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Educare alla legalità

Il testo integrale della Nota pastorale della Commissione ecclesiale Giustizia e Pace «Educare alla legalità», pubblicato il 4 ottobre 1991.

PRESENTAZIONE. – INTRODUZIONE Le ragioni di una Nota. – Parte I: LEGALITÀ E GIUSTIZIA SOCIALE Un’esigenza fondamentale della vita sociale; Le condizioni per un’autentica legalità; Un’urgenza del nostro tempo; L’impegno della Chiesa e dei cristiani. – Parte II: L’ECLISSI DELLA LEGALITÀ Istituzioni e criminalità; L’oblio del bene comune; L’asservimento della legge; Meno leggi, più legge. – Parte III: VIE ALLA CRESCITA DELLA LEGALITÀ La comunità cristiana per la legalità e la moralità; Etica della socialità e della solidarietà; La ricerca del bene comune; Bene comune e condizione interculturale; Obbedienza alla legge e obiezione di coscienza; La formazione dei cittadini; Ai cristiani impegnati in politica; La funzione politica della società civile. – CONCLUSIONE Giustizia e carità.

Presentazione

Non solo tra le nazioni vi sono ingiustizie e conflitti, ma anche al loro interno; e la pace è un bene che deve realizzarsi non solo nei rapporti tra gli stati, ma anche in quelli tra i cittadini.

La Commissione ecclesiale della CEI “Giustizia e pace”, dopo aver affrontato il crescente fenomeno della convivenza in Italia tra persone di culture diverse con la Nota pastorale Uomini di culture diverse: dal conflitto alla solidarietà EC 4/2235ss (25 marzo 1990), vuole ora ricordare un altro fattore che mette a rischio la giustizia e la pace nel nostro Paese: la caduta del senso della moralità e della legalità nelle coscienze e nei comportamenti di molti italiani.

Questa Nota è stata preparata a lungo con la consultazione di varie componenti della nostra società e ha ottenuto il parere favorevole dal Consiglio permanente della CEI, tenutosi il 23-26 marzo 1991. Vuole essere una proposta offerta ai cristiani e ad ogni uomo di buona volontà per una revisione di mentalità e di comportamento all’interno di una società che, smarrendo il senso delle norme che la devono guidare, compromette la giustizia e la pace. Ci sentiamo in profonda sintonia con il santo padre che il 10 novembre 1990 a Capodimonte-Napoli ha richiamato con forza questa esigenza, affermando: “Non c’è chi non veda l’urgenza di un grande ricupero di moralità personale e sociale, di legalità. Sì, urge un ricupero di legalità!”.

Auspichiamo che in tutte le regioni del nostro Paese vi sia un deciso ricupero di moralità e di legalità, con il contributo delle diverse componenti sociali, civili, politiche e religiose, e soprattutto mediante una più convinta e decisa educazione delle coscienze di tutti.

Roma, 4 ottobre 1991,festa di s. Francesco d’Assisi, patrono d’ItaliaGiovanni Volta, vescovo di Paviapresidente della Commissione ecclesiale Giustizia e paceIntroduzioneLe ragioni di una nota

1. La Commissione ecclesiale “Giustizia e pace”, convinta che l’esistenza di leggi civili giuste e la loro responsabile osservanza sono un fattore indispensabile per promuovere la giustizia e la pace anche nel nostro Paese, ha sentito il dovere di offrire ai cristiani e agli uomini di buona volontà alcune riflessioni destinate a sviluppare, attraverso una seria opera educativa, un più maturo senso di legalità.

Questa Nota esprime la viva preoccupazione dei vescovi per una situazione che rischia di inquinare profondamente il nostro tessuto sociale se non viene affrontata con tempestività, energia e grande passione civile. È un appello a riflettere non tanto su come gli “altri” rispettano il principio di legalità, quanto su come “noi” – cristiani e cittadini – lo viviamo, in ordine a sviluppare una rinnovata cultura della norma.

La Nota non intende offrire soluzioni tecniche ai problemi correlati con la crisi della legalità nel nostro Paese, né presentare facili denunce, ma contribuire a riprendere un cammino comune di civiltà per migliorare la convivenza umana, evitando che si imbocchino strade che solo apparentemente risolvono i problemi.

Questa Nota, dunque, vuole essere uno strumento di riflessione per le comunità cristiane e per tutti gli uomini che hanno a cuore la crescita umana del Paese, e intende suscitare un rinnovato impegno pastorale per la formazione di cristiani adulti, capaci di vivere e di operare secondo l’intera verità del Vangelo all’interno dei bisogni della nostra società.

Parte prima – Legalità e giustizia socialeUn’esigenza fondamentale della vita sociale

2. Gli uomini, per la loro natura sociale, costituiscono non un semplice aggregato di individui, ma una comunità di persone nella quale i bisogni e le aspirazioni di ciascuno, gli eguali diritti e i simmetrici doveri, si collegano e si coordinano in un vincolo solidale, ordinato a promuovere il pieno sviluppo della persona umana e la costruzione del bene comune.

Ciò implica l’affermazione di “regole di condotta”, connaturate al concetto medesimo di società, che non soltanto rispecchiano giudizi di valore universalmente riconosciuti, ma presiedono al corretto sviluppo dei concreti rapporti tra gli uomini, equilibrando le individuali libertà e orientandole verso la giustizia. Senza tali regole, una società libera e giusta non può consistere.

Se mancano chiare e legittime regole di convivenza, oppure se queste non sono applicate, la forza tende a prevalere sulla giustizia, l’arbitrio sul diritto, con la conseguenza che la libertà è messa a rischio fino a scomparire. La “legalità”, ossia il rispetto e la pratica delle leggi, costituisce perciò una condizione fondamentale perché vi siano libertà, giustizia e pace tra gli uomini.

D’altra parte le leggi devono corrispondere all’ordine morale, poiché, se il loro fondamento immediato è dato dall’autorità legittima che le emana, la loro giustificazione più profonda viene dalla stessa dignità della persona umana che storicamente si realizza e si esprime nella società, anzi dalla condizione creaturale dell’uomo, per cui vindice della sua dignità non è semplicemente lo Stato, ma Dio stesso.

