Vescovi Toscani
Card. Betori, intervento conclusivo alla Settimana sociale di Pistoia
Questa Settimana Sociale dei Cattolici Toscani si pone all’interno di un lungo, articolato e ricco cammino, iniziato proprio qui a Pistoia nel settembre 1907, con la celebrazione della Prima Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, voluta da Giuseppe Toniolo.
Giuseppe Toniolo, beatificato da Benedetto XVI il 29 aprile 2012 – potremmo considerare questa Settimana Sociale una celebrazione dell’anniversario della sua beatificazione! –, è una delle più significative ed emblematiche figure di laico cattolico del nostro Paese e non solo: impegnato nella comprensione rigorosa dei problemi senza mai separare questa comprensione da una solida fede in Cristo, così come l’inventiva sociale e culturale non viene in lui mai separata dalla fedele adesione alla Chiesa e al suo magistero.
La prima Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, convocata con tematiche affini a quelle che in questi giorni ci hanno riunito a Pistoia, aveva questo titolo: “Movimento cattolico e azione sociale. Contratti di lavoro. Cooperazione. Organizzazione sindacale. Scuola”. Essa fuaperta da un discorso dell’arcivescovo di Pisa, il cardinale Pietro Maffi, che ne spiegava il significato e l’esigenza partendo dal brano del Vangelo in cui viene narrata la moltiplicazione dei pani e dei pesci (Mt 14; McLcGv 6). Per il cardinale Maffi, i cattolici sono chiamati tutti e personalmente alla moltiplicazione del pane «per procurare ed assicurare a noi ed ai nostri fratelli il pane del corpo, il pane della giustizia, il pane della carità, il pane della verità, il pane della virtù, il pane infinito delle anime».
In queste parole, come nella stessa figura del beato Toniolo, si può individuare con sufficiente chiarezza la radice e il fine per cui sono state pensate le Settimane Sociali, e quindi anche come un laico cattolico deve porsi nel suo operare nel mondo. La radice è il rapporto con Gesù Cristo, percepito come il tutto della vita per chi in lui crede e a lui affida la propria intera esistenza, perché questo rapporto ne plasma l’identità complessiva, il pensare e l’agire. Il fine è l’uomo, colto nella sua integralità, ed è il bene comune della società, fondato sulla verità, la libertà, la giustizia e l’amore, cioè i valori fondamentali della costruzione di un ordine sociale rispettoso della dignità della persona umana secondo il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa (n. 197). La fede cristiana, infatti, per sua natura, è fermento di novità di vita per ogni persona e, con essa e in conseguenza di essa, è fermento di rinnovamento di ogni cultura e di una sempre nuova relazionalità sociale.
La Conferenza Episcopale Italiana, nel ripristinare nel 1991 le Settimane Sociali, dopo un periodo di sospensione che durava dal 1970, ne precisava l’obiettivo, affermando che esse «intendono essere un’iniziativa culturale ed ecclesiale di alto profilo, capace di affrontare e se possibile anticipare gli interrogativi e le sfide talvolta radicali poste dall’attuale evoluzione della società. La Chiesa italiana in questo spirito vuole non solo garantirsi uno strumento di ascolto e di ricerca, ma anche offrire ai centri e agli istituti di cultura, agli studiosi e agli operatori sociali, occasioni di confronto e di approfondimento su quel che sta avvenendo e su quel che si deve fare per la crescita globale della società» (Ripristino e rinnovamento delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani. Nota pastorale, 20 novembre 1988, n. 5).
Ponendosi in tale ottica, anche questa Settimana Sociale dei Cattolici Toscani va colta come un ulteriore e specifico «strumento di ascolto e di ricerca» e «un’occasione di confronto e di approfondimento», per meglio capire «quel che sta avvenendo» e «quel che si deve fare» nel merito di alcune tematiche specifiche, in continuità con l’ultima Settimana Sociale nazionale, celebrata nel 2010 a Reggio Calabria: intraprendere nel lavoro e nell’impresa; educare per crescere; includere le nuove presenze; slegare la mobilità sociale; completare la transizione istituzionale.
