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Nota Cei: Il cinquantesimo anniversario dell’Enciclica «Fidei donum» di Pio XII
Conferenza Episcopale Italiana
Nota della Commissione Episcopale per l’evangelizzazione dei popoli e la cooperazione tra le Chiese
Sono passati cinquant’anni da quando, il 21 aprile 1957, papa Pio XII pubblicò la Lettera enciclica Fidei donum, nella quale rilanciava l’urgenza dell’attività missionaria ed esortava le diocesi del mondo a inviare presbiteri e laici ad annunciare il Vangelo alle genti. Gli scenari mondiali sono radicalmente mutati e la Chiesa ha vissuto nel frattempo il grandioso evento del concilio Vaticano II. Eppure il documento mantiene una straordinaria validità, pur richiedendo di essere ricompreso alla luce della situazione attuale.
Rileggendo, infatti, a cinquant’anni di distanza l’esperienza dei presbiteri e dei laici fidei donum, dalle prime coraggiose partenze alle forme di cooperazione tra Chiese maturate nel volgere del tempo, non è difficile rendersi conto di quanto essa abbia contribuito alla crescita missionaria delle nostre comunità, in uno scambio di doni tra Chiesa che invia e Chiesa che accoglie: «Da questa cooperazione sono scaturiti abbondanti frutti apostolici sia per le giovani Chiese in terra di missione, che per le realtà ecclesiali da cui provenivano i missionari» (Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata missionaria mondiale 2007).
Per questo la Chiesa italiana si associa alla gratitudine espressa recentemente dal Papa per i fidei donum: «Rendiamo grazie al Signore per i frutti abbondanti ottenuti da questa cooperazione missionaria in Africa e in altre regioni della terra. Schiere di sacerdoti, dopo aver lasciato le comunità d’origine, hanno posto le loro energie apostoliche al servizio di comunità talora appena nate, in zone di povertà e in via di sviluppo. Tra loro ci sono non pochi martiri che, alla testimonianza della parola e alla dedizione apostolica, hanno unito il sacrificio della vita. Né possiamo dimenticare i molti religiosi, religiose e laici volontari che, insieme ai presbiteri, si sono prodigati per diffondere il Vangelo sino agli estremi confini del mondo» (Ibid.).
In profonda sintonia con il costante insegnamento dei Papi negli ultimi cinquant’anni, la Commissione Episcopale per l’evangelizzazione dei popoli e la cooperazione tra le Chiese vuole ribadire l’importanza della missio ad gentes, anche quando ci sentiamo condizionati dalla scarsità dei mezzi e dalla penuria di sacerdoti, certi che la generosità delle nostre Chiese sarà ripagata dal Signore. In particolare, vogliamo rilanciare nel contesto italiano la validità della proposta missionaria inaugurata dall’enciclica di Pio XII.
Questa Nota ci offre, in primo luogo, l’opportunità di esprimere vicinanza e gratitudine a tutti i missionari fidei donum che hanno operato e a quelli che operano nei vari Paesi del mondo. Desideriamo sottolineare, inoltre, l’apporto e la rilevanza degli altri soggetti che esprimono l’impegno missionario delle nostre Chiese: i membri degli Istituti missionari, le religiose e religiosi di Congregazioni e Istituti che fin dall’origine si sono dedicati alla missio ad gentes, quanti appartengono a nuove forme di vita consacrata e i tanti laici missionari, parte viva di organismi e aggregazioni ecclesiali.
Ripercorrendo il passato e analizzando il presente dell’opera dei presbiteri e laici fidei donum, vogliamo guardare alle sfide e alle prospettive del futuro, con l’auspicio che le nostre parrocchie e le nostre diocesi assumano sempre più un volto missionario.
I. LA CELEBRAZIONE DEL 50° ANNIVERSARIO DELL’ENCICLICA FIDEI DONUM: EVENTO DI GRAZIA PER LE NOSTRE CHIESE
L’enciclica Fidei donum di Pio XII
1. L’enciclica Fidei donum [FD] nasce dalla preoccupazione di Pio XII per lo stato del cattolicesimo in Africa. Senza trascurare «le regioni scristianizzate d’Europa», «le vaste contrade dell’America del Sud» e le «missioni di Asia e di Oceania», egli intende orientare lo sguardo «verso l’Africa, nell’ora in cui essa si apre alla vita del mondo moderno ed attraversa gli anni forse più gravi del suo destino millenario»[1].
Riferendosi al particolare momento storico che quel continente allora attraversava, nella prima parte dell’enciclica il Papa si mostra preoccupato che il «falso nazionalismo», alimentato dalle ideologie materialiste e atee, approfitti della situazione, a volte caotica, e determini scelte precipitose. Anche la presenza di «credenze pagane» ancora radicate interpella fortemente la Chiesa. Pio XII osserva che, di fronte a questa situazione, «non si può sperare prima di un lungo tempo un notevole aiuto del clero locale, ed i troppo rari missionari, sparsi su territori immensi, dove lavorano inoltre altre confessioni non cattoliche, non possono più rispondere a tutte le esigenze».
Per questo, pur registrando con gioia la crescita delle Chiese africane e ricordando l’aumento delle circoscrizioni ecclesiastiche, la crescita numerica dei cattolici, il sorgere e il consolidarsi del clero e dell’episcopato autoctono e il lavoro preziosissimo di «legioni di apostoli, sacerdoti, religiosi e religiose, catechisti, collaboratori laici», si dice convinto che il lavoro da compiere è immenso. Un numero più consistente di sacerdoti potrebbe favorire l’evangelizzazione, nonché la fondazione e il consolidamento di opere e strumenti indispensabili all’irradiazione della fede, come collegi e scuole, strutture di animazione sociale, stampa, dando impulso all’Azione Cattolica.
Descritta così brevemente la situazione, richiamando la sua funzione di mantenere vivo l’«interessamento ai bisogni universali della Chiesa», il Papa entra nel merito di proposte concrete: le Chiese d’Africa attendono dai cattolici la triplice assistenza della preghiera (soprattutto la Messa), della generosità (attraverso le Pontificie Opere Missionarie) e del dono di sé. Per quest’ultimo aspetto bussa alle porte delle diocesi più ricche di vocazioni, ma anche con audacia di quelle meno ricche: «Dio non si lascia vincere in generosità». Il Pontefice invita quindi accoratamente i vescovi a farsi animatori, con tutti i mezzi, dell’attenzione missionaria nelle loro diocesi, fino al dono temporaneo di alcuni sacerdoti diocesani.
La parte più nota e certamente più innovativa dell’enciclica è proprio quella nella quale Pio XII incentiva la «forma di aiuto scambievole», secondo cui i vescovi «autorizzano qualcuno dei loro sacerdoti, sia pure a prezzo di sacrifici, a partire per mettersi, per un certo limite di tempo, a disposizione degli Ordinari d’Africa. Così facendo, rendono loro un impareggiabile servizio, sia per assicurare l’introduzione, saggia e discreta, di forme nuove e più specializzate del ministero sacerdotale, sia per sostituire il clero di dette diocesi nelle mansioni dell’insegnamento ecclesiastico e profano, cui quello non può far fronte». Egli non dimentica infine i «militanti laici», che «offrono a diocesi recenti il vantaggio di una lunga esperienza dell’Azione Cattolica e dell’azione sociale, come pure di altre forme particolari di apostolato». Concludendo l’enciclica, il Papa ribadisce che l’attenzione all’Africa non deve far dimenticare gli altri campi della missione, e soprattutto l’Estremo Oriente.
La FD, pur riflettendo un contesto storico specifico, mantiene una grande attualità. In primo luogo, se la situazione ecclesiale in Africa è assai maturata, lo si deve anche all’enciclica di Pio XII, che ha risvegliato l’attenzione verso quel continente e ha suscitato nelle diocesi del mondo, soprattutto in quelle europee e nordamericane, una nuova vitalità missionaria. Inoltre il documento, pur essendo centrato sull’Africa, è stato poi recepito a più vasto raggio, e i fidei donum sono stati inviati anche in America Latina e, sia pure in misura minore, in Asia. Il valore della FD sta anche nel fatto che essa rappresenta il primo autorevole rilancio del protagonismo missionario delle diocesi, dopo che nel 1622, con l’istituzione della Congregazione de Propaganda Fide, la Santa Sede aveva assunto il coordinamento dell’attività missionaria nel mondo.
Già in precedenza vi erano state istanze e tentativi di coinvolgere preti diocesani per la missio ad gentes, ma si era trattato di esperienze isolate. Fu la FD a introdurre il criterio della diocesanità, attivando una prassi di scambio tra le Chiese che, come accennato nel testo stesso, va a beneficio non solo delle Chiese che accolgono ma anche di quelle che inviano i missionari. In questo senso, essa ha dissodato il terreno all’approfondimento dottrinale della natura missionaria della Chiesa e della stessa missione ad gentes operato dal concilio Vaticano II.
Il decreto Ad gentes,ai nn. 2-4, riprendendo il grande quadro trinitario di Lumen gentium 2-4, si apre con un’affermazione lapidaria: «La Chiesa pellegrinante per sua natura è missionaria»[2]. L’annuncio del Vangelo risulta perciò non semplicemente un’attività accessoria e passeggera del popolo di Dio, ma ne connota la realtà stessa. La Chiesa, infatti, «trae origine dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo, secondo il disegno di Dio Padre»[3]. In quanto opera trinitaria, la Chiesa è segnata per sempre, nella sua natura, dalla spinta a uscire da se stessa verso il mondo. Essa non fa semplicemente missione, ma è missione, cioè esiste per comunicare al mondo la vita divina. Per questo, alla Chiesa intera appartiene il «carattere missionario»[4]; essa è «tutta missionaria», «essendo l’opera di evangelizzazione dovere fondamentale del popolo di Dio»[5]; in essa «c’è diversità di ministero ma unità di missione»[6]. In tal modo il concilio Vaticano II ha ricondotto la missione non solo alla sua fondazione trinitaria, sottraendola a una valenza esclusivamente funzionale e contingente, ma anche alla sua radice battesimale, liberandola da quella delega che la rendeva appannaggio dei ministri ordinati e dei religiosi. Cristiano e missionario non identificano più due figure distinte, ma sono qualifiche inscindibili del discepolo di Gesù.