Per questo la rivelazione parla di una derivazione dell’autorità da Dio, e di conseguenza del valore e del limite delle leggi umane. Gesù ricorda a Pilato che egli non avrebbe alcun potere su di lui se non gli venisse dall’alto. San Paolo scrive che non esiste autorità se non proviene da Dio, sicché chi si ribella ad essa si contrappone a lui. Questa obbedienza si estende anche ai contributi, alle tasse. Per la stessa ragione una legge umana può o addirittura deve essere contestata se contraddice il suo fondamento ultimo, per cui gli apostoli Pietro e Giovanni esclamano davanti al sinedrio: “Se sia giusto innanzi a Dio obbedire a voi più che a lui, giudicatelo voi stessi” (At 4,19).

Il rispetto della legalità è chiamato ad essere non un semplice atto formale, ma un gesto personale che trova nell’ordine morale la sua anima e la sua giustificazione.

Ciò spiega come la caduta del senso della legalità può avere radici diverse, che vanno dal modo di gestire il potere e di formulare le leggi al senso della solidarietà tra gli uomini e alla loro moralità.

Così la responsabilità di eventuali cadute del senso di legalità è da attribuirsi non solo a coloro che ricoprono posti e funzioni nelle istituzioni pubbliche, ma anche a tutti i cittadini, sia pure con rilevanza diversa a seconda dei ruoli sociali che rivestono. La promozione e la difesa della giustizia è un compito di ogni cittadino, che, radicandosi nella coscienza e nella responsabilità personali, non può essere delegato ad alcuni soggetti istituzionalmente preposti a specifiche funzioni dello Stato.

Le condizioni per un’autentica legalità

3. Perché la vita sociale si possa sviluppare secondo autentici principi di legalità sono necessarie alcune condizioni come:

– l’esistenza di chiare e legittime regole di comportamento che, temperando gli istintivi egoismi individuali o di gruppo, antepongano il bene comune agli interessi particolari;

– la correttezza e la trasparenza dei procedimenti che portano alla scelta delle norme e alla loro applicazione, in modo che siano controllabili le ragioni, gli scopi e i meccanismi che le producono;

– la stabilità delle leggi che regolano la convivenza civile;

– l’applicazione anche coattiva di queste regole nei confronti di tutti, evitando che siano solo i deboli e gli onesti ad adeguarvisi, mentre i forti e i furbi tranquillamente le disattendono;

– l’efficienza delle strutture sociali che consentano a tutti, senza bisogno di protezioni particolari, l’attuazione dei propri diritti, in modo da evitare la beffa di una proclamazione di diritti cui non segue l’effettivo godimento;

  – l’attenzione privilegiata agli interessi giusti e meritevoli di tutela legislativa di coloro che, a motivo della loro debolezza, non hanno né la voce per rappresentarli, né la forza per imporli alla considerazione degli altri;

– la necessità che i vari poteri dell’organizzazione statuale non sconfinino dai loro ambiti istituzionali e che la loro funzione di reciproco controllo non sia elusa mediante collegamenti trasversali tra coloro che vi operano, perché appartenenti a partiti, o a gruppi di pressione o di potere, o peggio ad associazioni segrete.

Proprio perché l’autentica legalità trova la sua motivazione radicale nella moralità dell’uomo, la condizione primaria per uno sviluppo del senso della legalità è la presenza di un vivo senso dell’etica come dimensione fondamentale e irrinunciabile della persona. In tal modo l’attività sociale si potrà svolgere nel rispetto della persona umana e dei suoi diritti fondamentali, e saranno evitate tutte le strumentalizzazioni che rendono l’uomo “miseramente schiavo del più forte. E il “più forte” può assumere nomi diversi: ideologia, potere economico, sistemi politici disumani, tecnocrazia scientifica, invadenza dei mass-media”.

Solo a queste precise condizioni il desiderio di giustizia e di pace che sta nel cuore di ogni uomo potrà diventare realtà, e gli uomini da “sudditi” si trasformeranno in veri e propri “cittadini”.

Un’urgenza del nostro tempo

4. Se la convivenza umana, in forza della stessa natura sociale dell’uomo, ha sempre richiesto un sistema di leggi, ordinato e coerente, per regolare i rapporti fra i soggetti, e fra i cittadini e lo Stato, questa esigenza si è fatta particolarmente forte e urgente nel nostro tempo a motivo della società complessa, nella quale i bisogni emergenti non sono soltanto quelli elementari. La rincorsa al “bene-avere” spesso ha oscurato l’esigenza del “bene-essere”; la burocratizzazione della vita, nel rapporto tra il cittadino e lo Stato, ha accresciuto la dipendenza dal potere; soprattutto la costituzione e la proliferazione di organici gruppi di potere alternativo, disponendo di reti relazionali e di ingenti mezzi economici, ha consentito pressioni e persuasioni anche occulte nella linea dell’irresponsabilità.

L’impegno della Chiesa e dei cristiani

5. La Chiesa si fa carico di questo problema perché il suo compito di evangelizzazione le impone di dare il proprio contributo ispirato alla fede in Gesù Cristo alla soluzione di ogni problema della comunità umana alla quale appartiene, e anche perché è pienamente convinta che nel problema della legalità sono in gioco non solo la vita delle persone e la loro pacifica convivenza, ma la stessa concezione dell’uomo. In questo senso Giovanni Paolo II afferma: “Un’autentica democrazia è possibile solo in uno Stato di diritto e sulla base di una retta concezione umana”.

Il cristiano non può accontentarsi di enunciare l’ideale e di affermare i principi generali. Deve entrare nella storia e affrontarla nella sua complessità, promuovendo tutte le realizzazioni possibili dei valori evangelici e umani della libertà e della giustizia. In questo la Chiesa e i cristiani si fanno “compagni di strada” con quanti cercano di realizzare il bene possibile.

In particolare il cristiano laico è chiamato, sotto la propria responsabilità, non solo a inserire le sue esigenze etiche nella storia, ma anche a far fiorire la città dell’uomo attraverso la sua professionalità, la sua testimonianza e l’impegno alla partecipazione, come pure attraverso una legislazione adeguata e una conseguente fedeltà ad essa.