Un sentito ringraziamento va, dunque, a mons. Giovanni Santucci, vescovo delegato della Conferenza Episcopale Toscana per le questioni sociali, e al Comitato Organizzatore per aver preparato questa iniziativa. Altrettanto grati siamo a mons. Mansueto Bianchi e a tutta la Chiesa di Pistoia, per averci accolto e aver assunto il peso dell’organizzazione logistica. Grazie anche ai relatori, ai coordinatori delle commissioni di lavoro, ai delegati delle diocesi toscane e ai rappresentanti delle associazioni, movimenti e altre aggregazioni qui presenti, che in molti casi hanno si sono preparati a questo appuntamento con un cammino lungo e approfondito.
A conclusione dei lavori di questa Settimana Sociale, non possiamo non esprimere profonda gratitudine per il contributo di riflessione e di elaborazione che viene offerto alla Conferenza Episcopale, alle singole diocesi della Toscana e all’intera società regionale, con l’Agenda di speranza per la Toscana.
Quest’Agenda va considerata anzitutto un contributo che il laicato cattolico qui convenuto offre a tutti i fedeli laici della Toscana, essendo essi chiamati in prima persona ad «assumere il rinnovamento dell’ordine temporale come compito proprio e in esso, guidati dalla luce del Vangelo e dal pensiero della Chiesa e mossi dalla carità cristiana, operare direttamente e in modo concreto; come cittadini devono cooperare con gli altri cittadini secondo la specifica competenza e sotto la propria responsabilità; dappertutto e in ogni cosa devono cercare la giustizia del regno di Dio» (Conc. Ecum. Vaticano II, Decr. Apostolicam actuositatem, n. 7).
La necessità di spendersi per rigenerare comunità è una delle priorità del nostro tempo, in quanto, come sottolineano i vescovi italiani negli Orientamenti pastorali per il decennio, «l’attuale dinamica sociale appare segnata da una forte tendenza individualistica che svaluta la dimensione sociale, fino a ridurla a una costrizione necessaria e a un prezzo da pagare per ottenere un risultato vantaggioso per il proprio interesse. Nella visione cristiana [invece] l’uomo non si realizza da solo, ma grazie alla collaborazione con gli altri e ricercando il bene comune. Per questo appare necessaria una seria educazione alla socialità e alla cittadinanza, mediante un’ampia diffusione dei principi della dottrina sociale della Chiesa» (Educare alla vita buona del Vangelo. Orientamenti pastorali dell’episcopato italiano per il decennio 2010-2020, n. 54).
Proprio all’educazione, posta dall’episcopato italiano come priorità del decennio, ritengo sia necessario rivolgere una particolare attenzione, curandola con più organicità e determinazione, a partire certamente dall’educazione alla fede e alla sua dimensione comunitaria, ma anche in vista di un nuovo protagonismo dei cattolici nella vita sociale e politica.
Cogliendo la differenza e lo stretto rapporto che esiste tra l’educazione come percorso complessivo e la formazione a un ambito particolare, prima e a fondamento degli approfondimenti specifici – come può essere, ad esempio, un percorso formativo in campo sociopolitico o economico –, i cattolici sono chiamati ad assumere come costante della loro vita l’educazione alla fede, perché l’essere cristiani non è, né può mai essere, scelta e pratica privata, individuale, bensì anima e matrice di civiltà, di relazione, di comunità. Soprattutto, questo primato dell’educazione alla fede è richiesto dalle condizioni culturali e religiose dei tempi che viviamo, nei quali, come ha scritto Benedetto XVI, nell’indire l’Anno della fede, «capita ormai non di rado che i cristiani si diano maggior preoccupazione per le conseguenze sociali, culturali e politiche del loro impegno, continuando a pensare alla fede come un presupposto ovvio del vivere comune. In effetti, questo presupposto non solo non è più tale, ma spesso viene perfino negato» (Lett. ap. Porta fidei, 11 ottobre 2011, n. 2). Per questo occorre ribadire come alla base di ogni impegno sociale dei cristiani debba esserci – e sono ancora parole di Benedetto XVI – «un’autentica e rinnovata conversione al Signore, unico Salvatore del mondo» (Ivi, n. 6).
Ecco perché non basta sentire l’esigenza di una rinnovata presenza e di un più puntuale e creativo protagonismo del laicato cattolico, per far sì che questa presenza risulti significativa e incisiva, superando la situazione di pratica irrilevanza culturale e di diffusa “afonia” nella costruzione della polis, che si registra ormai da tempo e che non può essere colmata da semplici tentativi di aggregazione partitica. Occorre che tale impegno sia fondato su una salda coscienza di fede.