Evidenziando la natura missionaria di tutta la Chiesa, i testi conciliari non hanno tuttavia inteso sminuire le missioni o l’attività missionaria ad gentes: al contrario, le hanno rilanciate a partire dalla rinnovata coscienza missionaria dell’intero popolo di Dio. Così la costituzione Lumen gentium afferma che proprio in virtù del mandato missionario dato da Gesù a tutta la Chiesa (cfr Gv 20,21; Mt 28,19-20; At 1,8), essa fa proprie le parole dell’Apostolo: «guai a me se non predicassi il Vangelo!» (1 Cor 9,16); «perciò continua a mandare ininterrottamente missionari, fino a che le nuove Chiese siano pienamente costituite e anch’esse continuino l’opera di evangelizzazione»[7]. La missione alle genti, in altre parole, è espressione privilegiata della stessa natura missionaria della Chiesa[8].
La correlazione missione-missioni è presente nei testi del Vaticano II, non solo in chiave universale ma anche locale. Facendo tesoro delle acquisizioni conciliari circa la consistenza teologica della Chiesa particolare retta dal vescovo[9], il decreto sull’attività missionaria afferma: «La Chiesa particolare, dovendo rappresentare nel modo più perfetto la Chiesa universale, abbia la piena coscienza di essere inviata anche a coloro che non credono in Cristo e convivono nello stesso territorio»[10]. Le Chiese particolari vengono riconosciute come luoghi di maturazione e progettazione della missionarietà, arrivando a invitare i sacerdoti diocesani a offrirsi «generosamente al proprio vescovo, per iniziare l’attività missionaria nelle zone più lontane ed abbandonate della propria diocesi o anche in altre diocesi», e persino le giovani Chiese sono sollecitate a partecipare «quanto prima di fatto alla missione universale della Chiesa, inviando anch’esse dei missionari a predicare dappertutto il Vangelo, anche se soffrono per scarsezza di clero»[11].
Ma è in Ad gentes che il Vaticano II, parlando del «dovere missionario dei vescovi», menziona esplicitamente e in un certo senso aggiorna la FD. Potendosi ormai fondare sulla dottrina della collegialità episcopale[12], il decreto afferma che i vescovi «sono stati consacrati non soltanto per una diocesi, ma per la salvezza di tutto il mondo»[13]. È in forza di questa comunione universale che «le singole Chiese sentono la preoccupazione per tutte le altre, si informano reciprocamente dei propri bisogni, si scambiano l’una con l’altra i propri beni, essendo l’estensione del corpo di Cristo dovere dell’intero collegio episcopale»[14]. Il vescovo si deve adoperare senza riserve affinché tutta la diocesi si faccia missionaria. In questo contesto, il Concilio si ispira al passaggio essenziale della FD, quando «auspica che i vescovi, considerando la gravissima scarsezza di sacerdoti che impedisce l’evangelizzazione di molte regioni, mandino, debitamente preparati, alcuni dei loro migliori sacerdoti, perché si consacrino all’opera missionaria, alle diocesi mancanti di clero, dove almeno per un certo periodo eserciteranno con spirito di servizio il ministero missionario»[15].
Già il decreto Christus Dominus aveva inquadrato in termini molto chiari i doveri dei vescovi in ordine all’universalità della missione, citando esplicitamente anche la FD. I pastori, dice il testo, devono dimostrarsi «solleciti di quelle parti del mondo, dove la parola di Dio non è stata ancora annunziata o dove, specialmente a motivo dello scarso numero di sacerdoti, i fedeli sono in pericolo di allontanarsi dalla pratica della vita cristiana, anzi di perdere la stessa fede»[16]. Per questo motivo i vescovi devono aver cura di «preparare degni sacerdoti e ausiliari sia religiosi che laici, non solo per le missioni, ma anche per le regioni che hanno scarsezza di clero. Facciano anche ogni possibile sforzo, perché alcuni dei loro sacerdoti si rechino o in terra di missione o nelle diocesi predette ad esercitarvi il sacro ministero per tutta la loro vita o almeno per un determinato periodo di tempo»[17].
Infine, va ricordato che un testo conciliare fondamentale sull’attività missionaria ad gentes dei presbiteri rimane quanto si legge in Presbiterorum ordinis: «Il dono spirituale che i presbiteri hanno ricevuto nell’ordinazione non li prepara ad una missione limitata e ristretta, bensì ad una vastissima e universale missione di salvezza, fino agli ultimi confini della terra (At 1,8), dato che qualunque ministero sacerdotale partecipa della stessa ampiezza universale della missione affidata da Cristo agli apostoli ( ). Ricordino quindi i presbiteri che a loro incombe la sollecitudine di tutte le Chiese. Pertanto, i presbiteri di quelle diocesi che hanno maggior abbondanza di vocazioni, si mostrino disposti a esercitare volentieri il proprio ministero, previo il consenso o l’invito del proprio ordinario, in quelle regioni, missioni o opere che soffrano scarsezza di clero»[18].
In definitiva, il concilio Vaticano II ha evidenziato il carattere missionario di tutto il popolo di Dio, fondandolo sulla natura della Trinità e sul sacramento del battesimo; ha mostrato come la missione preceda le missioni e le fondi, poiché rappresenta l’essere stesso della Chiesa, che è «come un sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano»[19]; ha infine rilevato che l’attività missionaria della Chiesa riguarda tutti, ma specialmente coloro che assumono direttamente l’impegno della missione ad gentes: tra questi anche i presbiteri diocesani, dai quali, sulla scia della FD, il Concilio auspica la disponibilità a svolgere il proprio ministero nelle Chiese maggiormente bisognose.
L’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi di Paolo VI
3. L’8 dicembre 1975, a dieci anni dal decreto conciliare Ad gentes, Paolo VI firmò l’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, che raccoglieva il frutto dei lavori del Sinodo sull’evangelizzazione celebrato nel 1974. Il contesto culturale, almeno in Occidente, era notevolmente mutato rispetto a dieci anni prima. L’ateismo militante e ideologico stava perdendo terreno, in favore di una secolarizzazione strisciante: numerosi studi denunciavano il passaggio da un ateismo prevalentemente teorico a uno pratico, dall’opposizione a Dio all’indifferenza nei suoi confronti, dalla contestazione aperta al rifiuto della domanda religiosa.
Il problema ecclesiologico fondamentale non era più la separazione tra laici e chierici, ricomposta dal Vaticano II con la dottrina della comunione e della missione del popolo di Dio, quanto la separazione tra Cristo e la Chiesa. Lo stesso Paolo VI lamentava la presenza di cristiani «che desiderano amare il Cristo, ma non la Chiesa, ascoltare il Cristo, ma non la Chiesa, appartenere al Cristo, ma al di fuori della Chiesa»[20]. Si rendeva necessario precisare il senso dell’urgenza espressa dal Concilio con la parola missione. Di qui il ricorso al termine evangelizzazione: non solo i più lontani, classici destinatari dell’attività missionaria della Chiesa, ma anche i fedeli e i praticanti hanno bisogno di ripartire dall’ascolto del Vangelo, che si incentra sull’evento dell’incarnazione, morte e risurrezione di Cristo[21].
Riprendendo il cuore della dottrina conciliare, Paolo VI afferma che evangelizzare «è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare (…); il Concilio Vaticano II ha ricordato e il Sinodo del 1974 ha fortemente ripreso questo tema della Chiesa che si evangelizza mediante una conversione e un rinnovamento costanti, per evangelizzare il mondo con credibilità»[22]. Il documento elenca dettagliatamente i contenuti dell’evangelizzazione, a partire dal suo nucleo cristologico, ne traccia gli stili, i destinatari e i soggetti, ricordando che essa è opera della Chiesa tutta intera prima che di singoli soggetti[23].
L’Istruzione Postquam apostoli della Congregazione per il clero
4. Cinque anni dopo, il 25 marzo 1980, è la Congregazione per il clero a intervenire con l’Istruzione Postquam apostoli, dedicata alla distribuzione del clero nel mondo. Tale distribuzione non risulta proporzionata, infatti, alla popolazione e ai battezzati nella Chiesa cattolica[24] Il maggiore ostacolo a una presenza più omogenea dei sacerdoti è individuato nella diminuzione numerica delle vocazioni: il testo richiama su questo punto la FD, ammonendo che la scarsità del clero non deve rallentare la generosità[25], e, riecheggiando l’enciclica, conclude: «Il mandato di Cristo non potrà mai essere adempiuto, se una Chiesa particolare volesse offrire alle Chiese più povere soltanto il superfluo delle sue forze»[26].
Infine, il documento si sofferma sulle caratteristiche richieste ai ministri che partono come fidei donum: devono essere ottimi sacerdoti, forniti di sicura dottrina, fede robusta, speranza incrollabile e zelo pastorale[27]. Devono essere adeguatamente preparati, prima della partenza, anche nella conoscenza della lingua e della cultura della popolazione presso la quale andranno[28]; lo scambio deve essere regolato mediante convenzioni e accordi tra la Chiesa che invia e quella che riceve[29].
L’enciclica Redemptoris missio di Giovanni Paolo II
5. Giovanni Paolo II, con l’Enciclica Redemptoris missio dell’8 dicembre 1990, ha offerto alla Chiesa una vera e propria carta costituzionale dell’attività missionaria ad gentes. Il contesto nel quale il Papa colloca la problematica delle missioni è mutato notevolmente rispetto a quello dei decenni precedenti e pone in primo piano il rapporto con le altre religioni, la tentazione dell’autogestione del sacro, la tendenza al sincretismo religioso: anche tra i cristiani si diffonde l’idea che le diverse religioni siano sostanzialmente equivalenti.
Il documento affronta le questioni fondamentali circa le missioni. Di particolare interesse rispetto al nostro argomento è la distinzione fra tre situazioni relative all’annuncio del Vangelo: una prima, caratterizzata dalla mancata conoscenza del Vangelo o dalla mancata plantatio Ecclesiae, che richiede la missione ad gentes: «Popoli,gruppi umani, contesti socio-culturali in cui Cristo e il suo Vangelo non sono conosciuti, o in cui mancano comunità cristiane abbastanza mature da poter incarnare la fede nel proprio ambiente e annunciarla ad altri gruppi». Una seconda situazione è quella in cui esistono «adeguate e solide strutture ecclesiali», nonché un fervore di fede e di vita, che costituiscono l’ambito della missione pastorale. Una terza situazione definita intermedia necessita di una nuova evangelizzazione o ri-evangelizzazione: essa si riscontra «specie nei paesi di antica cristianità, ma a volte anche nelle Chiese più giovani, dove interi gruppi di battezzati hanno perduto il senso vivo della fede, o addirittura non si riconoscono più come membri della Chiesa, conducendo un’esistenza lontana da Cristo e dal suo Vangelo»[30].
