Cet Notizie
Cei, la prolusione del card. Bagnasco al Consiglio permanente
Cari Confratelli,
Il dramma del sisma. Ancora una volta, come un’ombra maligna, il terremoto ha falciato centinaia di vite, ha distrutto abitati, ha creato un popolo senza casa, ma non ha piegato la voglia e il coraggio di ricominciare! Grazie alla rete dei nostri Uffici – a partire dalla Caritas – come Presidenza abbiamo potuto intervenire subito con un primo sostegno di un milione dall’8 per mille, e stabilire la colletta nazionale in coincidenza del Congresso Eucaristico della Chiesa Italiana, quasi per rendere visibile che l’Eucaristia celebrata è sorgente di missione e di misericordia. Alle popolazioni colpite del Centro Italia – in particolare alle Diocesi di Rieti e di Ascoli Piceno – guardiamo con la preghiera che alimenta la speranza e la solidarietà. Ai Vescovi di quelle Chiese e al loro Clero, confermiamo il vincolo di fraternità e di ammirazione.
Più forti persino delle immagini dello scempio impietoso, abbiamo davanti agli occhi i volti di tanti – operatori della Protezione Civile, volontari, membri di associazioni – che, con semplicità, danno al Paese una testimonianza, vorremmo dire una lezione, di incomparabile valore. È l’esempio innanzitutto della fierezza di appartenere ad una terra, ad un popolo, ad una storia. Ci danno l’esempio di un modo di vivere alternativo alla cultura diffusa, che tende a svalutare le appartenenze come se fossero sinonimo di chiusura, di condizionamento, di ripiegamento sul passato. Noi Pastori – conoscendo le nostre Parrocchie e, quindi, i paesi, i borghi e le città – sappiamo che non è così: anzi! Sappiamo che appartenere ad una comunità è non essere soli a portare la vita; «appartenere» è un bene da non perdere: essere «legati» gli uni agli altri – in famiglia, nella società civile, nella comunità cristiana – fa crescere la libertà nella verità.
Sui volti delle popolazioni colpite brilla anche la fierezza umile e discreta della fede. La gioia e l’affetto che hanno mostrato nell’accogliere in una tenda l’immagine della Madonna recuperata dalle macerie della chiesa parrocchiale, ha colpito e commosso giovani e anziani. La fede cristiana ispira il modo di vedere noi stessi e gli altri, la felicità e il dolore, la vita e la morte. Ci fa riconoscere l’invisibile che ci circonda, un mondo popolato non da fantasmi o numi da tenersi buoni, ma da Dio che è Amore, che si è mescolato con noi fino a darci il Figlio unigenito; è abitato dalla Vergine Maria, dai santi e dagli angeli, dalle anime di coloro che ci hanno preceduto su questa terra. Essi sono i veri viventi, amici e compagni di strada, che ci abbracciano con tenerezza. Non ci preservano dalle croci, ma ci aiutano a portarle. La forza dello spirito, che la fede alimenta, è più forte del terremoto.
Siamo richiamati all’importanza dei piccoli centri, dove la cultura dei legami, i mestieri antichi e nuovi, le tradizioni umane e religiose costruiscono un tessuto solido e dinamico, come un grembo che genera, sostiene e offre una visione alta della vita. Meritano anche per questo ogni attenzione e cura, perché non si sfaldino nella malinconia del tramonto che una certa visione socio-economica ritiene non solo inevitabile, ma persino auspicabile. I piccoli centri sono una realtà preziosa, luoghi di fede e di umanità: anche chi ha fatto altre scelte rispetto alla fede cristiana, ne resta beneficamente toccato.
La stessa globalizzazione richiede un affronto non fatalista, ma sereno e critico, affinché la persona non venga spersonalizzata in nome di alcun interesse, né particolare né generale. Non è il «girare» il mondo che allarga lo spirito: si può cambiare posto ogni giorno, conoscere ambienti, ma rimanere inconsistenti e meschini; mentre si può vivere tutta la vita in un punto e maturare una profondità interiore che dà visione e pace. A far la differenza è il «come» si vive ogni momento, con quale intensità, con quali valori e prospettive; un «come» – una modalità – che si alimenta di fede nella presenza provvidente di Dio, di Vangelo, sacramenti e carità fraterna; un «come» che si riflette nelle nostre tradizioni, nei riti, nei luoghi, nelle immagini sacre, nelle benedizioni su persone e cose. Tutto quanto, infatti, viene a contatto con noi, si impregna della nostra umanità che vive, spera, lavora.
