini – ai sofferenti come a coloro che li aiutano – proprio anche nell’ambito sociale-caritativo, la particolare forza vitale della fede cristiana. “La carità non è per la Chiesa una specie di attività di assistenza sociale che si potrebbe anche lasciare ad altri, ma appartiene alla sua natura, è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza” (Lettera enciclica Deus caritas est, 25). Certamente, anche le opere caritative della Chiesa devono continuamente prestare attenzione all’esigenza di un adeguato distacco dal mondo per evitare che, di fronte  ad un crescente allontanamento dalla Chiesa, le loro radici si secchino. Solo il profondo rapporto con Dio rende possibile una piena attenzione all’uomo, così come senza l’attenzione al prossimo s’impoverisce il rapporto con Dio.

Essere aperti alle vicende del mondo significa quindi per la Chiesa distaccata dal mondo testimoniare, secondo il Vangelo, con parole ed opere qui ed oggi la signoria dell’amore di Dio. E questo compito, inoltre, rimanda al di là del mondo presente: la vita presente, infatti, include il legame con la vita eterna. Viviamo come singoli e come comunità della Chiesa la semplicità di un grande amore che, nel mondo, è insieme la cosa più facile e più difficile, perché esige nulla di più e nulla di meno che il donare se stessi.

Cari amici, mi resta di implorare per tutti noi la benedizione di Dio e la forza dello Spirito Santo, affinché possiamo, ciascuno nel proprio campo d’azione, sempre nuovamente riconoscere e testimoniare l’amore di Dio e la sua misericordia. Vi ringrazio per la vostra attenzione.

18. CERIMONIA DI CONGEDO

Aeroporto di Lahr, Domenica, 25 settembre 2011

Illustre e caro Signor Presidente Federale, Distinti Rappresentanti del Governo Federale,       del Land Baden Württemberg e dei Comuni, Cari Confratelli nell’Episcopato, Gentili Signore e Signori!

Prima di lasciare la Germania, mi preme ringraziare per i giorni trascorsi, così commoventi e ricchi di avvenimenti, nella nostra patria.

La mia gratitudine va a Lei, Signor Presidente Federale Wulff, che, a Berlino, mi ha accolto in nome del popolo tedesco ed ora, al momento del congedo, mi ha onorato di nuovo con le sue cortesi parole. Ringrazio i Rappresentanti del Governo Federale e dei Governi dei Länder che sono venuti alla cerimonia di congedo. Un grazie di cuore all’Arcivescovo di Friburgo Mons. Zollitsch, che mi ha accompagnato durante tutto il viaggio. Volentieri estendo i miei ringraziamenti anche all’Arcivescovo di Berlino Mons. Woelki, e al Vescovo di Erfurt Mons. Wanke, che mi hanno altrettanto mostrato la loro ospitalità, nonché all’intero Episcopato tedesco. Infine, rivolgo un ringraziamento particolare a quanti hanno preparato, dietro le quinte, questi quattro giorni, assicurando il loro svolgimento, senza intoppi: alle istituzioni comunali, alle forze dell’ordine, ai servizi sanitari, ai responsabili dei trasporti pubblici nonché ai numerosi volontari. Ringrazio tutti per queste splendide giornate, per i tanti incontri personali e per gli innumerevoli segni di attenzione e di affetto mostratimi.

Nella capitale federale Berlino ho avuto l’occasione particolare di parlare davanti ai parlamentari al Deutscher Bundestag ed esporre loro alcune riflessioni sui fondamenti intellettuali dello stato di diritto. Volentieri ripenso anche ai colloqui fruttuosi con il Presidente Federale e la Signora Cancelliere sulla situazione attuale del popolo tedesco e della comunità internazionale. Mi ha particolarmente toccato l’accoglienza cordiale e l’entusiasmo di così tante persone a Berlino.

Nel Paese della Riforma, l’ecumene ha costituto naturalmente uno dei punti centrali del viaggio. Qui vorrei rilevare l’incontro con i rappresentanti della “Chiesa Evangelica in Germania” nel già Convento agostiniano a Erfurt. Sono profondamente grato per lo scambio fraterno e la preghiera comune. Molto particolare è stato anche l’incontro con i cristiani ortodossi e ortodossi orientali, come pure con gli ebreie i musulmani.

Ovviamente, questa visita era rivolta in particolare ai cattolici Berlino, a Erfurt, nell’Eichsfeld e a Friburgo. Ricordo con piacere le celebrazioni liturgiche comuni, la gioia, l’ascoltare insieme la Parola di Dio e il pregare  e il cantare uniti – soprattutto anche nelle parti del Paese in cui si è tentato per decenni di rimuovere la religione dalla vita delle persone. Questo mi rende fiducioso per il futuro della Chiesa in Germania e del cristianesimo in Germania. Come già durante le visite precedenti, si è potuto sperimentare quante persone qui testimoniano la propria fede e rendono presente la sua forza trasformante nel mondo di oggi.

Non da ultimo, sono stato molto lieto, dopo l’impressionante Giornata Mondiale della Gioventù a Madrid, di stare anche a Friburgo, di nuovo insieme con tanti giovani, ieri, alla veglia della gioventù. Desidero incoraggiare la Chiesa in Germania a proseguire con forza e fiducia il cammino della fede, che fa ritornare le persone alle radici, al nucleo essenziale della Buona Novella di Cristo. Ci saranno comunità piccole di credenti – e già esistono – che con il proprio entusiasmo diffondono raggi di luce nella società pluralistica, rendendo altri curiosi di cercare la luce che dà vita in abbondanza. “Non vi è niente di più bello che conoscere Lui e comunicare agli altri l’amicizia con lui” (Omelia per l’inizio solenne del Ministero petrino, 24 aprile 2005). Da questa esperienza cresce infine la certezza: “Dove c’è Dio, là c’è futuro”. Dove Dio è presente, là c’è speranza e là si aprono prospettive nuove e spesso insospettate che vanno oltre l’oggi e le cose effimere. In questo senso accompagno, nei pensieri e nelle preghiere, il cammino della Chiesa in Germania.

Colmo di esperienze e ricordi, fortemente impressi, di questi giorni nella mia patria, ritorno ora a Roma. Con l’assicurazione delle mie preghiere per tutti voi e per un futuro buono per il nostro Paese in pace e libertà, mi congedo con un cordiale “Vergelt’s Gott” [Dio ve ne renda merito]. Dio vi benedica tutti!