Giovanni Paolo II sottolinea poi che «i confini fra una pastorale dei fedeli, nuova evangelizzazione e attività missionaria specifica non sono nettamente definibili, e non è pensabile creare tra di esse barriere o compartimenti stagni ( ). È da notare, altresì, una reale e crescente interdipendenza tra le varie attività salvifiche della Chiesa: ciascuna influisce sull’altra, la stimola, l’aiuta ( ). La missionarietà ad intra è segno credibile e stimolo per quella ad extra, e viceversa»[31]. Con ciò il Papa mette in evidenza come la Chiesa viva pienamente la missione solo se si apre all’annuncio ad gentes
L’enciclica dedica molta attenzione alla collaborazione tra le Chiese, specialmente attraverso i presbiteri. Essa si riallaccia alla FD, ricordando che i sacerdoti devono essere disponibili a svolgere il loro ministero oltre i confini del loro Paese ed esprimendo nel contempo grande apprezzamento ai sacerdoti fidei donum: «Evidenziano in modo singolare il vincolo di comunione tra le Chiese, danno un prezioso apporto alla crescita di comunità ecclesiali bisognose, mentre attingono da esse freschezza e vitalità di fede»[32]. Si ribadisce quindi con forza che anche i laici, in forza del loro battesimo, «hanno diritto di impegnarsi sia come singoli sia riuniti in associazione, perché l’annuncio della salvezza sia conosciuto e accolto da ogni uomo in ogni luogo»[33].
In seguito l’enciclica tratta ancora della comunione tra le Chiese particolari attraverso lo scambio di missionari. Il testo rilancia il protagonismo missionario delle singole Chiese, insistendo sul fatto che esse, «pur radicate nel loro popolo e nella loro cultura, debbono tuttavia mantenere in concreto questo senso universalistico della fede, dando cioè e ricevendo dalle altre Chiese doni spirituali, esperienze pastorali di primo annunzio e di evangelizzazione, personale apostolico e mezzi materiali»[34]. Il testo ha parole severe nei confronti di «ogni forma di particolarismo, esclusivismo o sentimento di autosufficienza»[35], che può colpire sia le antiche sia le giovani Chiese. Le prime, infatti, «impegnate per la nuova evangelizzazione, pensano che ormai la missione debbono svolgerla in casa e rischiano di frenare lo slancio verso il mondo non cristiano, concedendo a malincuore le vocazioni agli istituti missionari, alle congregazioni religiose, alle altre Chiese»[36]. Alle seconde è rivolta un’esortazione incisiva: «lungi dall’isolarvi, accogliete volentieri i missionari e i mezzi dalle altre Chiese, e mandatene voi stesse nel mondo! Proprio per i problemi che vi angustiano avete bisogno di mantenervi in continua relazione con i fratelli e sorelle nella fede»[37].
I documenti della Conferenza Episcopale Italiana
6. In occasione del venticinquesimo anniversario della FD, il 21 aprile 1982, la Commissione Episcopale per la Cooperazione tra le Chiese pubblicò il Documento pastorale L’impegno missionario della Chiesa italiana, un testo ampio e articolato al quale ancora oggi si può utilmente riandare. Tra le molte problematiche legate alla missione, esso ricorda con particolare forza che la Chiesa particolare è missionaria per sua stessa natura, è soggetto primo della missionarietà. Tale caratteristica si esprime in maniera molto concreta nella continua osmosi tra missione e missioni. Due anni dopo, il 2 giugno 1984, la stessa Commissione pubblicò la Nota pastorale Sacerdoti diocesani in missione nelle Chiese sorelle. Si tratta di un testo di indole applicativa, che entra nei dettagli dello scambio dei fidei donum. L’apporto più rilevante riguarda la sottolineatura della diocesanità, evidenziando che i soggetti primari della missione sono le Chiese particolari. Dopo il Convegno nazionale missionario svoltosi a Bellaria nel settembre 1998, fu il Consiglio Episcopale Permanente a indirizzare alle comunità cristiane la Lettera L’amore di Cristo ci sospinge (4 aprile 1999), per rinnovare il loro impegno missionario ad gentes. In essa, tra l’altro, i vescovi e i presbiteri sono invitati a «stare in ascolto dello Spirito Santo, così da cogliere ogni sua sollecitazione per dare un’impronta missionaria alle comunità a noi affidate e per essere disponibili a coltivare i germi di vocazione che conducono i nostri fedeli, e anche i sacerdoti diocesani, a varcare i confini del nostro Paese per predicare il Vangelo in ogni luogo»[38].
La scelta di rilanciare l’attenzione delle comunità cristiane in Italia verso la missione è ribadita nel documento programmatico del decennio 2001-2010 Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, pubblicato il29 giugno 2001: «La missione ad gentes non è soltanto il punto conclusivo dell’impegno pastorale, ma il suo costante orizzonte e il suo paradigma per eccellenza»[39]. «Una Chiesa che dalla contemplazione del Verbo della vita si apre al desiderio di condividere e comunicare la sua gioia, non leggerà più l’impegnodell’evangelizzazione del mondo come riservato agli specialisti, quali potrebbero essere considerati i missionari, ma lo sentirà come proprio di tutta la comunità. D’altro canto, l’allargamento dello sguardo verso un orizzonte planetario ( ) aiuterà le nostre comunità a non chiudersi nel qui e ora della loro situazione peculiare e consentirà loro di attingere risorse di speranza e intuizione apostoliche nuove guardando a realtà spesso più povere materialmente, ma nient’affatto tali a livello spirituale e pastorale»[40].
La Nota pastorale Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia (30 maggio 2004) presenta alcuni passaggi significativi sulla missione ad gentes, indicata come dimensione fondamentale della vita e dell’attività delle parrocchie. «L’impegno che nasce dal comando del Signore: «Andate e rendete discepoli tutti i popoli» (Mt 28,19), è quello di sempre. Ma in un’epoca di cambiamento come la nostra diventa nuovo. Da esso dipendono il volto del cristianesimo nel futuro, come pure il futuro della nostra società ( ). Nella vita delle nostre comunità deve esserci un solo desiderio: che tutti conoscano Cristo, che lo scoprano per la prima volta o lo riscoprano se ne hanno perduto memoria; per fare esperienza del suo amore nella fraternità dei suoi discepoli»[41]. «Tanto più la parrocchia sarà capace di ridefinire il proprio compito missionario nel suo territorio quanto più saprà proiettarsi sull’orizzonte del mondo. Più che ulteriore impegno, la missione ad gentes è una risorsa per la pastorale, un sostegno alle comunità nella conversione di obiettivi, metodi, organizzazioni, e nel rispondere con la fiducia al disagio che spesso esse avvertono»[42].
La recente Assemblea Generale dei Vescovi, svoltasi a Roma dal 21 al 25 maggio 2007, ha trattato della missio ad gentes comeorizzonte e paradigma dell’impegno pastorale della Chiesa italiana, ribadendo la necessità di sviluppare ulteriormente in tutte le nostre diocesi l’esperienza dei fidei donum.
Infine, la Nota pastorale dell’Episcopato italiano dopo il Convegno Ecclesiale Nazionale di Verona, Rigenerati per una speranza viva (1 Pt 1,3): Testimoni del grande sì di Dio all’uomo, pubblicata il 29 giugno 2007, contiene vari riferimenti alla missionarietà. In particolare, afferma: «la Chiesa italiana rilegge nella prospettiva della speranza la scelta di comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. Ci interpellano gli immensi orizzonti della missione ad gentes, paradigma dell’evangelizzazione anche nel nostro Paese. La vasta tradizione dell’invio di missionari ad altre terre mostra del resto la costante vitalità della fede. Insieme ai religiosi e religiose, i fidei donum, sacerdoti e laici, hanno scritto e continuano a scrivere una pagina esemplare, testimoniando il Vangelo ed edificando nel mondo la pace in nome di Cristo. La loro generosità, giunta talora fino al martirio, spinge le nostre comunità a essere attive nella propagazione del regno di Dio. Desideriamo che l’attività missionaria della Chiesa italiana si caratterizzi sempre più come comunione-scambio tra Chiese e, mentre offriamo la ricchezza di una tradizione millenaria di vita cristiana, riceviamo l’entusiasmo con cui la fede è vissuta in altri continenti. Non solo quelle Chiese hanno bisogno della nostra cooperazione, ma noi stessi abbiamo bisogno di loro per crescere nell’universalità e nella cattolicità. Chiediamo pertanto ai Centri missionari diocesani, insieme alle altre realtà di animazione missionaria, di aiutare a far sì che la missionarietà pervada tutti gli ambiti della pastorale e della vita cristiana»[43].
II. CINQUANT’ANNI DI PRESENZA DEI PRESBITERI E DEI LAICI FIDEI DONUM
Mezzo secolo di un’esperienza tuttora valida
7. Nel precedente capitolo abbiamo tratteggiato alcuni sviluppi magisteriali sulla missione ad gentes, evidenziandone i principali riferimenti ai fidei donum. Vorremmo ora riflettere sul significato di quest’esperienza, nella convinzione che, pur essendo trascorsi cinquant’anni, non sia affatto superata. Il punto di partenza della proposta di Pio XII era costituito da una riflessione sulla realtà: da un lato popolazioni ancora prive dell’annuncio della salvezza portata da Gesù Cristo, dall’altro Chiese ricche di presbiteri che potevano contribuire a superare questa situazione. Come spesso accade, la lettura pastorale della realtà conduce a una presa di coscienza più approfondita della natura della Chiesa e della sua missione. È quanto si è verificato anche nel caso dei fidei donum.
Oggi, più che ragionare in termini di necessità, ci sembra adeguato parlare dei fidei donum come di una scelta legata all’identità stessa della Chiesa, mistero di comunione e missione. Con il concilio Vaticano II, infatti, l’ecclesiologia ha messo in evidenza l’integrazione della dimensione missionaria nella natura stessa della Chiesa intera: non solo ai presbiteri e ai religiosi, ma anche ai laici in quanto pienamente partecipi della missione della Chiesa è rivolto con sempre maggiore chiarezza l’invito a considerare la missione alle genti. In questi ultimi anni risulta in effetti significativa la partenza di laici fidei donum, come singoli e come famiglie, che con un mandato formale del proprio vescovo si recano in altre Chiese per l’annuncio del Vangelo e la testimonianza della carità.