L’estate della Chiesa. A livello ecclesiale, i mesi trascorsi sono stati densi di avvenimenti. Oltre alle normali attività dei campi estivi, che hanno visto migliaia di ragazzi impegnati in esperienze formative e di servizio insieme ai nostri cari Sacerdoti e a tanti educatori laici, l’estate è stata occasione anche per tempi di ristoro, di preghiera e amicizia, per tante famiglie che ritrovano spazi più distesi per sé, i figli, la comunità. Per tutto vogliamo ringraziare il Signore, che – servendosi anche delle nostre persone – lavora nelle anime perché cresca il mondo nuovo, il Regno del Padre. Questo mondo nuovo, fatto di fede e di bontà, è grande e vivace nonostante prove e apparenze contrarie. Siamo certi – e lo affermiamo con gratitudine – che dal cielo il nostro caro Confratello, S.E. Mons. Mansueto Bianchi, Assistente Generale dell’A.C., continuerà ad accompagnare con preghiera e amore il cammino pastorale della nostra Chiesa.
L’ordinaria attività estiva si è trovata inserita e sostenuta dall’instancabile ministero del Successore di Pietro, che presiede la Chiesa universale nella carità e nella verità. Innanzitutto, con lui abbiamo vissuto la Giornata Mondiale della Gioventù, evento partecipato da moltitudini di giovani che, anche questa volta, hanno mostrato gioia incontenibile negli incontri con il Santo Padre e hanno elettrizzato la Polonia. La Nazione di san Giovanni Paolo II – che della G.M.G. è stato l’artefice – li ha accolti con ammirevole ospitalità: un particolare grazie i giovani italiani lo dicono alle tante famiglie che hanno aperto loro le case e li hanno stupiti: alla evidente semplicità della vita corrispondeva una ospitalità ancora più generosa e cordiale, ed una fede visibile. Insieme al Santo Padre, ai sacerdoti e ai centomila giovani italiani che hanno partecipato alla Giornata, vogliamo dire a tutta la gioventù del Paese che «lo sguardo di Gesù va oltre i difetti e vede la persona», che Egli «ti chiama per nome (…). Il tuo nome è prezioso per Lui» perché il cuore di Dio «è un cuore tenero di compassione che gioisce nel cancellare definitivamente ogni nostra traccia di male» (Omelia GMG, Cracovia, 31.7.2016). Lui «desidera venire a casa tua, abitare la tua vita di ogni giorno» (id). Per questo il Papa ha raccomandato che nella giornata di ogni giovane ci sia «al primo posto il filo d’oro della preghiera», ha invitato alla confessione frequente, e ha ribadito che il segreto della felicità è fare della propria vita un dono. Abbiamo visto che il cuore dei ragazzi, pur in mezzo a incertezze, cerca il pane solido della fede; è attraversato da una nostalgia interiore che aspetta un nome. C’è un risveglio spirituale nelle loro anime: non possiamo deluderli. Con i nostri preti, vogliamo essere alla loro altezza!
Un altro evento che ha commosso il cuore del mondo – e possiamo dire che il mondo si è fatto vedere! – è stata la canonizzazione di Madre Teresa di Calcutta lo scorso 4 settembre. Come ha sottolineato il Santo Padre, «Madre Teresa, in tutta la sua esistenza, è stata generosa dispensatrice della misericordia divina, rendendosi a tutti disponibile attraverso l’accoglienza e la difesa della vita umana, quella non nata e quella abbandonata e scartata». Il suo esempio di donna orante ci aiuti a far nostra la vocazione alla carità con la quale «ogni discepolo di Cristo mette al suo servizio la propria vita, per crescere ogni giorno nell’amore».