I cattolici hanno contribuito in modo essenziale alla storia del nostro Paese. Basti pensare al prezioso apporto offerto alla stesura della Costituzione repubblicana. I cattolici tanto hanno dato, ma tanto ancora possono dare in questa particolare stagione della vita del Paese, chiamato ad affrontare riforme di grande portata e fortemente bisognoso di un pensiero culturale alto e di una politica di energico spessore. Tanto hanno dato e tanto possono e debbono dare alla vitalità delle nostre città e di questa nostra regione.
Per essere protagonisti della vita sociale e politica, con una presenza che nei fatti – circolazione delle idee e determinazione delle scelte – apporti un valore aggiunto qualificato e divenga generatrice di cultura, è necessario riscoprire la fecondità del Vangelo per la vita quotidiana, personale e comunitaria, nella certezza che il Vangelo illumina il nostro cammino nel mondo, conduce alla radice delle questioni, orienta le scelte che si è chiamati a compiere. In questo consiste una visione piena della fede.
Per questo, nell’attuale fase storica, occorre anzitutto «ravvivare una fede che fondi un nuovo umanesimo capace di generare cultura e impegno sociale» (Benedetto XVI, Omelia alla Celebrazione dei Vespri e Te Deum di ringraziamento per l’anno trascorso, 31 dicembre 2011).
Nel fondare questo nuovo umanesimo, la Chiesa Toscana, tutti i fedeli laici e l’intera società civile e politica della regione, in ragione della loro stessa storia, non possono non trovarsi in prima linea. Non possiamo dimenticare come gli inizi dell’umanesimo moderno siano intrecciati profondamente con la visione di fede della vita e della storia e, se successivamente, le istanze umanistiche diventarono sinonimo di distacco dalla fede, ciò non appartiene alle sue più autentiche sorgenti. Dobbiamo chiederci se oggi proprio a noi non spetti riprendere le fila di quel tessuto originario e condurre a più piena realizzazione quella che il grande teologo Henri de Lubac definì l’alba incompiuta del Rinascimento.
Per fondare un nuovo umanesimo è necessario porre l’uomo – e l’uomo nella pienezza della sua identità, nella sua unità corporeo-spirituale e quindi nella sua apertura al trascendente – al centro, come cifra di tutte le questioni. Del resto, ha ricordato Benedetto XVI, la stessa «questione sociale», colta nella sua sorgente e nei sui effetti, «è diventata radicalmente questione antropologica» (Lett. enc.Caritas in veritate, n. 75).
Per contribuire a fondare un nuovo umanesimo, dobbiamo saper voltare pagina, abbandonando timori e incrostazioni ideologiche che di fatto impediscono di porsi nei confronti del mondo con quella parresìa che ha caratterizzato la predicazione degli apostoli e di assumere la piena consapevolezza che, come ci ha detto Papa Francesco, «la grazia contenuta nei Sacramenti pasquali è un potenziale di rinnovamento enorme per l’esistenza personale, per la vita delle famiglie, per le relazioni sociali. […] Questo è il potere della grazia. Senza la grazia non possiamo nulla» (Regina caeli, 1° aprile 2013).
Per tornare ad essere significativi nella vita sociale e politica è altresì necessario che i cattolici, osino di più nel loro quotidiano operare, elaborando proposte e assumendo impegni e responsabilità chiare e coerenti, misurandosi con i problemi reali, riscoprendo la fatica del confronto, valorizzando l’autentica autonomia delle realtà terrene senza abdicare alla specificità cristiana, che sa incarnare i valori perenni nella mutevolezza dei problemi concreti, concorrendo a «produrre un nuovo pensiero», a «esprimere nuove energie» (Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, n. 78), a intraprendere un «discernimento» caratterizzato da «realismo» (Ivi, n. 21), a immaginare «soluzioni nuove» (Ivi, n. 32).