Prima di riflettere sul significato dell’esperienza fidei donum, è utile riepilogare alcuni dati. In cinquant’anni, i presbiteri fidei donum italiani sono stati circa 1900. Attualmente, risultano impegnati nel servizio missionario come fidei donum 564 sacerdoti diocesani, provenienti da 116 diocesi. Essi costituiscono il 4% dei missionari italiani, che si aggirano intorno alle 14-15.000 unità, e l’1,6% dei sacerdoti diocesani. Nel periodo di maggior invio, durante gli anni ’80, i sacerdoti fidei donum hanno raggiunto le 780 unità: anche se in termini assoluti erano più numerosi di oggi, costituivano sempre l’1,6% circa dei presbiteri diocesani.
I laici fidei donum, per i quali è stata stipulata la convenzione prevista dalla CEI, sono 240, di cui 114 sposati, e provengono da 53 diocesi. In totale, dunque, i fidei donum italiani risultano essere al presente 804, costituendo il 5,6% dei missionari italiani nel mondo.
Dopo cinquant’anni, l’esperienza dei fidei donum ha ancora molto da dire e da dare. Non possiamo tuttavia ignorare il fatto che in questo momento diminuiscono gli invii da parte delle Chiese di antica tradizione. Tra le cause del fenomeno, va indubbiamente annoverata la diminuzione del clero e il conseguente innalzarsi della sua età media, ma vanno considerate anche altre ragioni legate alla cultura, alla messa in discussione dell’idea stessa di missione e a una pastorale che privilegia l’erogazione di servizi rispetto all’evangelizzazione. Inoltre, non deve essere sottovalutato il fatto che un contesto di benessere diffuso può frenare lo slancio missionario.
È opportuno in proposito meditare le parole rivolte da Benedetto XVI alle Chiese di antica tradizione cristiana: «Dinanzi all’avanzata della cultura secolarizzata, che talora sembra penetrare sempre più nelle società occidentali, considerando inoltre la crisi della famiglia, la diminuzione delle vocazioni e il progressivo invecchiamento del clero, queste Chiese corrono il rischio di rinchiudersi in se stesse, di guardare con ridotta speranza al futuro e di rallentare il loro sforzo missionario. Ma è proprio questo il momento di aprirsi con fiducia alla Provvidenza di Dio, che mai abbandona il suo popolo e che, con la potenza dello Spirito Santo, lo guida verso il compimento del suo eterno disegno di salvezza»[44].
Le Chiese locali come soggetto missionario fondamentale
8. L’esperienza fidei donum interpella in maniera diretta l’impegno missionario delle Chiese locali. L’Enciclica di Pio XII ha anticipato il Vaticano II soprattutto per quanto riguarda l’individuazione delle Chiese particolari come soggetto missionario e ne ha stimolato l’iniziativa. Il Concilio ha poi impostato una vera e propria teologia della Chiesa locale o particolare, là dove ha indicato la massima espressione dell’ecclesialità nel popolo di Dio radunato attorno al vescovo e all’Eucaristia, in ascolto della Parola di Dio e nell’accoglienza dei doni che lo Spirito elargisce per la missione della Chiesa in quell’ambiente[45].
Dopo il Vaticano II è dunque risultata sempre più chiaramente la titolarità missionaria delle singole Chiese diocesane: esse non sono meri contenitori di iniziative svolte da altri, ma sono il primo soggetto missionario sul territorio. Ogni altra realtà ecclesiale, se vuole operare per l’edificazione comune, è tenuta a rapportarsi con la Chiesa particolare (cfr 1 Cor 14,3-5.12.17). Ciò non significa, ovviamente, porre in concorrenza Chiesa locale e Chiesa universale: ogni Chiesa particolare infatti è pienamente Chiesa solo se è in comunione con le altre Chiese, e concretamente con quella che presiede alla carità, la Chiesa di Roma[46].
Proprio perché la Chiesa universale non è un’idea astratta ma è concretamente raggiungibile e sperimentabile, si manifesta nelle Chiese locali e particolari; esse vivono inserite nel contesto culturale, storico, sociale, religioso, e in queste situazioni individuano le linee di azione più adeguate perché il Vangelo diventi vita. Se la missione è la stessa annunciare il Vangelo, dispensare i sacramenti, far fruttificare i doni dello Spirito che culminano nella carità cambia però da diocesi a diocesi il contesto nel quale la missione si svolge. La diversità delle situazioni fa sì che ogni Chiesa abbia un volto missionario proprio, effettui scelte peculiari, individui percorsi specifici. I piani o progetti pastorali diocesani sono le mappe di orientamento della missione in un determinato territorio.
Con il presente documento, intendiamo approfondire il significato ecclesiale dell’esperienza fidei donum, sia per le Chiese che inviano i missionari sia per quelle che li ricevono. Non possiamo tuttavia dimenticare che la grande maggioranza dei missionari ad gentes appartiene a Istituti e Congregazioni specificamente missionari o ad altri organismi ecclesiali, che secondo il loro carisma offrono una testimonianza preziosissima ed efficace di annuncio del Vangelo. L’elenco sarebbe lunghissimo: si potrebbero scrivere innumerevoli pagine gloriose di santi e di martiri, che, lontano dai riflettori, hanno costruito e costruiscono giorno dopo giorno il regno di Dio, portando a tutti il Vangelo ed estendendo la presenza della Chiesa al mondo intero.
Ogni missionario in virtù del battesimo, della sua educazione cristiana e della sua vocazione è legato a una Chiesa particolare. È un vincolo che va mantenuto vivo perché risulti vitalizzante per il missionario e per la Chiesa che l’ha generato alla vita in Cristo.
È pure fondamentale che i fidei donum mantengano rapporti vivi con i missionari presenti nello stesso territorio, dando testimonianza concreta di comunione.
Il significato dei fidei donum per le Chiese di appartenenza
9. La partenza di sacerdoti e laici dalle diocesi e dalle parrocchie con il mandato del proprio vescovo ha portato la missione nel cuore delle comunità invianti, vicino alla gente, contribuendo a far sentire la missio ad gentes come una realtà che riguarda ogni comunità e ogni cristiano. Il servizio in missione, le lettere circolari, i rapporti nati con le Chiese sorelle, le visite di vescovi, di sacerdoti e di laici ai missionari, hanno aiutato le nostre comunità a sentirsi parte della Chiesa universale e a confrontarsi con la vita dei cristiani in altre parti del mondo.
Cosìi fidei donum hanno aiutato a rendere più visibile la natura missionaria della Chiesa e nello stesso tempo ne hanno mostrato tutta la fecondità. Questa esperienza ha toccato la vita dei sacerdoti e dei laici che si sono lasciati coinvolgere, assumendo un volto più evangelico, incrementando una partecipazione corresponsabile alla propria comunità, il senso dell’essenzialità, i tratti della condivisione, l’apertura alla mondialità. Per tanti il coinvolgimento nella missione è stato occasione di condivisione del cammino dei poveri nella ricerca del regno di Dio e più in generale di crescita umana, spirituale, ecclesiale. Donare la fede è il modo migliore per farla crescere: «la fede si irrobustisce donandola»[47].
La partenza dei fidei donum, in secondo luogo, ha avuto una ricaduta positiva sul presbiterio diocesano, contribuendo ad approfondire la natura del ministero ordinato e mostrando la verità della prospettiva conciliare, secondo le quali ogni presbitero è incardinato in una diocesi, ma per l’evangelizzazione di tutto il mondo[48]. Si è reso così evidente che l’apertura missionaria non è un sovrappiù nella vocazione del presbitero diocesano, ma una sua forma di realizzazione: quanto più il ministro ordinato avverte la sollecitudine per tutte le Chiese, tanto meglio realizzerà il suo servizio nella Chiesa locale; parimenti, quanto più vive con fedeltà la dedicazione alla Chiesa locale, tanto più rimane aperto alla comunione universale.
Tornando poi in diocesi, i presbiteri e i laici fidei donum fanno emergere la ricchezza degli itinerari formativi diocesani, ma anche i limiti in cui si può cadere, quando le molteplicità attività vanno a scapito dell’evangelizzazione e del primo annuncio. I fidei donum evidenziano già con il loro essere l’urgenza dell’evangelizzazione. In molte comunità cristiane non mancano segnali di vitalità, anche se non possiamo nasconderci che essi coesistono con segni di stanchezza, a volte addirittura di accidia. In questo contesto appare sempre più urgente annunciare il Vangelo di Gesù Cristo con la freschezza degli inizi, coinvolgendo tutte le componenti del popolo di Dio.
Il ritorno dei fidei donum costituisce uno stimolo importante nella costruzione di comunità cristiane caratterizzate dalla centralità dell’annuncio, dall’integrazione tra fede e vita, dalla partecipazione corresponsabile di tutta la comunità. La diffusione di centri di ascolto e di gruppi del Vangelo è anche dovuto all’azione di ritorno dei fidei donum, soprattutto dall’America Latina, con l’apporto maturato dal contatto con le comunità ecclesiali di base.
Analoghe considerazioni valgono quanto alla difesa e alla promozione della vita e della dignità della persona. La sensibilità dei fidei donum, affinatasi a contatto con gli ultimi e i poveri, sprona le nostre comunità a maturare una considerazione della persona umana basata più sull’essere che sull’avere. La scelta preferenziale dei poveri, la coscienza dell’ingiustizia strutturale e di valori presenti in altre culture e religioni, si sono così riversate nelle scelte pastorali della Chiesa italiana a partire dalle giovani Chiese di altri continenti. L’incontro con figure carismatiche dei Paesi di missione aiuta le nostre Chiese a percepire i valori evangelici dell’essenzialità, della giustizia e della pace.
La cooperazione tra le Chiese, attraverso i fidei donum, ha inoltre contribuito alla riscoperta della religiosità popolare come espressione di vera fede, attenta alla dimensione personale ma anche comunitaria della persona, alla sua componente razionale ma anche a quella affettiva, coniugando nelle sue manifestazioni l’attenzione al passato e al presente. I missionari aiutano così le nostre comunità a leggere in maniera più equilibrata le molteplici forme di religiosità popolare in Italia.
Il riverbero dell’esperienza dei fidei donum fa sentire i suoi effetti positivi anche sulla corresponsabilità dei laici. Spesso in America Latina e in Africa le comunità cristiane, sparse in territori a volte anche molto vasti o concentrate in agglomerati urbani di enormi dimensioni, sono coordinate da laici nell’attività di evangelizzazione e nella vita quotidiana; i presbiteri possono raggiungerle solo di tanto in tanto, per celebrare l’Eucaristia e amministrare i sacramenti, incoraggiandole con il Vangelo, dando impulso ai consigli pastorali e ai gruppi di laici più impegnati, capaci e disponibili. In tal modo, viene superato nei fatti quel clericalismo che da noi a volte continua a frenare l’impegno corresponsabile dei laici.