Infine, abbiamo celebrato il XXVI Congresso Eucaristico della Chiesa Italiana. Genova ha avuto l’onore e la gioia di ospitare l’evento che è stato un momento di grazia per tutti. Avevamo dato al Congresso il tema «Eucaristia, sorgente di missione» nel tempo del Giubileo straordinario della Misericordia: ebbene, le celebrazioni e l’adorazione pubblica, le catechesi dei Vescovi, la celebrazione della penitenza, la visita di cinquanta delegazioni alle opere di misericordia corporale e spirituale, i percorsi religiosi e culturali del centro storico, la serata dei giovani… il grande lavoro di preparazione del Comitato Nazionale e del gruppo operativo locale, tutto ha fatto sì che i tre giorni previsti non fossero un calendario di cose da fare, ma un evento da vivere: l’incontro con il Risorto realmente presente nel Sacramento dell’amore. Con le catechesi eucaristiche alla luce delle cinque vie della Evangelii Gaudium – valorizzate nel Convegno di Firenze – abbiamo approfondito come l’Eucaristia sia la vera sorgente della missionarietà e della carità evangelica: è questo fuoco che spinge a condividere la luce e il calore, perché il mondo viva nella verità e nell’amore, coscienti che certamente dobbiamo preoccuparci di essere credibili, ma innanzitutto di credere.
Con questo spirito, martedì scorso le nostre Diocesi hanno pregato unendosi allo spirito di Assisi, dove il Santo Padre e i rappresentanti delle diverse religioni hanno rilanciato l’impegno per la pace e la fraternità tra tutti i popoli. Con Papa Francesco rinnoviamo il nostro impegno a «cercare in Dio, sorgente della comunione, l’acqua limpida della pace, di cui l’umanità è assetata» e a farci «artigiani della pace», quella pace che è «perdono», «accoglienza», «collaborazione» ed «educazione».
La sfida europea. Alla luce degli ultimi avvenimenti, dobbiamo riaffermare che oggi c’è bisogno di un di più di Europa. È possibile pensare che nel vortice del mondo globalizzato, dove sono saltati molti schemi e parametri, sia possibile vivere allontanandosi gli uni dagli altri? Ciò non ha nulla da vedere con qualche forma di internazionalismo che crea confusione di popoli: essere popolo, infatti, significa avere una propria missione presso la comunità più alta, in quanto si ha un patrimonio di storia e di cultura da offrire. Solo così l’Europa sarà il luogo del superamento di ogni forma di sciovinismo, che mira a primeggiare e a imporsi ai singoli membri: ogni realtà, infatti, diviene ciò che deve essere solo all’interno di una armonia superiore, della comunità spirituale europea. I nazionalismi non si vincono né con l’omologazione forzosa, che è una sottile espressione di violenza, né con l’irenismo miope che è una forma sofisticata di deriva etica e di annullamento identitario. Nessuno pensi che si voglia riproporre una visione eurocentrica del mondo; se guardiamo la geografia del pianeta, ogni continente ha qualcosa da portare a tutti, qualcosa di peculiare, che oggi sta emergendo in modo più chiaro e progressivo.
Continua l’esodo di tanti disperati che bussano alle porte del continente. Il Santo Padre non si stanca di richiamare lo stile dell’accoglienza e dell’integrazione, che richiede generosità e intelligenza politica e sociale; è uno stile che coinvolge tutti, chi accoglie e chi è accolto. L’Italia è in prima linea e, nonostante difficoltà oggettive, continua a fare tutto il possibile su questo fronte che la vede ancora troppo sola. Le comunità cristiane cercano di allargare gli spazi dell’accoglienza e soprattutto del cuore, affinché si vada oltre l’emergenza verso percorsi di integrazione per quanti – mostrando consapevolezza e impegno – desiderano rimanere.
Più che di tanta povera gente disperata che bussa alle porte del continente, l’Europa dovrebbe temere il cambiamento del modo di pensare che si vuole imporre dall’esterno. Il Papa molte volte ha messo in guardia dalle «colonizzazioni» in atto, che chiama «pensiero unico»: esso vuole costringere a pensare nello stesso modo, con gli stessi criteri di giudizio al di sopra del bene e del male. Propagandare in modo ossessivo certi stili di vita, inculcare il principio del piacere a qualunque costo, esaltare la «dea fortuna» e il gioco anziché il gusto del dovere, del lavoro, della onestà; insinuare il fastidio dei legami, se questi non appagano sempre e comunque, far sognare una perenne giovinezza, spingere alla ricerca di evasioni continue dalla vita reale, non sostenere la fedeltà agli impegni di coppia, di famiglia, di lavoro… tutto questo connota una mutazione culturale che aliena la persona da se stessa e dalla realtà, la appiattisce sul tutto e subito, la imprigiona in un individualismo esasperato, propagato come libertà. In questo clima l’io resta separato, privo di contatti, solo con se stesso. Nelle relazioni interpersonali scompare il «prossimo», resta «l’altro», «l’estraneo», addirittura il «nemico». A chi giova un tale cambiamento culturale, che muta gli stili di vita? È evidente che l’isolamento delle persone, la paura degli altri, il conflitto tra Stati, la destabilizzazione della famiglia, di gruppi e Nazioni, favoriscono approfittatori cinici, e spesso oscuri, attenti a lucrare denaro e potere. È questo modo di pensare che il vecchio mondo dovrebbe temere, anziché corteggiarlo e inseguirlo compiaciuto.