Parte seconda – L’eclissi della legalitàIstituzioni e criminalità

6. La crisi della legalità si manifesta nel nostro Paese anzitutto nell’esplosione della grande criminalità, anche se in questa non si esaurisce. Sono preoccupanti, per esempio, l’aumento della piccola criminalità e una facile assuefazione ad essa, quasi fosse un male inevitabile. Avviene così che, non solo cresce il numero dei delitti denunciati, che però rimangono impuniti perché i loro autori restano ignoti, ma aumenta sempre più il numero delle vittime dei crimini che non sporgono denuncia, ritenendola del tutto inutile. Ciò rivela una rassegnazione e una sfiducia che vanificano il senso della legalità.

Ancor più preoccupante è la presenza di una forte criminalità organizzata, fornita di ingenti mezzi finanziari e di collusive protezioni, che spadroneggia in varie zone del Paese, impone la sua “legge” e il suo potere, attenta alle libertà fondamentali dei cittadini, condiziona l’economia del territorio e le libere iniziative dei singoli, fino a proporsi, talvolta, come Stato di fatto alternativo a quello di diritto.

Non meno inquietante è poi la nuova criminalità così detta dei “colletti bianchi”, che volge a illecito profitto la funzione di autorità di cui è investita, impone tangenti a chi chiede anche ciò che gli è dovuto, realizza collusioni con gruppi di potere occulti e asserve la pubblica amministrazione a interessi di parte.

È vero che l’aumento del tasso di criminalità caratterizza tutte le società industrializzate, anche se tra esse l’Italia non è ancora arrivata ai livelli più alti. Tuttavia non può non turbare profondamente il generalizzato senso di impotenza, di rassegnazione, quasi di acquiescenza di fronte a questo fenomeno, che si configura come dissolutore di una convivenza pacifica e ordinata.

Le risposte istituzionali sembrano spesso troppo deboli e confuse, talvolta meramente declamatorie, con il rischio di rendere la coscienza civile sempre più opaca.

Manca quella mobilitazione delle coscienze che, insieme ad un’efficace azione istituzionale, può frenare e ridurre il fenomeno criminoso. Non vi è solo paura, ma spesso anche omertà; non si dà solo disimpegno, ma anche collusione; non sempre si subisce una concussione, ma spesso si trova comoda la corruzione per ottenere ciò che altrimenti non si potrebbe avere. Non sempre si è vittima del sopruso del potente o del gruppo criminale, ma spesso si cercano più il favore che il diritto, il “comparaggio” politico o criminale che il rispetto della legge e della propria dignità.

Una lotta efficace alla criminalità esige certamente una migliore attività di controllo e di repressione da parte di tutti gli organi preposti all’ordine pubblico e all’attuazione della giustizia, come pure la disponibilità dei necessari strumenti materiali e processuali per poter svolgere adeguatamente il proprio compito. Ma ciò non potrà mai bastare se contemporaneamente, come hanno recentemente sottolineato i vescovi italiani, non vi saranno anche una concreta attività promozionale da parte dello Stato in certe zone del Paese e una mobilitazione delle coscienze dei cittadini “perché sia recuperata, assieme ai grandi valori dell’esistenza, la legalità, e sia superata l’omertà che non è affatto attitudine cristiana”.

L’oblio del bene comune

7. La crescita di una più viva coscienza della legalità esige che la formulazione delle leggi obbedisca innanzitutto alla tutela e alla promozione del bene comune, come è richiesto dalla natura stessa della legge. Ciò equivale a ricondurre l’azione politica alla sua funzione originaria, che consiste nel servire il bene di tutti i cittadini, con particolare attenzione ai più deboli.

Ma si deve rilevare, purtroppo, una sempre maggiore marginalizzazione di un’autentica azione politica. Il progressivo sviluppo della socialità e il tumultuoso svilupparsi delle soggettività nel campo privato e pubblico hanno portato a coltivare più l’interesse immediato dei particolarismi che il bene comune, con una conseguente gestione riduttiva della politica. Anziché un inserimento vivo e costruttivo delle formazioni sociali intermedie nel complessivo contesto della vita pubblica organizzata si è progressivamente realizzata una privatizzazione del pubblico. Così, di fronte ad una società proliferante, lo Stato è divenuto sempre più debole: affiora l’immagine di un insorgente neo-feudalesimo, in cui corporazioni e lobbies manovrano la vita pubblica, influenzano il contenuto stesso delle leggi, decise a ritagliare per il proprio tornaconto un sempre maggiore spazio di privilegio.

Il legittimo e utile dispiegarsi dell’autonomia dei singoli e dei gruppi esige, per essere fecondo, un forte e unitario quadro di riferimento, che può esistere solo in una democrazia politica ricca di valori, come afferma il papa nell’enciclica Centesimus annus. Questa forma di democrazia politica saprà respingere ogni agnosticismo e ogni relativismo e puntare su di un programma di sviluppo capace di vincere l’episodicità dei desideri espressi dalla base e in grado di disporre strumenti adeguati per incanalare e mediare le spinte che emergono nella società.

Ma questo è diventato oggi particolarmente difficile, per varie ragioni.

Anzitutto, per la debolezza dei partiti, sempre meno capaci di ascoltare i bisogni reali delle persone, di elaborare programmi coerenti e di costruire processi durevoli di sviluppo, di mediare tra gli opposti interessi; condizionati sempre più dalla necessità di raccogliere il consenso ad ogni costo e appiattiti nella pragmatica gestione del potere, fino a ridursi talvolta al ruolo di agenzia di occupazione e di lottizzazione dei diversi ambiti istituzionali.

Inoltre, per la debolezza di una cultura che si è sottomessa eccessivamente ai partiti, ai quali ha delegato la riflessione sulla realtà sociale in evoluzione e sugli strumenti politici per dominarla e orientarla, dimenticando che “se non esiste nessuna verità ultima la quale guida e orienta l’azione politica, allora le idee e le convinzioni possono essere facilmente strumentalizzate per fini di potere”.

Infine, per la frammentazione individualistica della partecipazione alla vita sociale, che ha portato ad una corsa generalizzata all’appropriazione delle risorse comuni sulla base della legge che il più forte ottiene di più, rovesciando in tal modo la logica retributiva e distributiva sottostante allo Stato sociale.