Il quadro fin qui tracciato non esclude tuttavia che vi siano stati casi di smarrimento ed esistano fatiche e resistenze pure da parte di qualche fidei donum e delle nostre comunità nell’affrontare il cammino di rinnovamento ecclesiale.
Il significato dei fidei donum per le Chiese a cui sono stati inviati
10. L’esperienza dei fidei donum si è rivelata preziosa anche per le diocesi che li hanno accolti, come risulta dalle testimonianze di tanti vescovi e comunità. In genere, i fidei donum hanno messo in evidenza la gratuità dell’evangelizzazione condotta con abnegazione, senza misurare i sacrifici, testimoniata nella solidarietà con i più poveri e nella vicinanza al popolo, in autentico spirito di servizio alla Chiesa locale.
La presenza dei presbiteri fidei donum, in fraterna comunione con i sacerdoti nativi, ha promosso una maturazione dell’azione pastorale attraverso la cura della catechesi, della liturgia, della formazione del laicato, in particolare degli animatori. Alcune diocesi hanno anche affidato ai presbiteri fidei donum la formazione dei seminaristi. È di grande consolazione costatare che Chiese del tutto prive o quasi di sacerdoti nativi ora possono contare su un presbiterio locale.
La presenza di laici fidei donum ha arricchito le Chiese che li hanno accolti con la coerenza della loro fede e l’esercizio delle loro competenze professionali. Con semplicità e con stile di vita cristiano, anche come famiglie, hanno contribuito a un’evangelizzazione integrale e alla crescita della comunità locale, incoraggiando soprattutto i laici a essere ancora più missionari.
Infine alcuni presbiteri provenienti dai paesi di missione vengono in Italia per motivi di studio o per il servizio pastorale: è un altro modo significativo e concreto per realizzare la comunione tra le Chiese. Anche in ciò sta la riprova che la cooperazione tra le Chiese non è mai a senso unico: si dona e si riceve. Non solo i fidei donum portano la fede e la tradizione delle comunità che li inviano, ma anche i presbiteri stranieri presenti in Italia esprimono la fede mediata dalla sensibilità e dalla cultura della Chiesa di origine. Attraverso di loro può maturare nelle nostre comunità una maggiore attenzione al cammino di fede degli immigrati provenienti dalle giovani Chiese. Nello stesso tempo, la Chiesa che li accoglie offre loro un aiuto prezioso in termini di arricchimento dell’esperienza pastorale. È fondamentale che anche nel loro caso il servizio missionario si radichi nella vocazione e sia ratificato dal mandato del proprio vescovo, a garanzia dell’autenticità del ministero.
III. RICONFIGURARE I FIDEI DONUM
11. Il richiamo ai pronunciamenti del Magistero e all’esperienza di cinquant’anni di fidei donum ha evidenziato la natura e l’attuazione della missione nella Chiesa. Un’attenzione particolare va data oggi a una più chiara coscienza della cooperazione missionaria tra le Chiese. Essa non può essere ridotta a strategia di azione missionaria, a un insieme di iniziative, al movimento a senso unico di una Chiesa ritenuta più ricca verso un’altra bisognosa al fine di espandere e rafforzare la Chiesa cattolica, ma va piuttosto considerata come il risvolto operativo e lo stile di vita che scaturisce dalla natura comunionale e missionaria del corpo ecclesiale che, a sua volta, si radica nell’Eucaristia.
L’adagio secondo cui la Chiesa nasce dall’Eucaristia si manifesta anche nella cooperazione missionaria. Giovanni Paolo II, in particolare nell’enciclica che porta proprio come titolo Ecclesia de Eucharistia, e Benedetto XVI, nell’enciclica Deus caritas est, sottolineano il carattere sociale della mistica del sacramento dell’altare: «Nella comunione sacramentale io vengo unito al Signore come tutti gli altri comunicanti ( ). L’unione con Cristo è allo stesso tempo unione con tutti gli altri ai quali Egli si dona ( ). Io posso appartenergli soltanto con quelli che sono diventati o diventeranno suoi»[49].
La mistica sociale dell’Eucaristia non vale solo né anzitutto per i singoli battezzati, ma per le Chiese particolari, che proprio dal mistero pasquale ed eucaristico traggono origine. Se è vero che la mistica sociale dell’Eucaristia lega indissolubilmente i credenti eucaristizzati, a fortiori ciò deve essere vero per le Chiese particolari che sono in sé Corpo mistico di Cristo in forza del loro radicamento vitale nell’universalità della Chiesa. La stessa e unica Eucaristia, celebrata da tutte le Chiese particolari, le unisce in vincoli misterici e sacramentali, che si espliciteranno anche in attività di cooperazione.
Tale cooperazione missionaria, finora vissuta dalle nostre Chiese particolari nel rendersi disponibili all’invio di missionari, di sacerdoti e laici fidei donum, è chiamata oggi a esprimersi con più consapevolezza a livello di mutuo scambio. Si tratta di creare rapporti più profondi con le Chiese sorelle, nella convinzione di un reciproco vantaggio. Come ha affermato Benedetto XVI: «Lo scambio di doni tra comunità ecclesiali di antica e di recente fondazione ha costituito un arricchimento reciproco e ha favorito la crescita della coscienza di essere tutti missionari’, tutti cioè coinvolti, sia pure in modi diversi, nell’annuncio e nella testimonianza del Vangelo»[50].
Ogni Chiesa è chiamata a considerare la disponibilità a inviare missionari fidei donum, ma anche a riceverne. Dalle Chiese in cui sono stati inviati, infatti, può partire un processo inverso, con l’invio nelle nostre Chiese di fidei donum provenienti dalle diocesi di recente costituzione, per arricchire le nostre comunità con la giovinezza e freschezza della loro fede.
Il fondamento ecclesiologico battesimale-eucaristico della cooperazione missionaria illumina, orienta e sostiene le scelte operative delle nostre Chiese. Ci soffermiamo su alcuni aspetti di tale collaborazione.
I tratti della figura del presbitero fidei donum
12. Non solo cambia il modello del fidei donum, fino a comprendere componenti del popolo di Dio diverse dai presbiteri, ma mutano anche i tratti di questa figura. Il presbitero fidei donum che parte oggi è diverso da quello di quarant’anni fa. Allora si muoveva da Chiese ricche di sacerdoti verso Chiese piene di entusiasmo, ma povere di risorse e di sacerdoti: partiva in povertà, con grande spirito di generosità, desideroso di evangelizzare e condividere la situazione della gente che andava ad incontrare.
Oggi le Chiese dell’America Latina e dell’Africa sono cresciute: dispongono di un clero a volte anche abbondante; hanno una forte coscienza delle loro identità; intendono incarnarsi nel loro popolo e nella propria cultura; vogliono partecipare alla missione presso altri popoli e culture; sanno di avere anch’esse un patrimonio da donare alle altre Chiese, costituito dalla gioia della fede, dall’esperienza dell’annuncio del Vangelo in condizioni di minorità, debolezza e persecuzione, da uno sguardo proiettato con speranza verso il futuro.
La disponibilità a incarnarsi in un popolo, in una Chiesa, in una cultura, è uno dei tratti richiesti oggi al fidei donum. Un altro tratto importante riguarda la motivazione dell’invio: non più solo la volontà di collaborazione, ma anche di comunione e scambio. A questo si aggiungono la disponibilità ad abbracciare la temporaneità del servizio, il senso di appartenenza alla diocesi che invia, la coscienza di inserirsi in un’opera condivisa con altri soggetti: la Chiesa che riceve, i missionari ad vitam, gli organismi di sviluppo internazionali.
Per queste ragioni il presbitero fidei donum non parte con un progetto proprio, ma per assumere le scelte pastorali della Chiesa che lo accoglie; è testimone della comune passione apostolica, come della solidarietà della Chiesa che lo invia; è attento osservatore di quello che lo Spirito dice alla Chiesa che lo ospita; torna ai luoghi di origine per testimoniare quello che il Signore opera presso altri popoli.
In continuità con le partenze degli inizi, il fidei donum deve mantenere uno stile di vita povero e sobrio, per realizzare una particolare vicinanza con gli impoveriti della storia. Uno dei rischi attuali, sia per la situazione di sicurezza economica della società europea, sia per la generosità delle nostre comunità cristiane, è di offrire l’immagine di una missione potente nei mezzi ed efficientista.
I tratti della figura del laico fidei donum
13. Sono sempre più numerosi i fedeli laici che desiderano compiere una scelta missionaria accanto ai presbiteri fidei donum o ai missionari religiosi. È una decisione che va incoraggiata e sostenuta, come un grande dono che lo Spirito fa alla nostra Chiesa. «Dire che è venuta l’ora del laicato non costituisce uno slogan di moda, ma risponde a una realtà già in atto e a un’urgenza sempre più pressante. Ciò è particolarmente vero in riferimento alla missione evangelizzatrice, alla collaborazione e solidarietà tra i popoli»[51].
Diverse sono le vie attraverso le quali i laici maturano la coscienza missionaria: può trattarsi di un impegno significativo nella propria parrocchia, in diocesi, in un organismo o un’aggregazione ecclesiale; oppure dell’amicizia con qualche missionario o di esperienze brevi di lavoro in missione o di altro ancora. I laici hanno una modalità propria di vivere la missione, che è quella di unire strettamente evangelizzazione e promozione umana, mettendo a disposizione le loro competenze professionali e collaborando nelle attività pastorali e nell’annuncio esplicito di Cristo.
Volendone precisare l’identità, chiamiamo fidei donum il laico missionario che è inviato e accolto dal vescovo, inserito in un progetto missionario coordinato dal Centro Missionario Diocesano, anche se gestito da un organismo. Egli vive la sua esperienza in una prospettiva di comunione e scambio tra le Chiese, formalizzata mediante una convenzione.
«Il laico missionario sa di essere ospite in casa altrui, presso popoli che hanno una loro cultura, una loro vita sociale, un loro rapporto con Dio, che è necessario conoscere e rispettare. Per questo si incultura vivendo da testimone del vangelo della carità, intessendo relazioni con estrema discrezione, umiltà e attenzione all’altro ( ); sa che la vita di comunione con gli altri fratelli, siano essi del luogo o missionari, è la prima indispensabile testimonianza dei discepoli di Gesù, che hanno come sorgente della loro vita la Trinità. In queste piccole comunità, laici, preti e consacrati possono vivere condividendo sempre più gli impegni di evangelizzazione e di promozione umana»[52].