Sembra però che, dopo il risultato della «brexit» inglese, cominci a vedersi qualche timido barlume di coscienza su ciò che dovrebbe essere il fondamento della casa europea: la cultura, che ha costruito l’Europa nella sua varietà. Nei secoli, nonostante conflitti e guerre, un comune sentire si è affermato, ha ispirato storia e civiltà. Accennare genericamente ai «nostri valori» non serve a nulla: può ingannare chi ascolta se non si esplicita quali sono, su che cosa sono fondati, quale civiltà hanno ispirato, quale figura di uomo hanno costruito. Crediamo che nessun uomo è un’isola, ognuno è persona perché chiamato a realizzarsi insieme agli altri, radicalmente religioso perché aperto all’Assoluto, a Dio che si è rivelato in Gesù Cristo e la cui parola è stata l’humus del continente. Ciò significa riconoscere nella persona un mondo non solamente fisico, ma anche spirituale ed etico, un io che, senza perdersi, si compie solamente nel noi. È questo il vero patrimonio su cui l’Unione deve rifondare se stessa. Se in nome del laicismo – che è la deformazione miope dell’autentica laicità – non si riconoscono le identità religiose con i loro riti e costumi, allora vuol dire che quel modo di pensare antireligioso è entrato nei gangli delle coscienze legislative oppure nei loro interessi. O forse significa che si è intuito che la vera religiosità costituisce un argine al potere? Un popolo sa da dove viene, qual è la sua storia, il credo dei propri avi, comprende i segni, i luoghi e i riti della propria identità. Anche quando non partecipa alla vita religiosa, sa riconoscere la terra che l’ha generato e che è solcata da gioie, fatiche, sacrifici. Sa che le generazioni andate hanno camminato con i piedi ancorati nella terra e nel fango, ma con lo sguardo alzato al cielo, in un intreccio di visibile e invisibile. Anche il nostro popolo, al di là di sondaggi e previsioni, riconosce, pur in mezzo a credi diversi, quali sono i tratturi veraci del Paese. E non gradisce – in nome di una laicità malintesa e succube al giudizio di qualcuno – che si oscurino gesti e segni, tradizioni e luoghi.
Le ferite spirituali sono le più imprevedibili nelle loro conseguenze, perché riguardano lo spirito di un Popolo e toccano memorie e affetti. La volontà di omologare le visioni profonde della vita e dei comportamenti non è il cammino rispettoso di un’Unione Europea armonica e solidale, ma piuttosto un’arrogante rifondazione continentale che i popoli male sopportano, dove il cristianesimo è considerato «divisivo» perché non canta nel coro prestabilito. Emarginare dalla sfera pubblica il cristianesimo non è intelligente; è non comprendere che la società non può che averne del bene. Sì, averne del bene: non perché se ne può servire in modo strumentale, ma perché la luce del Vangelo, non le inaffidabili e interessate maggioranze, ha creato la civiltà europea e il suo umanesimo, ha generato il tessuto connettivo e le condizioni per camminare insieme. Più si studiano seriamente le origini dell’umanesimo, e più si riconosce l’esistenza di qualcosa che non è genericamente spirituale, ma è nettamente cristiano. È significativo che nel mondo anglosassone sia in corso un processo di rivisitazione dell’illuminismo, prendendo atto delle sue derive antropologiche. Si parla di un «nuovo illuminismo», che speriamo abbia consonanze con il «nuovo umanesimo» di cui abbiamo parlato a Firenze.