L’asservimento della legge

8. In questo contesto non fa meraviglia che la stessa determinazione delle regole generali di convivenza risulti in qualche modo inquinata. Le leggi, che dovrebbero nascere come espressione di giustizia, e dunque di difesa e di promozione dei diritti della persona, e da una superiore sintesi degli interessi comuni, sono spesso il frutto di una contrattazione con quelle parti sociali più forti che hanno il potere di sedersi, palesemente o meno, al tavolo delle trattative, dove esercitano anche il potere di veto. Tutto ciò ha portato ad elevare al massimo il potere ricattatorio di chi ha una particolare forza di contrattazione, ad aumentare il numero delle leggi “particolaristiche” (cioè in favore di qualcuno) e a ridurre invece drasticamente le leggi “generali”, vanificando così le istanze di chi non ha voce né forza.

Per le stesse ragioni il parlamento corre il rischio di essere ridotto a strumento di semplice ratifica di intese realizzate al suo esterno, con il conseguente impoverimento della funzione delle assemblee legislative. Anche all’interno dei partiti il gruppo di vertice può giungere a imporre le sue scelte sulla base di contrattazioni fatte all’esterno dei partiti stessi. Per questa via le leggi corrono il rischio di farsi sempre meno strumento di meditata e condivisa regolamentazione dei problemi che vanno emergendo nella società e sempre più pura ratifica dell’esistente, cioè delle conquiste che, in assenza di una regolamentazione giusta ed efficace, il potente di turno ha realizzato.

Nell’ambito poi dei diritti fondamentali della persona vengono promulgate delle “leggi-manifesto” che proclamano solennemente alcuni valori, ma che, in mancanza di strutture e di risorse adeguate, naufragano al primo impatto con la realtà.

Meno leggi, più legge

 9. Altri fatti che contribuiscono alla messa in crisi del senso di legalità nel nostro Paese sono l’eccessiva produzione legislativa, la sua scarsa chiarezza e la frequente impunità dei trasgressori.

A questo proposito i vescovi italiani hanno già richiamato l’esigenza di una “legislazione efficace, non farraginosa, non ambigua, non soggetta a svuotamenti arbitrari nella fase di applicazione, adeguata a garantire gli onesti da qualsiasi potere occulto, politico o non che esso sia”.

Invece, assistiamo spesso ad una produzione legislativa pletorica e incoerente, che sviluppa una disciplina rigorosissima su taluni aspetti minuti della vita quotidiana, mentre è lacunosa, o tace del tutto, su altri settori di grande importanza che riguardano la persona umana. Nel primo caso, il cittadino si trova sommerso da una colluvie legislativa entro la quale tante volte si smarrisce. Nel secondo caso, si trova di fronte ad un vuoto legislativo, e quindi senza una norma, in settori di grande responsabilità.

A ciò si aggiunga il lessico oscuro, i difetti di coordinamento fra legge e legge, l’ambiguità interpretativa. Il disagio dei cittadini, sperduti nella selva della proliferazione legislativa, costretti a consultare gli esperti, ricevendone spesso una speculare incertezza, frastornati dai contrasti interpretativi della stessa giurisprudenza, può favorire, alla lunga, una generale sfiducia nella legge, quando le sue ragioni paiono incomprensibili e i suoi precetti impraticabili. Inoltre una simile proliferazione, insieme con l’aumentato numero delle trasgressioni, provoca un intasamento giudiziario, che impedisce di concentrare le forze sulle violazioni che mettono realmente in pericolo i beni fondamentali della collettività, favorendo in tal modo un tardivo intervento penale per queste violazioni.

A tutto ciò va aggiunto il fatto che le violazioni della legge non hanno spesso un’effettiva sanzione o perché sono carenti le strutture di accertamento delle violazioni, o perché le sanzioni arrivano in ritardo, rendendo in tal modo conveniente il comportamento illecito.

 Anche la classe politica, con il suo frequente ricorso alle amnistie e ai condoni, a scadenze quasi fisse, annulla reati e sanzioni e favorisce nei cittadini l’opinione che si può disobbedire alle leggi dello Stato. Chi si è invece comportato in maniera onesta può sentirsi giudicato poco accorto per non aver fatto il proprio comodo come gli altri, che vedono impunita o persino premiata la loro trasgressione della legge.

Tutto ciò può innestare una generale e pericolosa convinzione che la furbizia viene sempre premiata, che il “fai da te” contro le regole generali dello Stato può essere considerato pienamente legittimo, che il “possesso” di un bene ottenuto contro la legge è motivo sufficiente per continuare a tenerlo, e che è logico e giusto ratificare il fatto compiuto, indipendentemente dalla sua legale o illegale realizzazione.

Se si pensa, infine, alla stretta connessione che intercorre tra moralità e legalità, non si può non attribuire anche ad alcune leggi civili, come ad esempio quelle sul divorzio e sull’aborto, la responsabilità di alimentare una cultura individualistica e libertaria; anzi queste stesse leggi, permettendo la trasgressione morale, abbassano e deformano il senso della legalità. In realtà è del tutto impossibile togliere la valenza educativa, o positiva o negativa, della legge.

Parte terza – Vie alla crescita della legalitàLa comunità cristiana per la legalità e la moralità

10. La comunità cristiana si sente fortemente impegnata in forza della stessa fede alla crescita globale del Paese, a combattere le cause di ingiustizia ancora diffusa e a contribuire fattivamente per il rispetto delle giuste leggi.

  I cristiani trovano nel comportamento di Gesù e degli apostoli e nel loro insegnamento le indicazioni fondamentali circa la condotta da tenere di fronte alle leggi umane dello Stato, e dunque di fronte alla legalità. Essi sanno benissimo che “bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (At 5,29): questo vale soprattutto quando si tratta di norme che, contrastando con quelle di Dio, non hanno più nemmeno la caratteristica di essere leggi, mancando di un oggettivo senso di verità e di giustizia. Emerge qui la fondamentale distinzione che intercorre tra moralità e legalità: la prima, da concepirsi come libera accoglienza interiore ed esteriore di ogni giusta norma, a cominciare da quelle divine; la seconda, da intendersi come comportamento in linea con la normativa vigente, qualunque essa sia. Ma i cristiani sanno pure che “non c’è autorità se non da Dio” (Rm 13,1) e che, quindi, ogni giusto comando e ogni vera legge devono vedere i discepoli di Cristo pronti all’ubbidienza per la costruzione del bene comune. Già l’apostolo Pietro così scriveva ai cristiani: “State sottomessi ad ogni istituzione umana per amore del Signore: sia al re come sovrano, sia ai governatori come ai suoi inviati per punire i malfattori e premiare i buoni” (1Pt 2,13-14).