Le fraternità fidei donum composte da presbiteri, laici e religiosi/e
14. In varie diocesi si sta facendo strada la prospettiva di fraternità fidei donum, composte da diverse figure ministeriali, come un sacerdote, un diacono, una famiglia, uno o più religiosi e religiose, un catechista, un professionista Sono forme congruenti con la cooperazione missionaria come è stata da noi delineata, la cui positività è legata anche ad alcuni criteri che richiamiamo.
I candidati a una fraternità fidei donum devono possedere una solida e comprovata maturità psicologica, aver dato prova di essere capaci di vivere e lavorare insieme e avere una chiara e convinta coscienza della loro peculiare identità. Nella fraternità ogni figura deve avere spazi e momenti propri, per vivere la vocazione che la contraddistingue.
Gli invii devono essere concordati dai due ordinari a seconda delle disponibilità della Chiesa inviante e delle necessità di quella ricevente. Fondamentale è la preparazione, che deve vertere sul tirocinio al lavoro condiviso.
La fraternità entra nella comunità a cui è destinata in maniera discreta, attenta ai comportamenti e alle usanze del luogo in cui si inserisce, secondo il metodo oggi chiamato dell’acculturazione. La fraternità è attenta a restare aperta alla Chiesa diocesana che la accoglie, senza ripiegarsi su se stessa: i presbiteri ricercando la comunione con il presbiterio, i laici costruendo rapporti di autentica amicizia con altri laici e con famiglie.
Dalla fase della preparazione sino al rientro la fraternità è seguita dal vescovo della diocesi che invia o da un suo delegato, mantenendo stretti rapporti non solo per il sostegno economico, ma anche per la preghiera, il confronto e lo scambio. La comunità diocesana deve dunque avere piena coscienza dell’invio, che va ben oltre una generica simpatia.
La cooperazione tra diocesi limitrofe per costituire fraternità o équipes missionarie
15. La diminuita disponibilità di fidei donum, per le ragioni a cui si è accennato, non deve portare le Chiese locali a chiudersi a questa forma di missionarietà, ma può indurle a prendere in considerazione la possibilità di un’azione comune fra diocesi limitrofe. La cooperazione missionaria, in questo modo, oltre che a rendere più incisiva e concreta anche dal punto di vista economico l’opera di aiuto nelle diocesi destinatarie, favorirebbe un’auspicabile collaborazione tra le nostre diocesi.
Per questo tipo di cooperazione non basta che i candidati si conoscano; è necessaria una profonda sintonia sulle metodologie missionarie, che rende indispensabili percorsi comuni di preparazione. Ciò presuppone che vi sia un organismo, o almeno una persona, che mantenga i collegamenti tra le diocesi coinvolte e i missionari inviati, raccolga le loro necessità, svolga opera di informazione, segua la realizzazione del progetto, aiuti a risolvere le eventuali difficoltà tra i missionari e con la diocesi che li ha accolti.
I fidei donum tra difficoltà del ricambio e timori del rientro
16. Parlando di fidei donum oggi, non possiamo nasconderci, pur con diversità di modalità tra presbiteri e laici, la difficoltà del ricambio e del rientro.
Per i presbiteri il ricambio è divenuto difficile, perché sembra diminuita la sensibilità missionaria ad gentes: non sono molti i preti disponibili a partire e alcune diocesi non prendono in considerazione questa prospettiva. Anche la scarsità del clero di cui soffrono molte diocesi italiane rende più difficili nuove partenze. A volte la fatica del ricambio è causata dall’allentarsi dei rapporti con la diocesi di origine, spesso dovuto all’assenza di un preciso progetto missionario.
Diverse sono anche le difficoltà che si presentano per il rientro dei missionari che da anni operano in Chiese sorelle. Generalmente il presbitero fidei donum si trova bene in missione; le opere che ha realizzato hanno incrementato istruzione, salute, speranza; è amato, si sente realizzato, vive con un popolo ricco di fede, nonostante le situazioni, a volte drammatiche, di cui è partecipe. Si è talmente identificato con un popolo, con le sue lotte e le sue speranze, che non si sente di abbandonarlo. Può vivere con apprensione il rientro in un Paese e in una Chiesa che ormai fatica a capire. Sa di essere diverso da quando era partito e teme di non essere più accettato o di non essere più in grado di reinserirsi attivamente nel ministero. Certi suoi atteggiamenti critici possono aver raffreddato la simpatia dei confratelli. Abituato ai grandi spazi, può sentirsi oppresso dalle dimensioni limitate della parrocchia affidatagli al ritorno. Soffre, perché ritiene che la sua esperienza missionaria non sia valorizzata.
La stessa cura avuta per preparare il prete a inserirsi nel modo giusto in un’altra Chiesa e a vivere accanto a un altro popolo, dovrebbe accompagnarlo nel momento del rientro, offrendogli un tempo di adattamento e opportunità di studio e aggiornamento. Il presbitero fidei donum ha bisogno di sentire la simpatia del vescovo, dei confratelli e della comunità. «Alle attenzioni di sempre, dovremo senz’altro aggiungere in maniera organica quella sul ritorno/rientro. È questa un’attenzione fino ad oggi quasi sempre disattesa, sorgente di equivoci e disagi sia per i missionari rientrati che per le comunità che li riaccolgono. Il ritorno/rientro invece dovrebbe caratterizzare fin dalla proposta vocazionale l’esperienza missionaria, qualificandone in seguito l’appartenenza ecclesiale e l’accompagnamento in missione»[53].
Se da un lato il rientro in Italia dei missionari laici può sembrare più facile, data la brevità dell’esperienza da loro compiuta, dall’altro pone nel concreto aspetti più problematici. Molti, infatti, partono abbandonando il posto di lavoro; altri ritornano con i figli senza un alloggio e una sicurezza economica. È necessario che il progetto diocesano di invio tenga preventivamente conto anche di questi aspetti.
Il rientro dei fidei donum resta comunque un’esigenza imprescindibile: la temporaneità è lo specifico del loro servizio. Il missionario fidei donum non è un navigatore solitario, ma l’inviato di una Chiesa ad un’altra, che lo accoglie in nome della cooperazione, della comunione e dello scambio. Ciò esige un continuo andare e tornare, mandare e accogliere, un sapersi collocare in un progetto pastorale della Chiesa alla quale è inviato come pure di quella nella quale rientra dopo l’esperienza missionaria, senza essersene mai spiritualmente staccato.
L’animazione missionaria vocazionale e la formazione dei seminaristi
17. L’autocomprensione della Chiesa come missionaria fa emergere l’urgenza di mettere in atto una seria animazione che interessi tutti i battezzati e offra loro prospettive vocazionali di generoso spirito missionario. Perché i missionari non siano confusi con persone romantiche in cerca di avventura, è importante che l’animazione missionaria sia fondata su robusti contenuti di fede e su una sicura esperienza di comunione vissuta nella Chiesa.
Si tratta di aiutare i laici a riscoprire l’istanza missionaria contenuta nel sacramento del Battesimo, di ricordare ai sacerdoti che sono stati ordinati per la Chiesa universale, di far comprendere ai consacrati quanto importante sia la loro testimonianza di fede in territorio missionario.
Urge soprattutto un’animazione delle comunità diocesane, perché tutta la prassi pastorale sia informata dalla tensione missionaria. A questo scopo, è importante riscoprire e adeguatamente valorizzare l’intrinseca missionarietà presente nella liturgia, nella catechesi e nella pratica della carità.
Una peculiare attenzione va riservata alla pastorale giovanile. Essa dovrà essere insieme missionaria e vocazionale. È necessario che i giovani si sentano interpellati e chiamati a farsi carico della missione della Chiesa, attraverso un processo educativo che comprenda l’informazione sulla realtà della missione, la riflessione di fede sulla vocazione missionaria, il contatto con i testimoni e l’impegno personale, che può esprimersi anche in periodi di servizio nei luoghi di missione degli Istituti missionari o là dove operano i fidei donum diocesani.
La formazione dei seminaristi deve assumere come nota di fondo la missionarietà. Così si esprime la nuova Ratio formationis per i seminari italiani, tracciando la figura presbiterale alla quale vanno preparati i seminaristi diocesani: «Resta inoltre validissimo e urgente il ministero dell’annuncio ad gentes, costituendo in certo senso il paradigma della missione della Chiesa nel mondo. Per questo i presbiteri che si dedicano interamente a tale missione sono preziosi. Anche per loro vale il legame con una Chiesa particolare: siano essi diocesani o religiosi, operano per far sorgere o rafforzare una concreta esperienza ecclesiale, specificamente caratterizzata: realtà di Chiesa con un volto, una tradizione, una storia, con situazioni e problemi che richiedono attenzione e rispetto. In particolare, i presbiteri diocesani inviati ad gentes, quando rimangono incardinati nella loro Chiesa d’origine, esercitano il ministero non a nome proprio, ma come espressione dell’attività pastorale della Chiesa che li ha inviati e alla quale appartengono, così che è l’intera comunità particolare a farsi carico, per mezzo loro, della missione presso una Chiesa sorella già costituita o in via di costituzione»[54].
Per raggiungere questa figura presbiterale, i seminaristi devono essere formati alla missionarietà, sia attraverso la scuola teologica (corsi di missionologia, di interculturalità, di dialogo e cooperazione interreligiosa, ecc.), sia mediante la partecipazione a incontri e convegni di spiritualità e pastorale missionaria, avvalendosi anche dell’esperienza di presbiteri, religiosi e laici che hanno svolto attività missionaria ad gentes. Sono da consigliare esperienze missionarie estive, specialmente presso le Chiese nelle quali operano missionari fidei donum della propria diocesi.
IV. SFIDE E PROSPETTIVE PER IL FUTURO
INDICAZIONI OPERATIVE
I mutamenti socio-religiosi
18. La ricchezza di esperienze accumulate in mezzo secolo non costituisce solo un tesoro di cui rendere grazie al Signore, ma anche un deposito da trasmettere, rinnovato e rimotivato. È già emersa più volte l’attualità della proposta fidei donum, come contributo essenziale di crescita della dimensione missionaria della Chiesa e in particolare delle Chiese locali coinvolte. Ci chiediamo ora quali sono le prospettive e le sfide future di questa esperienza, alla luce dei mutati contesti socio-religiosi, degli approfondimenti ecclesiologici avviati dal Vaticano II e delle indicazioni maturate in questi cinquant’anni.