I recenti e ripetuti fatti di terrorismo hanno sterminato vite umane e sparso inquietudine in tutti: gli Stati cercano vie per reagire in chiave di prevenzione, di maggiore vigilanza, di efficace coordinamento internazionale. A singoli e Nazioni, rinnoviamo la nostra vicinanza umana e cristiana. Tali abomini si mascherano di un manto religioso per accreditare una «guerra di religione», ma – come ci ricorda il Santo Padre – non bisogna cadere in questa trappola che mira a scatenare un conflitto globale. Il terrorismo si serve non solo del fanatismo di gruppi, ma anche del disagio sociale, e soprattutto del vuoto spirituale e culturale di non pochi giovani occidentali che – paradossalmente – spesso cercano un motivo per vivere in una perversa ragione per morire. Come sempre, i mercanti di armi, di petrolio o di potere, speculano nell’oscurità di affari e posizioni d’oro.
Il caso del «burkini» ha suscitato polemiche ma anche riflessioni: in linea con un criterio che già il Concilio Vaticano II aveva chiarito in termini di principio, sia il Consiglio di Stato francese che l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani hanno sottolineato che le limitazioni «della manifestazione del credo religioso, inclusa la scelta dei vestiti, sono permesse solo in circostanze molto limitate, come la sicurezza, l’ordine e la salute pubblica o la morale» (in Stranieri in Italia, 30.8.2016).
In questa prospettiva, come non ribellarsi davanti alla mancanza di sensibilità e di rispetto espressa dalle vignette di Charlie Hebdo sulle vittime del terremoto? Noi – anche a nome del nostro popolo – chiediamo: è questa la società che vogliamo, dove pensiamo di sentirci bene, insieme, solidali, a casa? È questo che intendiamo per libertà? Non esiste dunque nulla di talmente profondo e sacro – anche umanamente – che non debba essere sbeffeggiato da alcuni «illuminati»? La coscienza collettiva è chiamata a reagire in maniera chiara, alta e indignata.
Il cammino del Paese. Ci spiace dover ripetere alcune cose, ma – in quanto Pastori che vivono in mezzo al loro popolo – abbiamo l’obbligo di dar voce a chi non ha voce o ne ha troppo poca. Le nostre parrocchie sono testimoni di come la povera gente continui a tribolare per mantenere sé e la propria famiglia. Vediamo aumentare la distanza fra ricchi e poveri; lo stesso ceto medio è sempre più risucchiato dalla penuria dei beni primari, il lavoro, la casa, gli alimenti, la possibilità di cura. Con speranza sentiamo le dichiarazioni rassicuranti e i provvedimenti allo studio o in atto; ma le persone non possono attendere, perché la vita concreta corre ogni giorno, dilania la carne e lo spirito. La fiducia nel domani diminuisce, gli adulti che hanno perso il lavoro sono avviliti o disperati, molti giovani – che mostrano spesso genio e capacità sorprendenti – si stanno rassegnando e si aggrappano ai genitori o ai nonni, impossibilitati a farsi una vita propria. Gli indicatori ufficiali parlano chiaro: i nuovi contratti sono diminuiti del 12,1% (Ministero del Lavoro), il PIL non è cresciuto, la disoccupazione, tra i 15 e i 24 anni, è salita al 39,2% (ISTAT). Anche la produzione industriale risulta diminuita dello 0.8% (ISTAT). Seguiamo con viva partecipazione i tentativi di varie categorie di lavoratori del mondo dell’ industria, della ricerca, delle aree portuali, e altro. La Chiesa è vicina ai lavoratori e alle loro famiglie, e lo sarà sempre in nome della dignità di ogni persona, consapevole che lavoro e famiglia sono legati e costituiscono il tessuto connettivo della società e dello Stato. Siamo fortemente preoccupati che il patrimonio di capacità e di ingegno del nostro popolo sia costretto a emigrare, impoverendo così il Paese. La globalizzazione deve essere un’opportunità per tutti, non solo per pochi.
Anche in queste situazioni, come pure in quella dei migranti, la Chiesa non si limita a dar voce alla gente più esposta, a richiamare l’attenzione collettiva, a incoraggiare perché non vinca la sfiducia. La Chiesa opera. Opera con la fantasia della carità che nel Vangelo trova la sua inesauribile sorgente e con la solidarietà di tutti. I nostri sacerdoti sono in prima linea, come vedette dei bisognosi e motore dell’amore di Cristo. Il loro essere sollevati da altri impegni e, quindi, a totale disposizione del popolo, è possibile grazie alla generosità consapevole della gente, di cui l’otto per mille è una forma provvidenziale. A tutti diciamo il nostro grazie!