Questa “sottomissione” e ubbidienza non consistono in un ossequio formalistico al diritto vigente, ma nel riconoscimento e nell’attuazione dei diritti fondamentali di tutte le persone e nell’impegno a contribuire perché si affermi sempre la giusta pace sociale.

Sotto questo profilo la legge civile è da vedersi come uno “strumento” a servizio della persona e, di conseguenza, può anche essere criticata nell’intento di renderla meglio rispondente alla sua funzione propulsiva e attuativa del bene comune. Essa è una condizione necessaria perché tutti i cittadini siano autenticamente liberi e la società, pur nei suoi inevitabili conflitti, possa crescere armonicamente. In questo cammino di maturazione la comunità cristiana, sensibile alle esigenze della promozione integrale dell’uomo e del bene comune, è chiamata ad offrire il proprio contributo di crescita della legalità, anche se è consapevole che gli obiettivi della Chiesa sono di ordine morale e spirituale e perseguono fini che trascendono la storia.

Le ripetute prese di posizione della Chiesa italiana, soprattutto nell’ultimo ventennio, testimoniano la sua costante preoccupazione di contribuire al bene del Paese, condividendone i problemi e risvegliando e sollecitando la coscienza morale, fondamento ineliminabile di ogni autentico progresso civile e sociale. La Chiesa italiana intende continuare questo servizio alla società civile, con i contenuti e con lo stile che le sono propri, soprattutto attraverso la predicazione, la catechesi, le varie iniziative di presenza e di servizio sul territorio, perché i cristiani considerino lo Stato democratico non come una realtà estranea, ma come il luogo sociale e politico al quale appartengono a pieno titolo di cittadini e nel quale si impegnano a migliorare la convivenza di tutti testimoniando e proponendo i grandi valori umani ed evangelici della dottrina sociale della Chiesa.

Etica della socialità e della solidarietà

11. La crescita del senso della legalità nel nostro Paese ha come necessario presupposto un rinnovato sviluppo dell’etica della socialità e della solidarietà.

Riconoscere la distinzione e il rapporto che intercorrono tra norme generali e comportamenti particolari, tra l’uso dei mezzi e il conseguimento dei fini, tra i valori proclamati e la loro concreta realizzazione, è una condizione previa perché il principio di legalità venga compreso e si affermi.

Se i comportamenti si slegano dalle norme, perché diventano legge a se stessi, perde senso ogni riferimento ad un ordinamento legale. Se i mezzi vengono valutati esclusivamente in base ai loro esiti immediati, scompare la progettualità nella società degli uomini e quindi il riferimento a leggi comuni. D’altra parte se i fini vengono affermati senza un preciso riferimento alle loro condizioni concrete di realizzazione, ogni norma potrebbe apparire un attentato alla loro idealità. Ad esempio, fa parte di una giusta pratica dell’eticità della convivenza umana anche l’impegno per una buona efficienza dei servizi pubblici, della loro qualità in termini di accessibilità, rapidità, competenza, mentre il loro scadimento determina disaffezione dei cittadini verso lo Stato democratico e quindi nei riguardi delle sue norme. Al contrario, sono lontane dall’autentica legalità sia la logica mafiosa dei comportamenti che si fanno legge nel momento stesso in cui si attuano, sia la dinamica contrattualistica che pretende di risolvere tutto nella logica dello scambio.

Si comprende così come il principio della legalità si intrecci con quello della solidarietà, e quanto sia pericolosa l’illusione di ritenere chiuso il capitolo solidaristico, per rimettere il futuro interamente alla capacità dei singoli individui.

Oggi è ancor più necessario di un tempo un profondo senso di solidarietà, che abbracci tanto le forme “corte” di solidarietà, come quelle incentrate sui legami familiari e sui rapporti privati, quanto quelle “lunghe”, che fanno riferimento a realtà vaste e complesse, e perciò esigono interventi di lungo periodo con un’attenta valutazione dei bisogni e delle risorse disponibili. La solidarietà deve collegare i gruppi politicamente, culturalmente ed economicamente più forti con quelli più deboli, gli anziani con i giovani, il nord con il sud, i cittadini con gli immigrati. Una simile solidarietà si può affermare solo con la collaborazione attiva di tutti, in ordine a far sì che le strutture della società siano sempre più corrispondenti alle esigenze fondamentali di libertà, di giustizia, di eguaglianza della persona umana. Per questa via potrà svilupparsi un autentico senso dello Stato e, con esso, della moralità civica.

La ricerca del bene comune

12. Un secondo fattore, legato intimamente al senso della legalità, è la ricerca del bene comune. Questo costituisce il fine dell’organizzazione di ogni società.

Secondo l’insegnamento del concilio Vaticano II: “Il bene comune della società, che è l’insieme di quelle condizioni di vita sociale grazie alle quali gli uomini possono conseguire il loro perfezionamento più pienamente e con maggiore speditezza, consiste soprattutto nel rispetto dei diritti e dei doveri della persona umana”. La ricerca del bene comune si fonda nel riconoscimento della pari dignità di ogni uomo e della sua originaria dimensione sociale, per la quale tutti gli uomini sono tra loro interdipendenti e sono pertanto chiamati a collaborare al bene di tutti.

La rivelazione e la fede cristiana offrono motivazioni e risorse originali per la ricerca del bene comune. La certezza di Dio, creatore, padre e salvatore di ogni uomo, il riconoscimento della libertà personale nell’accoglienza del dono della fede, l’affermazione della responsabilità di ogni uomo verso gli altri uomini, con l’intensità propria della carità evangelica, fanno della ricerca del bene comune da parte del cristiano una doverosa espressione della fraternità umana universale.