Con le parole di Papa Francesco, potremmo dire che si tratta di affrontare le situazioni sapendo che siamo chiamati ad essere custodi delle persone e delle cose: «Giuseppe è “custode”, perché sa ascoltare Dio, si lascia guidare dalla sua volontà, e proprio per questo è ancora più sensibile alle persone che gli sono affidate, sa leggere con realismo gli avvenimenti, è attento a ciò che lo circonda, e sa prendere le decisioni più sagge. […] Vorrei chiedere, per favore, a tutti coloro che occupano ruoli di responsabilità in ambito economico, politico o sociale, a tutti gli uomini e le donne di buona volontà: siamo “custodi” della creazione, del disegno di Dio iscritto nella natura, custodi dell’altro, dell’ambiente; non lasciamo che segni di distruzione e di morte accompagnino il cammino di questo nostro mondo! Ma per “custodire” dobbiamo anche avere cura di noi stessi! Ricordiamo che l’odio, l’invidia, la superbia sporcano la vita! Custodire vuol dire allora vigilare sui nostri sentimenti, sul nostro cuore, perché è proprio da lì che escono le intenzioni buone e cattive: quelle che costruiscono e quelle che distruggono! Non dobbiamo avere paura della bontà, anzi neanche della tenerezza!» (Omelia alla Messa per l’inizio del ministero petrino del Vescovo di Roma, 19 marzo 2013)».
Al termine di queste giornate viene consegnata alla Chiesa e alla società toscana un’Agenda. Con il termine Agenda non si è mai inteso né si intende indicare un programma politico, compito proprio di specifiche formazioni sociali, ma semplicemente porre all’attenzione – e questo ha indubbia rilevanza politica – tematiche ritenute essenziali per l’intera comunità, richiamando la concretezza degli obiettivi che ci si pongono e l’aderenza alla realtà.
Non entro nel merito delle proposte avanzate con l’Agenda di speranza per la Toscana, ma, proprio per quanto detto fino ad ora, ritengo che ogni tematica proposta, così come ogni ambito dell’umano, si debba leggere e affrontare ponendo al centro l’uomo e ricercando una nuova e più elevata sintesi culturale, nella quale i diversi apporti dell’esperienza umana trovino spazio coordinandosi tra loro nella varietà e siano aperti alla trascendenza. Questo vale in modo particolare per le due grandi questioni che, intrecciandosi tra loro, costituiscono lo snodo del futuro della nostra società: il lavoro e la famiglia.
Difendere il lavoro significa porre al centro la persona che lavora, la sua dignità, il senso e la qualità della sua vita, l’esercizio quotidiano della sua relazione con gli altri. Il lavoro va posto al centro del vivere sociale ed economico, non solo perché fonte di reddito per le persone e le famiglie, ma perché non può essere ridotto a «una variabile dipendente dei meccanismi economici e finanziari», essendo piuttosto elemento costitutivo della dignità dell’uomo e quindi da riconoscere quale «bene fondamentale per la persona, la famiglia, la società» (Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1° gennaio 2013, n. 4).
Come ha affermato recentemente anche Papa Francesco, «il lavoro è un elemento fondamentale per la dignità di una persona. Il lavoro, per usare un’immagine, ci “unge” di dignità, ci riempie di dignità; ci rende simili a Dio, che ha lavorato e lavora, agisce sempre (cfrGv5,17); dà la capacità di mantenere se stessi, la propria famiglia, di contribuire alla crescita della propria Nazione» (Discorso all’Udienza generale, 1° maggio 2013).
Il Documento preparatorio della 47ª Settimana Sociale di Torino, ricorda che «il lavoro non è solo un “fare”: la dimensione soggettiva del lavoro rende ogni lavoro dignitoso, perché è espressione della persona che, anche col suo “fare”, risponde con la sua libertà alle circostanze in cui si trova. Nella radice del fare, poi, non è implicita una mera esecuzione, ma una capacità inventiva e creativa che rende il fare (poiein) parente della poesia. Lavorare è bene, è una cosa buona anche se è difficile (bonum arduum). Ogni lavoratore è, a suo modo, un imprenditore». E lo stesso Documento ribadisce che «l’impresa economica è una comunità di persone
La persona umana, quale pilastro fondamentale della società, è centro, vertice e fine di tutte le istituzioni sociali. È la persona il soggetto che deve assumersi il dovere dello sviluppo sociale e al tempo stesso è la risorsa fondamentale che lo rende possibile; non il denaro o la tecnica o la finanza, che sono strumenti e, come tali, vanno mantenuti nell’ordine dei mezzi senza mai essere scambiati con i fini. Solo ponendo al centro il lavoro, e quindi la persona, l’economia può davvero rimettersi in marcia e lo sviluppo essere di segno positivo.