Sul fronte occupazionale la gente si aspetta un impegno ed una dedizione ancora più grandi e continue da parte della politica, come di ogni altro soggetto capace di creare e incentivare lavoro e occupazione. Nessuno può illudersi circa lo stato di disagio o di disperazione legato alla disoccupazione o alla incertezza: la teoria della flessibilità – che può avere le sue ragioni – getta la persona in uno clima fluido e inaffidabile. Ci chiediamo: coloro che teorizzano non sono forse i primi ad essere ben sicuri sul piano del proprio lavoro e, forse, del proprio patrimonio?
In questo quadro, moltissimi si domandano perché tanta enfasi e tanto impegno sia stato profuso per altri obiettivi per nulla urgenti. Insieme a molte persone di diverse estrazioni, ribadiamo che la famiglia è la prima forma di società: non può essere paragonata ad alcuna altra forma di unione. Presentare tutto sullo stesso piano – come qualcuno intende – è un errore educativo grave.
In questo contesto, desideriamo anche rivolgere una parola di incoraggiamento alle istituzioni sanitarie di ispirazione cristiana, ancora numerose e ben radicate nel territorio. In questo lungo momento di crisi, nonostante difficoltà e problemi, esse partecipano a promuovere l’accoglienza e la cura totale delle persone. Auspichiamo che la loro sussidiarietà sia riconosciuta nei piani sanitari regionali, perché la disparità di trattamento non veda penalizzate realtà essenziali al servizio di tutti i cittadini. A proposito della vita umana, intesa in ogni sua fase, i messaggi che arrivano da alcuni Paesi europei devono seriamente preoccupare e far riflettere. La recente morte di un bambino, avvenuta in Belgio per eutanasia, deve interrogarci seriamente: dove stiamo andando? Più in generale prendiamo atto che, ogni volta che si ipotizzano leggi su questi temi decisivi, subito si cerca di pilotare la sensibilità e l’opinione pubblica appellandosi a casi eccezionali di grande impatto emotivo; e si invoca la necessità di ordinare le cose, di normare le procedure. Ma tutto questo accade senza partire dal principio di base, l’inviolabilità della vita umana sempre e comunque: se cade questo principio l’individuo passerà da soggetto da rispettare a oggetto di cui disporre. Chi decide la linea di confine tra il legittimo e ciò che non lo è in questioni che sono essenzialmente di tipo etico, cioè precedono ogni autorità statale? Lo Stato deve essere amorale? E se lo Stato stabilisse un confine anche molto rigoroso – comunque inaccettabile – perché non potrebbe allargarlo successivamente? E la persona, nella sua intangibilità, dove finirebbe? Il compito vero dello Stato di diritto non è quello di stabilire la vita e la morte, ma – molto più responsabilmente e con impegno concreto – di farsi carico delle situazioni, di non lasciar soli i cittadini specialmente nelle circostanze più drammatiche, come quelle di genitori con figli malati, per accompagnarli e sostenerli in ogni modo.
Il Paese è atteso per un importante appuntamento, il Referendum sulla Costituzione. Come sempre, quando i cittadini sono chiamati ad esprimersi esercitando la propria sovranità, il nostro invito è di informarsi personalmente, al fine di avere chiari tutti gli elementi di giudizio circa la posta in gioco e le sue durature conseguenze.
Al termine di questa introduzione, e a conclusione delle questioni elencate, ancora una volta emerge l’importanza della sfida educativa che, come Vescovi, abbiamo posto al centro del decennio. Comprendiamo che non possiamo prescindere da questo compito: l’ evangelizzazione e la liturgia, la famiglia e la comunità cristiana, la scuola e il servizio, portano a questa missione, ne sono fondamento e spazi vitali. Anche questo è emerso chiaramente nel Giubileo dei Catechisti, culminato nella celebrazione di ieri in San Pietro con Papa Francesco.
Grazie, cari Confratelli, per la vostra benevola attenzione che è già parte dei nostri lavori. Come sempre, siamo partiti dall’adorazione eucaristica, principio e fine della vita cristiana: ogni giorno ci accompagnerà con il suo calore di luce. A Maria, Madre di Dio, e a San Giuseppe, ci affidiamo sapendoci in famiglia.