Il bene comune si presenta perciò come meta e impegno che unifica gli uomini al di là della diversità dei loro interessi, e che esige la cura che ogni cittadino deve avere per la legge, la cui finalità è precisamente di proteggere e di promuovere il concreto bene di tutti.

Si oppongono perciò alla ricerca del bene comune, e quindi al senso della legalità, non solo l’egoismo individuale, ma anche le situazioni economico-sociali nelle quali si sono solidificate ingiustizie, ossia le cosiddette strutture di peccato, che favoriscono gli interessi solo di alcuni a danno degli altri uomini. Inoltre, come difficoltà particolare dei nostri tempi, si deve registrare anche il grande pluralismo di idee e di convinzioni, che riguarda gli stessi valori fondamentali della vita e che origina una società frammentata da progetti sociali e politici profondamente diversi e radicati in prospettive di valori assai differenti e contrastanti.

Questi ostacoli possono aggravare il senso di sfiducia nello Stato e legittimare quel rifugio nel privato, che cerca dalle istituzioni solo vantaggi e si difende da esse quando chiedono il pagamento dei costi. Analoga sfiducia e rinuncia di fatto a perseguire il bene comune sono presenti nel tentativo di superare i conflitti con la stessa logica che li genera, quella cioè della contrapposizione e della lotta per far prevalere con tutti i mezzi il proprio punto di vista e l’interesse individuale.

In questo contesto sociale e culturale la ricerca del bene comune, quale anima e giustificazione del principio di legalità, esige contemporaneamente una più ampia e capillare diffusione del senso della solidarietà tra gli uomini, una maggior vigilanza in ambito morale e legislativo perché non si costituiscano dei monopoli di potere e soprattutto una decisa e sistematica educazione delle coscienze per il superamento di mentalità privatistiche ed egoistiche. A questo compito educativo la Chiesa si sente direttamente impegnata in forza della sua missione pastorale, perché sa con certezza che soltanto l’accoglienza della piena verità sull’uomo può portare al vero bene comune.

Bene comune e condizione interculturale

13. Il bene comune domanda anche che si mettano in atto iniziative orientate ad affrontare i problemi posti dalla società interculturale, verso cui il nostro Paese si sta ormai avviando. In primo luogo è da richiamarsi la responsabilità dei luoghi e delle forze educative, che devono proporre e aiutare la comprensione delle differenze, passando dalla “cultura dell’indifferenza” alla “cultura della differenza”, e da questa alla “convivialità delle differenze”, senza per questo sfociare in forme di eclettismo nei riguardi della verità o di indifferenza di fronte ai valori della vita.

Quest’opera di promozione educativa deve essere sostenuta da tutti e deve essere accompagnata non solo dai singoli o dai gruppi, ma anche dall’organizzazione giuridica della società e dai suoi comportamenti. Pertanto, anche sul piano legislativo bisogna che si passi da un approccio che tiene presenti soltanto le esigenze monoculturali ad un altro aperto a logiche più ampie di tipo interculturale.

In questa logica di apertura si inserisce quella “cultura della nazione” di cui parla l’enciclica Centesimus annus EV 13/235 e che consiste nell’impegno di essere fedeli alla propria identità, ossia a quel patrimonio di valori tramandati e acquisiti che costituiscono il tessuto culturale di un popolo. Essa però consiste anche nella ricerca continua e a tutto campo della verità, e quindi nel “rendere quei valori più vivi, attuali e personali, discernendo ciò che nella tradizione è valido da falsità ed errori o da forme invecchiate, che possono essere sostituite da altre più adeguate ai tempi. In questo contesto, conviene ricordare che anche l’evangelizzazione si inserisce nella cultura delle nazioni, sostenendola nel suo cammino verso la verità e aiutandola nel lavoro di purificazione e di arricchimento”. Possiamo cogliere anche qui lo stretto legame tra il Vangelo e la cultura e il rapporto che nell’educazione dell’uomo esiste tra l’attività pastorale della Chiesa e la normativa giuridica dello Stato.

Obbedienza alla legge e obiezione di coscienza

14. Un problema particolare che oggi si pone di fronte ad una cultura della legalità è quello dell’obiezione di coscienza. Come conciliare il dovere dell’obbedienza alla legge con l’obiezione di coscienza? La riserva del giudizio di coscienza non può condurre a vanificare ogni imperatività della legge?

 Occorre affermare innanzitutto che l’obiezione di coscienza si radica non nell’autonomia assoluta del soggetto rispetto alla norma e tanto meno nel disprezzo della legge dello Stato, ma nella coerente fedeltà alla stessa fondazione morale della legge civile. L’obiezione di coscienza, infatti, di fronte ad una legge dello Stato attesta il valore prioritario della persona e della sua giusta libertà, afferma la necessità che ogni norma civile sia coerente con il valore morale e richiama a tutti, e in primo luogo ad ogni cristiano, che bisogna ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini.

L’obiezione di coscienza è, dunque, qualcosa di estremamente serio, avendo il suo fondamento nello stesso modo di pensare l’uomo, la sua dipendenza da Dio e il suo rapporto con lo Stato e con le sue leggi. Si collega ad una precisa antropologia personalistica, rifiuta ogni concezione totalizzante dello Stato, punta decisamente sull’intima connessione tra legalità e moralità e assume una connotazione morale, anzi religiosa. In questo senso la forma più alta di obiezione di coscienza nella tradizione cristiana è stata quella dei martiri, i quali hanno pagato con la vita la loro fedeltà a Dio in contrasto con la legge degli uomini.

L’obiezione di coscienza, fondata sulla dignità e sulla libertà della persona, “è un diritto nativo e inalienabile, che gli ordinamenti civili delle società devono riconoscere, sancire e proteggere: diversamente si rinnega la dignità personale dell’uomo e si fa dello Stato la fonte originaria e l’arbitro insindacabile dei diritti e dei doveri delle persone”.