Non è ovviamente possibile ricostruire, seppure in maniera sommaria, gli enormi cambiamenti sociali, culturali, religiosi ed ecclesiali intervenuti dal 1957 a oggi: «Sono certo mutate le condizioni in cui vive l’umanità, e in questi decenni un grande sforzo è stato compiuto per la diffusione del Vangelo, specialmente a partire dal Concilio Vaticano II», riconosce il Santo Padre.[55]. Per un bilancio contestualizzato di questi grandi mutamenti rimandiamo al lavoro svolto in prossimità del 2000 in occasione delle Assemblee speciali continentali del Sinodo dei Vescovi celebrate a Roma alla presenza di Giovanni Paolo II, i cui risultati sono stati raccolti e rilanciati dallo stesso pontefice nelle Esortazioni post-sinodali relative: Ecclesia in Africa, Ecclesia in Asia, Ecclesia in Europa, Ecclesia in America, Ecclesia in Oceania.
Dalla lettura di questi documenti si ricava l’impressione di una grande accelerazione nei cambiamenti che investono tali continenti e quindi le rispettive Chiese. Le problematiche sono assai vaste e in buona parte legate alla globalizzazione, fenomeno che, insieme a notevoli opportunità, tende purtroppo ad allargare la forbice tra Paesi ricchi e poveri, tra persone in grado di interagire nella rete del commercio e delle comunicazioni e quanti rimangono esclusi o ai margini.
Per avere un’idea dei grandi scenari che si sono aperti o dilatati in questi decenni, basti solo pensare all’enorme sviluppo delle tecnologie informatiche, ai notevoli progressi nelle scienze applicate, ma anche alla diffusa miseria e alla fame presente in alcune aree dell’Africa, dell’America Latina e dell’Asia; al dramma delle malattie che in questi continenti sono strettamente legate alla povertà e all’impossibilità di accedere a cure costose, praticabili solo nei Paesi ricchi; alla coltivazione, al commercio e all’uso della droga, insieme ad altre forme di alterazione della coscienza, compresa la diffusione di costumi sessuali sfrenati; all’espansione aggressiva delle sètte religiose, che specialmente in America Latina possono avvalersi di cospicui fondi economici e di mezzi di comunicazione di massa; al travaglio dell’Africa, a cui è stata riconosciuta l’indipendenza politica ma non è stata data la pace; allo sfruttamento al quale sono sottoposte vaste fasce di popolazione in questi continenti, spesso a opera dei nostri Paesi occidentali, a causa del traffico di armi, di bambini, di organi e del turismo sessuale; alla fatica di vivere una fede cristiana davvero profonda, che non solo resista a queste onde d’urto, ma crei cultura e convivenza evangelica; alla sfida costituita dalla presenza di altri movimenti religiosi, per cui i cristiani si trovano a essere una minoranza in nazioni impostate secondo ritmi civili e religiosi lontani dal cristianesimo; al ricorso alla guerra come strumento di risoluzione dei conflitti e all’emergenza ecologica che sta seriamente mettendo in pericolo la vita del nostro pianeta.
Nello stesso tempo però la Chiesa vive oggi grandi opportunità: il bisogno materiale, ma più spesso quello affettivo, morale e spirituale, caratteristico delle società opulente, crea situazioni di particolare apertura a Cristo; la convinzione che il senso della vita la cui ricerca accomuna tutti gli uomini non si trovi nell’alienazione dell’alcool, delle droghe e degli eccessi sessuali, ma nel dono di sé e nell’amore portato e incarnato da Gesù. Cresce nelle comunità cristiane più giovani e vivaci la coscienza che il Vangelo e la sua pratica permettono una lettura critica della realtà e costituiscono la vera spinta per il cambiamento. Dalle Chiese dell’Africa, dell’America Latina e dell’Asia provengono oggi testimonianze incisive di vitalità e di entusiasmo, davanti alle quali le nostre comunità di antica cristianità rimangono stupite e spiazzate, ma sono anche sollecitate al cambiamento. I recenti Pontefici hanno ripetutamente collegato la nozione di speranza a queste Chiese, perché esse contengono ed esprimono un potenziale in grado di svecchiare la prassi delle Chiese più consolidate.
I fidei donum e la Chiesa che accoglie
19. L’insieme degli elementi qui accennati tanto le difficoltà quanto le opportunità costituisce una vera sfida alla missione della Chiesa in generale e all’esperienza fidei donum in particolare. Risulta infatti oggi ancora più evidente di ieri come l’invio di missionari a Chiese sorelle torni a beneficio anche di chi manda: permette infatti di venire a contatto con problematiche diverse, senza ripiegarsi sulle proprie con il rischio di ingigantirle; consente inoltre di respirare ritmi pastorali diversi, aprendosi a metodologie nuove e a un maggiore entusiasmo.
Nel prossimo futuro sarà sempre più importante studiare e valorizzare i rapporti con le Chiese nelle quali i missionari diocesani vanno a svolgere il loro ministero, e nello stesso tempo curare il contatto con le Chiese che li hanno inviati e il rientro una volta terminato il periodo stabilito.
Quanto al primo aspetto, il fatto più rilevante per gli anni a venire sarà indubbiamente il formarsi e il crescere presso le Chiese d’arrivo di un clero locale consistente e di un laicato maturo e preparato, anche all’azione dei missionari fidei donum. Anche il loro servizio è destinato a precisarsi sempre più, dal momento che le Chiese locali tendono ad affidare al clero autoctono servizi e ministeri fino al presente assunti dai fidei donum. Per valorizzarli adeguatamente, la Chiesa che accoglie è chiamata a dotarsi di un progetto diocesano che ne preveda espressamente la presenza. Alla luce delle esperienze vissute, emergono come possibili ambiti di servizio specifico la formazione del clero, dei seminaristi e dei laici, il coordinamento della pastorale diocesana, l’assunzione del ministero pastorale diretto in aree più povere e disagiate, servizi temporanei di insegnamento qualificato, la promozione del dialogo interreligioso.
Ridefinizione delle zone di missione fidei donum
20. Rispetto all’Enciclica di Pio XII, che individuava nell’Africa il continente più bisognoso di attenzione da parte delle antiche Chiese, l’attenzione dei fidei donum italiani si è in realtà rivolta maggiormente all’America Latina, mentre l’Asia è rimasta quasi esclusa. Il motivo determinante è stato probabilmente quello linguistico castigliano e portoghese sono lingue affini all’italiano , ma forse hanno influito anche altri motivi: il continente latinoamericano appariva più omogeneo dal punto di vista culturale e religioso, benché quello africano sia comunque geograficamente più vicino e oggi sia particolarmente travagliato.
È auspicabile che nel futuro vi sia un’attenzione maggiore all’Asia, dove i cristiani costituiscono tuttora una minoranza esigua ma dinamica. Correlativamente all’assunzione di responsabilità da parte del clero autoctono e alla crescita dei laici in America Latina e Africa, i fidei donum potrebbero essere orientati proprio al grande continente dove è sorto il cristianesimo: vi sono certo ostacoli linguistici e culturali e occorre essere bene attrezzati per un fecondo confronto con le grandi religioni asiatiche, ma è un orizzonte che non può essere trascurato dalle nostre Chiese. Anche il contatto con le comunità asiatiche creerà osmosi preziose, aiutando a sentirsi parte viva della Chiesa universale e mettendo in contatto con culture e tradizioni di vaste dimensioni, che troppo spesso ci appaiono esotiche e lontane.
Pur nel rispetto della legittima autonomia operativa delle singole diocesi, riteniamo opportuno che l’Ufficio Nazionale per la cooperazione missionaria tra le Chiese diventi la sede in cui far confluire le richieste di personale apostolico dalle Chiese sorelle, contribuendo anche al coordinamento delle disponibilità da parte delle diocesi italiane.
I fidei donum e la Chiesa che invia
21. Con forza affermiamo che il tempo dell’invio dei fidei donum non è terminato. Le nostre comunità hanno bisogno di essere provocate ancora dal partire missionario di suoi figli e figlie. La missione non è dettata da situazioni di convenienza umana, né da queste può essere rallentata.
Ogni presbitero è missionario: qualsiasi ministero egli svolga, non può non rappresentare la missionarietà ecclesiale: i fidei donum si collocano in questo quadro missionario incarnandone, per così dire, la dimensione tipica, quella ad gentes. Essi rappresentano l’attenzione concreta della Chiesa locale che li invia agli orizzonti universali della missione. Non sono necessariamente i presbiteri più coraggiosi, né tanto meno quelli maggiormente desiderosi di avventura: partono non per semplice decisione propria, ma perché inviati da una Chiesa particolare.
È questa un’altra sfida per i prossimi anni. Dovrà essere ancora più chiaro che i presbiteri geograficamente lontani sono pienamente inseriti nel presbiterio di incardinazione, come parte della Chiesa locale fattivamente impegnata nel territorio di una Chiesa sorella, costituendo una sorta di presbiterio dilatato. Pur a servizio temporaneo di un’altra Chiesa, rimangono legati alla diocesi di origine in forza del particolare vincolo con il proprio vescovo, generato nel giorno dell’ordinazione.
Missione nella propria diocesi e missione in una Chiesa sorella non sono due attività parallele, ma la medesima realtà che ha per soggetto la Chiesa locale. Se si raggiunge questa consapevolezza, diventa più facile anche mantenere un’autentica comunicazione reciproca tra diocesi e fidei donum, sia nel periodo della loro missione, sia una volta che si reinseriscono nella diocesi d’origine. Rientrati in diocesi, possono essere aiutati a conservare il carisma di fidei donum svolgendo, oltre agli incarichi pastorali prioritari affidati, servizi di animazione missionaria delle comunità, di promozione del dialogo interreligioso, di sostegno ai gruppi missionari, a quanti sono stati in missione e agli immigrati.
Raccomandiamo a tutti i vescovi di usufruire del servizio del Centro Unitario Missionario (CUM) di Verona, il quale non solo nelle settimane precedenti la partenza prepara i fidei donum dal punto di vista spirituale, culturale e linguistico, ma nelle prime settimane del loro ritorno li aiuta con iniziative specifiche a riprendere nel modo migliore il contatto con la Chiesa italiana e a reinserirvisi pienamente.
I laici fidei donum sono l’espressione evidente della missionarietà di tutta la Chiesa locale. Si tratta di un soggetto missionario relativamente giovane, la cui formazione, umana, cristiana e missionaria, deve essere curata con grande premura. Proprio per questo auspichiamo che il CUM formuli proposte formative complete che accompagnino i laici nel discernimento vocazionale missionario, offrendo loro percorsi e strumenti.
L’Ufficio/Centro Missionario Diocesano
22. Le considerazioni fin qui espresse evidenziano il ruolo fondamentale che spetta all’Ufficio/Centro Missionario Diocesano e l’importanza della sua istituzione in tutte le diocesi italiane. Intendiamo per Ufficio/Centro Missionario Diocesano una struttura affidata a un responsabile affiancato da una équipe, con il compito di stimolare la comunità diocesana a crescere nella sua identità missionaria.