In questa particolare contingenza storica, caratterizzata da un numero sempre maggiore di persone e famiglie che vive la drammaticità della perdita di lavoro e del non trovare gli spazi per inserirsi nel mondo del lavoro, gli spazi per intraprendere, facciamo nostre in questa sede le parole di Papa Francesco nello scorso Primo Maggio: «Desidero rivolgere a tutti l’invito alla solidarietà, e ai responsabili della cosa pubblica l’incoraggiamento a fare ogni sforzo per dare nuovo slancio all’occupazione; questo significa preoccuparsi per la dignità della persona; ma soprattutto vorrei dire di non perdere la speranza… nella certezza che Dio non ci abbandona» (Discorso all’Udienza generale, 1° maggio 2013).
Mettere al centro la persona, offre un solido punto di riferimento e apre una via larga anche nell’affrontare il tema che sarà posto al centro delle prossima Settimana Sociale nazionale di Torino: “La famiglia, speranza e futuro per la società italiana”.
Se guardata mettendo al centro la persona, la famiglia, fondata sul matrimonio fra un uomo e una donna, appare naturalmente per ciò che essa è: prima e vitale cellula della società, che possiede una specifica e originaria dimensione sociale. «Nella prospettiva della ricerca continua del bene comune, il tema della famiglia appare quanto mai importante: tocca i nodi antropologici essenziali per il futuro della persona umana; costituisce un pilastro fondamentale per costruire una società civile davvero libera, a cominciare dalla libertà religiosa e da quella educativa; è dunque condizione fondamentale per una società dove i diritti di tutti siano realmente rispettati. Il “favor familiae”, sancito dalla legge dello Stato fin dal suo livello costituzionale, non è in contrasto ma diventa garanzia anche per i diritti individuali» (Lettera invito al cammino di discernimento verso la 47ª Settimana Sociale, 13 febbraio 2013, n. 2).
Nel tempo, pur breve, che ci separa dalla Settimana Sociale di Torino (12-15 Settembre 2013), ritengo che tutto il laicato cattolico, a tutti i livelli e in tutte le sue aggregazioni, debba porre all’ordine del giorno del proprio cammino una riflessione seria su e per la famiglia, vista non come tematica interna alla Chiesa, ma come questione che interessa tutta la società, essendo questione eminentemente antropologica e sociale. Nella e con la famiglia, infatti, si fa chiara la visione di uomo che portiamo dietro di noi, visto come individuo oppure come persona, da cui poi deriva il ruolo che la società assegna alla famiglia e il rapporto fra famiglia stessa e società.
«Nel nostro sistema, il primato costituzionale della famiglia va messo in parallelo con quello riconosciuto al lavoro dal primo articolo della Carta costituzionale.La famiglia umanizza non solo la società, ma anche il lavoro. All’art. 36 si afferma che “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Il lavoro non è quindi concepito in senso individualistico, ma come svolto da una persona che vive in una famiglia. La Costituzione ci ricorda in tal modo che famiglia e lavoro devono essere protetti allo stesso titolo: garantire l’esistenza e la qualità del lavoro significa assicurare libertà e dignità alla famiglia che tramite esso vive e cresce» (Documento preparatorio della 47ª Settimana Sociale di Torino, n 12).
Lo sguardo alle due realtà del lavoro e della famiglia costituisce l’orizzonte in cui si pone la questione dei giovani nella nostra società. Occorre legare di più momenti formativi e esperienza di lavoro nella vita sociale, dando spazio alle nuove generazioni. Occorre accrescere gli spazi di reciprocità, con un’attenzione speciale alle forme di cooperazione, con cui sviluppare modi comunitari con cui gestire i beni. Occorre legare maggiormente le forme del nostro intraprendere al territorio e alla sua storia peculiare. Occorre aprirsi a stili di vita meno legati a modelli consumistici e più indirizzati a forme di gratuità e di socialità. Il tema di una società più fraterna dovrebbe essere messo all’ordine del giorno con maggiore convinzione, per superare schemi ormai logori di competizione e di antagonismo sociale. E qui si torna al punto iniziale della mia riflessione, alla contrapposizione tra individuo e persona, tra l’autonomia asfittica e impossibile di singoli e gruppi e alla relazione liberante in cui ci si accompagna nella condivisione della speranza. A questo parametro umanistico da ribaltare siamo tutti richiamati e da qui inizia il nostro impegno.