È necessario poi osservare che l’obiezione di coscienza si configura in maniera diversa in uno Stato totalitario e in uno Stato democratico. Il primo pretende dai cittadini un’adesione totale della coscienza alla legge, non concedendo né spazi per convincimenti diversi da quelli di coloro che detengono il potere, né la possibilità di prefigurare una diversa soluzione legislativa dei problemi della società. Il secondo, lo Stato democratico, non impone un’adesione incondizionata alle regole fissate dall’autorità, ma lascia al cittadino la possibilità di riflettere e di esprimere liberamente le proprie obiezioni sulla realtà legislativa del momento, e così di preparare il nuovo, operando per un’eventuale modifica della mentalità comune e della stessa legislazione. Viene così riconosciuta la possibilità di sottrarsi ad alcuni dettati della legge, qualora la coscienza del singolo cittadino, non per semplice personale capriccio, ma per un giustificato motivo etico, ritenga di obbedire a scelte diverse. In tal modo lo Stato riconosce di non poter essere totalizzante, non solo perché non chiede un’adesione incondizionata della coscienza del singolo alla legge, ma anche perché non esige da tutti e in tutti i casi lo stesso comportamento esteriore, quando questo dovesse costringere il soggetto a contravvenire a quei doveri ai quali si sente obbligato per motivi inalienabili di eticità.

Bisogna inoltre tenere presente che l’obiezione di coscienza non si esprime soltanto nelle due forme più diffuse in questi ultimi anni, quella al servizio militare e quella all’intervento d’aborto. A proposito poi di queste due forme è del tutto necessario rilevarne la diversità di prospettiva: nel caso del servizio militare non esiste propriamente una morale obbligatorietà di opposizione ad esso, ma si ha una significativa scelta profetica nei confronti dell’uso delle armi; nel secondo caso il comandamento di non uccidere l’innocente obbliga moralmente in modo grave tutti e sempre, senza eccezioni.

L’obiezione di coscienza, comunque, si motiva solo quando è in gioco una ragione etica imprescindibile per il soggetto. Infatti l’ordinamento giuridico non può affidarsi alla psicologia varia di singoli soggetti portati talvolta a vedere una crisi di coscienza laddove questa non è in realtà chiamata in causa, trattandosi soltanto di opinioni del tutto personali: diversamente l’ordinamento giuridico si dissolverebbe in miriadi di posizioni, nelle quali diverrebbe impossibile la stessa convivenza sociale. Egualmente l’ordinamento giuridico non può tener conto del semplice dissenso di un cittadino ad una legge dello Stato, della quale non comprende il significato e il valore. L’obbedienza alla legge, se non si vuole un’anarchia basata su di un individualismo sfrenato, può e deve essere pretesa, quando non contraddice alle oggettive e fondamentali esigenze della coscienza, nel senso sopra ricordato, e comunque tenendo ben presente che non è compito dello Stato stabilire norme di coscienza, dal momento che il cristiano non accetta uno Stato etico. Infine l’ordinamento giuridico non può accettare neppure quella forma di obiezione che è stata chiamata “obiezione ipotetica”: questa non tende ad affermare un valore etico o religioso, ma solo a negare un certo modello sociale e, pertanto, si basa solo su ideologie diverse da quelle accolte dall’ordinamento vigente. L’ordinamento giuridico deve essere vigilante e scoraggiare chi, ricorrendo all’obiezione, tende in realtà non a salvaguardare la coscienza e i suoi valori, ma solo a tutelare la propria comodità o, peggio ancora, interessi di casta o di corporazione.

Solo l’obiezione di coscienza rettamente intesa e sollevata, e talvolta anche riconosciuta dall’ordinamento giuridico, proprio perché è rispettosa dei fondamentali valori morali della persona, non diminuisce ma rafforza il senso della legalità: la legge civile non può essere un’imposizione violentatrice della coscienza, dev’essere, invece, uno strumento reale di crescita umana dei singoli e della società.

La formazione dei cittadini

15. Il senso della legalità non è un valore che si improvvisa. Esso esige un lungo e costante processo educativo. La sua affermazione e la sua crescita sono affidati alla collaborazione di tutti, ma in modo particolare alla famiglia, alla scuola, alle associazioni giovanili, ai mezzi di comunicazione sociale, ai vari movimenti che nel Paese hanno un potere di aggregazione e un compito educativo, ai partiti e alle varie istituzioni pubbliche.

La comunità cristiana, con le sue varie strutture, è anch’essa impegnata in quest’opera formativa: la parrocchia attraverso la catechesi e le sue molteplici iniziative culturali, formative e caritative; l’associazionismo, specie giovanile, con un’attenta considerazione dell’itinerario formativo della persona; il volontariato che si pone al servizio delle persone in difficoltà e che è chiamato a testimoniare la dedizione, la condivisione, la gratuità in una funzione non solo di supplenza delle carenze sociali, ma anche propositiva, per eliminare le cause che generano le molte povertà materiali e spirituali delle quali l’uomo di oggi soffre.

L’affievolirsi del senso della legalità nelle coscienze e nei comportamenti denuncia una carenza educativa in rapporto non solo alla formazione sociale dei cittadini, ma anche alla stessa formazione personale. È necessario far emergere nell’opera educativa in modo vigoroso la dignità e la centralità della persona umana, l’importanza del suo agire in libertà e responsabilità, il suo vivere nella solidarietà e nella legalità.

Recentemente Giovanni Paolo II ha richiamato con forza la necessità di ricuperare il senso della legalità e di impegnarsi per la sua formazione: “Non v’è chi non veda l’urgenza di un grande ricupero di moralità personale e sociale, di legalità. Sì, urge un ricupero di legalità!… Da una restaurata moralità sociale a tutti i livelli deriverà un nuovo senso di responsabilità nell’agire pubblico, come pure un ampliamento dei luoghi di formazione sociale e un più motivato impulso alle diverse forme di partecipazione e di volontariato”.

La Chiesa riconosce che la “norma” fondamentale viene da lontano: viene dalla sapienza e dall’amore di Dio creatore ed è iscritta nella coscienza di ciascuna persona, prima ancora di presentarsi nella forma di una disposizione dell’autorità umana. Proprio per questo la Chiesa insegna che la fedeltà alla “norma” così intesa, e dunque anche alla legge civile, è fedeltà all’uomo, ai suoi valori e alle sue finalità e insieme fedeltà a Dio. In simile contesto si comprende come le comunità cristiane in più occasioni sono impegnate in corsi di formazione all’impegno socio-politico, nei quali viene riservato uno spazio ai problemi della legalità.