Nel concreto all’Ufficio/Centro Missionario Diocesano si chiede di: svolgere attività di animazione e di collegamento delle esperienze missionarie presenti sul territorio; assumere e promuovere iniziative di comunione e scambio tra le Chiese; interagire con gli altri uffici e organismi pastorali per iscrivere ogni attività diocesana nell’orizzonte missionario.
Perché la missione non appaia iniziativa di alcuni, ma dovere fondamentale di tutto il popolo cristiano, occorre che venga elaborato un progetto missionario diocesano che abbia come obiettivo la crescita della consapevolezza della natura missionaria e universale della Chiesa in tutte le sue componenti. Tale progetto deve identificare gli spazi per il primo annuncio e per la nuova evangelizzazione presenti sul territorio, individuando le risorse e i percorsi formativi da offrire agli operatori pastorali. Sarà importante collocare nell’orizzonte missionario il vissuto ordinario della comunità. Infine, il progetto individuerà tempi, percorsi e risorse per concretizzare la comunione-scambio tra le Chiese, che troverà nell’invio di missionari e missionarie il momento di massima evidenza.
È bene che anche il ritorno dei missionari nella diocesi di origine sia segnato da un momento celebrativo, analogo a quello della partenza, caratterizzato dal mandato missionario e dalla consegna del Crocifisso. A chi rientra devono essere offerti tempi e modi per narrare la propria esperienza. Spetta all’Ufficio/Centro Missionario Diocesano aiutare i missionari rientrati a rileggere pastoralmente l’esperienza vissuta e farne un dono fecondo per la Chiesa che li ha inviati. Da tali incontri si trarranno stimoli per interpretare in senso missionario ogni scelta pastorale.
La comunione-scambio tra le Chiese si arricchisce oggi della presenza fra noi di presbiteri ordinati in diocesi di paesi che tradizionalmente accoglievano i nostri fidei donum. Perché la loro presenza sia feconda, sia per le Chiese che li inviano sia per le nostre comunità, occorre che il loro arrivo e la loro permanenza siano regolati dalle convenzioni appositamente previste. È conveniente affidare al responsabile dell’Ufficio/Centro Missionario Diocesano il compito di seguirli nell’inserimento nel presbiterio diocesano. Anche questi presbiteri hanno bisogno di un congruo tempo di preparazione, che fornisca loro gli strumenti per comprendere il contesto socio-culturale in cui si inseriscono e per conoscere il cammino pastorale delle nostre Chiese. Il CUM si è fatto carico dell’organizzazione di corsi destinati ai presbiteri che da giovani Chiese vengono in Italia per prestarvi servizio pastorale temporaneo: raccomandiamo di esortare i presbiteri stranieri accolti nelle diocesi italiane a prendere parte a tali corsi.
Diocesi, parrocchie e aggregazioni
23. Quanto più una diocesi maturerà la consapevolezza di essere nella sua integralità il soggetto missionario fondamentale, tanto più ne guadagnerà la missione di tutta la Chiesa. La frammentazione dei soggetti è dannosa per la missione ecclesiale: se parrocchie, unità pastorali, vicariati, associazioni, movimenti e gruppi armonizzano i rispettivi percorsi e contribuiscono a formulare e a tradurre in pratica le scelte pastorali e missionarie della diocesi, la missione diventa incisiva prima come testimonianza di unità e poi come azione condivisa. Se invece i diversi soggetti agiscono in totale autonomia, la missione perde mordente e si frantuma in una serie di iniziative forse generose, ma scarsamente ecclesiali.
Ogni progetto pastorale diocesano non può non considerare la missio ad gentes come paradigma di ogni altra azione pastorale e missionaria. Sempre più spesso anche nella realtà italiana si incontrano tutte le tre le situazioni descritte da Redemptoris missio ai nn. 33-34, e quindi si rende necessaria una vera e proprio missio ad gentes. Tuttavia, anche là dove vi sono comunità fiorenti e mature, l’evangelizzazione rimane la prima preoccupazione dei cristiani. In altre parole, una diocesi non può non essere missionaria e le parrocchie, che ne sono le cellule, offrono il loro volto più autentico quando vivono lo stile missionario. Le aggregazioni laicali sono chiamate a offrire il loro specifico contributo per stimolare e favorire la missione della diocesi in quel luogo.
Gli Uffici/Centri Missionari Diocesani, insieme alla Fondazione Missio, devono costituire il perno dell’attenzione delle Chiese alla missione ad gentes e il punto di riferimento fondamentale per realizzare una buona collaborazione fra le diverse realtà ecclesiali. La presenza in diocesi di Istituti religiosi e missionari non può che stimolare e arricchire la missionarietà della Chiesa locale. Tale presenza costituisce anche per gli Uffici/Centri Missionari Diocesani una ricchezza da armonizzare e valorizzare, per impostare proposte e percorsi veramente incisivi. In nessun caso devono ridursi a soli luoghi di raccolta di offerte, attivi solo in occasione della Giornata Missionaria Mondiale.
24. La Chiesa italiana rende grazie al Signore per le centinaia di presbiteri e i molti laici fidei donum inviati in questi cinquant’anni, incoraggia coloro che stanno vivendo questa esperienza e le loro diocesi a coglierne tutta la ricchezza, guarda commossa agli undici presbiteri che sono stati uccisi per il Vangelo durante il periodo della loro missione: se è vero, secondo le parole di Tertulliano, che il sangue dei martiri, anziché essere segno di morte, è seme di nuovi cristiani, allora siamo certi che nemmeno queste vite sono state offerte invano. Esse sono anzi come la punta dell’iceberg di tante altreesistenzeofferte dai fidei donum con generosità ammirevole per l’edificazione della Chiesa.
Sapranno le nostre Chiese in Italia rimanere aperte alla missione ad gentes anche incentivando l’esperienza fidei donum? Ce lo auguriamo e speriamo che questo cinquantesimo incoraggi le diocesi italiane che non hanno fidei donum a determinarsi per tale scelta, e quelle che onorano la Chiesa italiana con tale generosità a proseguire in essa e a svilupparla sempre più. Riteniamo infatti che questa esperienza non abbia affatto esaurito la sua forza propulsiva. Siamo certi che ne guadagnerà tutta la Chiesa: non solo le giovani comunità dei territori lontani, ma anche le nostre diocesi, talvolta troppo introverse. Se avremo il coraggio di continuare a donare con gioia, l’esperienza fidei donum costituirà una ventata di Spirito che contribuirà a rinnovare il volto delle nostre diocesi.
[1] Proemio.
[2] Concilio Vaticano II, decreto Ad gentes, n. 2.
[3] Ibidem.
[4] Cfr Concilio Vaticano II, costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 17.
[5] Concilio Vaticano II, decreto Ad gentes, n. 35.
[6] Concilio Vaticano II, decreto Apostolicam actuositatem, n. 2.
[7] Concilio Vaticano II, costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 17.
[8] Cfr anche Concilio Vaticano II, decreto Ad gentes, nn. 5-6.
[9] Cfr Concilio Vaticano II, costituzione dogmatica Sacrosanctum Concilium, n. 41; costituzione dogmatica Lumen gentium, nn. 23 e 26; decreto Christus Dominus, n. 11.
[10] Concilio Vaticano II, decreto Ad gentes, n. 20.
[11] Ibidem.
[12] Cfr Concilio Vaticano II, costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 22.
[13] Concilio Vaticano II, decreto Ad gentes, n. 38.
[14] Ibidem.
[15] Ibidem.
[16] Concilio Vaticano II, decreto Christus Dominus, n. 6.
[17] Ibidem.
[18] Concilio Vaticano II, decreto Presbiterorum ordinis, n. 10.
[19] Concilio Vaticano II, costituzione dogmatica Lumen gentium, n. 1.
[20] Paolo VI, esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, n. 16.
[21] Cfr ibidem, n. 27.
[22] Ibidem, n. 15.
[23] Cfr ibidem, n. 59.
[24] Cfr Congregazione per il clero, istruzione Postquam apostoli, n. 9.
[25] Cfr ibidem, n. 10.
[26] Ibidem
[27] Ibidem, n. 24.
[28] Cfr ibidem, n. 25.
[29] Cfr ibidem, nn. 26-28.
[30] Giovanni Paolo II, enciclica Redemptoris missio, n. 33.
[31] Ibidem, n. 34.
[32] Ibidem, n. 68.
[33] Ibidem, n. 71.
[34] Ibidem, n. 85.
[35] Ibidem.
[36] Ibidem.
[37] Ibidem.
[38] Consiglio Episcopale Permanente, lettera L’amore di Cristo ci sospinge, I. 2. b.
[39] Conferenza Episcopale Italiana, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il primo decennio del 2000, n. 32.
[40] Ibidem, n. 46.
[41] Conferenza Episcopale Italiana, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia. Nota pastorale, n. 1.
[42] Ibidem, n. 6.
[43] Conferenza Episcopale Italiana, Rigenerati per una speranza viva (1 Pt 1,3): Testimoni del grande sì di Dio all’uomo. Nota pastorale dell’Episcopato italiano dopo il 4° Convegno Ecclesiale Nazionale,n. 9.
[44] Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata missionaria mondiale 2007.
[45] Cfr sopra nota 9.
[46] Cfr Ignazio d’Antiochia, Ai Romani, Proemio.
[47] Giovanni Paolo II, enciclica Redemptoris missio, n. 2.
[48] Cfr Concilio Vaticano II, decreto Presbiterorum ordinis, n. 10.
[49] Benedetto XVI, enciclica Deus caritas est, n. 14.
[50] Benedetto XVI, Udienza ai partecipanti all’incontro del Consiglio Superiore delle Pontificie Opere Missionarie e al Congresso Mondiale dei Missionari fidei donum’, 5 maggio 2007.
[51] Commissione Episcopale per la cooperazione tra le Chiese, I laici nella missione ad gentes e nella cooperazione tra i popoli, n. 56.
[52] Commissione Missionaria Regionale della Lombardia, I laici missionari ad gentes’ nella cooperazione tra le Chiese, n. 15.
[53] Consiglio Episcopale Permanente, lettera L’amore di Cristo ci sospinge, II. 4. c.
[54] Conferenza Episcopale Italiana, La formazione dei presbiteri nella Chiesa italiana. Orientamenti e norme per i Seminari, n. 20.
[55] Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata missionaria mondiale 2007.