I cristiani laici sono chiamati a partecipare, con tutti gli altri uomini, alla costruzione comune della società e, nello stesso tempo, devono avere una coscienza sempre più viva della grandezza e della bellezza della loro vocazione cristiana e della peculiarità della loro condizione “laicale”, che li pone sulla frontiera tra la fede e la storia, tra il Vangelo e la cultura, tra l’azione dello Spirito Santo e le competenze e responsabilità umane in ordine a costruire una società sempre più autenticamente umana e più vicina al regno di Dio. In tutto questo i cristiani siano esemplari proprio come “cittadini”, sempre ricordando il monito del concilio: “Sacro sia per tutti includere tra i doveri principali dell’uomo moderno, e osservare, gli obblighi sociali”.

Ai cristiani impegnati in politica

16. In questo momento storico vogliamo ancora una volta rivolgere la nostra attenzione particolare ai cristiani variamente impegnati nella politica. Sono tra i primi responsabili della crescita o del declino del senso della legalità nel nostro Paese. Per questo vorremmo richiamare di nuovo alcuni orientamenti che devono guidare la loro azione.

L’uomo, con i suoi bisogni materiali e spirituali, sia posto sempre al centro della vita economica e sociale, e costituisca la preoccupazione prima di tutta l’azione politica.

Nel riconoscimento della giusta autonomia delle realtà terrene, siano costantemente affermati e chiaramente testimoniati quei valori umani ed evangelici “che sono intimamente connessi con l’attività politica stessa, come la libertà e la giustizia, la solidarietà, la dedizione fedele e disinteressata al bene di tutti, lo stile semplice di vita, l’amore preferenziale per i poveri e per gli ultimi”.

L’impegno politico sia decisamente alimentato dallo spirito di servizio “che solo, unitamente alla necessaria competenza ed efficienza, può rendere trasparente o pulita l’attività degli uomini politici, come del resto la gente giustamente esige”.

Chi ha responsabilità politiche e amministrative abbia sommamente a cuore alcune virtù, come il disinteresse personale, la lealtà nei rapporti umani, il rispetto della dignità degli altri, il senso della giustizia, il rifiuto della menzogna e della calunnia come strumento di lotta contro gli avversari, e magari anche contro chi si definisce impropriamente amico, la fortezza per non cedere al ricatto del potente, la carità per assumere come proprie le necessità del prossimo, con chiara predilezione per gli ultimi.

Non siano mai sacrificati i beni fondamentali della persona o della collettività per ottenere consensi; l’azione politica da strumento per la crescita della collettività non si degradi a semplice gestione del potere, né per fini anche buoni ricorra a mezzi inaccettabili. La politica non permetta che si incancreniscano situazioni di ingiustizia per paura di contraddire le posizioni forti. Si tagli l’iniquo legame tra politica e affari. Siano facilitati gli strumenti di partecipazione diretta dei cittadini alle scelte fondamentali della vita comunitaria.

La funzione politica della società civile

17. Per un corretto svolgimento della vita sociale è indispensabile che la comunità civile si riappropri quella funzione politica, che troppo spesso ha delegato esclusivamente ai “professionisti” di questo impegno nella società. Non si tratta di superare l’istituzione “partito”, che rimane essenziale nell’organizzazione dello Stato democratico, ma di riconoscere che si fa politica non solo nei partiti, ma anche al di fuori di essi, contribuendo ad uno sviluppo globale della democrazia con l’assunzione di responsabilità di controllo e di stimolo, di proposta e di attuazione di una reale e non solo declamata partecipazione.

La lotta per la rimozione delle strutture sociali ingiuste è un impegno che non può essere affidato in modo unico ed esclusivo ai partiti. Anche la società civile ha da svolgere una sua funzione politica, facendosi carico dei problemi generali del Paese, elaborando progetti per una migliore vita umana a favore di tutti, controllando anche la loro attuazione, denunciando disfunzioni e inerzie, esigendo con gli strumenti democratici, messi a disposizione dei cittadini, che la mensa non sia apparecchiata solo per chi ha potere, ma per tutti.

ConclusioneGiustizia e carità

18. La legalità, intesa come rispetto e osservanza delle leggi, è una forma particolare della giustizia. E questa, a sua volta, nasce e fiorisce sul riconoscimento della dignità personale di ogni uomo, e quindi dei suoi diritti e dei suoi doveri, e sul riconoscimento dell’essenziale dimensione sociale della persona. Per questo la giustizia e la legalità, colte nelle loro radici profonde, scaturiscono dalla moralità e si configurano come amore – e per i credenti come carità o amore evangelico – verso ciascuna persona e verso la comunità.

In questa prospettiva è possibile considerare il senso della legalità e l’impegno educativo ad esso come un’esigenza e un frutto di quel “Vangelo della carità” che i vescovi propongono quale orientamento pastorale fondamentale alle Chiese in Italia per gli anni ‘90. “Nella situazione odierna – essi scrivono -, e in stretto rapporto con l’imperativo della nuova evangelizzazione, anche la testimonianza della carità va “pensata in grande” e articolata nelle sue molteplici e correlate dimensioni”. Certamente una modalità per pensare in grande la carità e per testimoniarla sulle nuove frontiere è quella di saper coniugare carità e giustizia: sono tra loro coordinate e intimamente unite, sicché insieme sussistono o cadono; ma il principio ispiratore è la carità. In tal senso i vescovi italiani continuano: “La carità autentica contiene in sé l’esigenza della giustizia: si traduce pertanto in un’appassionata difesa dei diritti di ciascuno. Ma non si limita a questo, perché è chiamata a vivificare la giustizia, immettendo un’impronta di gratuità e di rapporto interpersonale nelle varie relazioni tutelate dal diritto”.

Proprio grazie al dono della carità, ai credenti è chiesto di farsi, all’interno dell’attuale società, coscienza critica e testimonianza concreta del vero senso della legalità.

Roma, 4 ottobre 1991Festa di s. Francesco d’Assisi, patrono d’Italia