Vescovi Toscani
Mons. Betori: «Don Milani camminava avanti»
Essere qui con voi, a Barbiana, nell’anniversario della morte di don Lorenzo Milani il 42° anniversario per me arcivescovo di Firenze da pochi mesi, assume un significato particolare. Sento di rappresentare la Chiesa, in particolare la Chiesa di Firenze, anche i vescovi che mi hanno preceduto in questo servizio. Ora che il Signore mi ha chiamato a Firenze è mio dovere riprendere in mano la conoscenza di questo nostro prete, figura di rilievo nella storia del nostro tempo, importante anche per la Chiesa, ben oltre i confini stessi della nostra diocesi, certo che egli ha da dirci ancora tanto. Vorrei avvicinarmi a lui soprattutto cercando di coglierlo nella sua dimensione di prete, di uomo di fede: prete fiorentino, prete della nostra Chiesa, suo patrimonio prezioso. Su questa sua natura di prete vorrei insistere, certo di non allontanarmi dalla sua intenzione profonda. Lo avvertiva anche la sua mamma, Alice Weiss, in un’intervista a P. Nazareno Fabbretti, tre anni dopo la morte di don Lorenzo. Lei, che pur si dichiarava atea, si esprimeva così: «Mi preme soprattutto che si conosca il prete, che si sappia la verità, che si renda onore alla Chiesa anche per quello che lui è stato nella Chiesa e che la Chiesa renda onore a lui quella Chiesa che lo ha fatto tanto soffrire ma che gli ha dato il sacerdozio, e la forza di quella fede che resta, per me, il mistero più profondo di mio figlio Se non si comprenderà realmente il sacerdote che don Lorenzo è stato, difficilmente si potrà capire di lui anche tutto il resto. Per esempio il suo profondo equilibrio fra durezza e carità» (NAZARENO FABBRETTI, Incontro con la madre del parroco di Barbiana a tre anni dalla sua morte, Il Resto del Carlino, Bologna, 8 luglio 1970).
Proprio per questa fedeltà alla sua figura sacerdotale, le mie parole non possono che muovere dalla Parola di Dio che ci è stata proposta dalla Chiesa in questo venerdì della XII settimana del tempo ordinario. Don Milani, grande cultore e maestro della parola, aveva ben chiaro che al centro delle nostre parole non può che esserci la Parola di Dio. Da comprendere alla luce dei testi originali, da spiegare anche aiutandosi con le immagini delle cartine geografiche.
Questa Parola oggi ci propone anzitutto la figura di Abramo, il padre del popolo d’Israele e padre di tutti credenti nel Dio di Gesù Cristo. Di lui ci è proposto uno dei suoi incontri con la rivelazione divina, che lo conferma nella sua chiamata e gli ribadisce la promessa che guida il cammino della sua vita fin dai tempi della sua uscita da Carran. La chiamata e la promessa con cui Dio allora gli si era manifestato rischiavano di essere messi a dura prova di fonte al non concretizzarsi della terra e della discendenza. Ed ecco allora Dio farsi presente ad Abramo a stringere con lui un’alleanza. Questa che abbiamo ascoltato è la forma con cui viene trasmessa dalla tradizione sacerdotale e fa seguito a un racconto parallelo di estrazione jahvista (cf. Gen 15), ma nell’economia del libro della Genesi, venendo l’una dopo l’altra, la nostra appare l’ulteriore riconferma di un atto che Dio ha già assicurato ad Abramo, quasi a dirci che egli non lo lascia mai, che è davvero il suo amico, come troviamo affermato dai profeti (cf. Is 41,8; Dn 3,35) e dalla lettera di Giacomo (Gc 2,23).
Qui occorre fermarci per riflettere su questo primato dell’iniziativa di Dio nella strada della salvezza. Tutto nasce dalla chiamata di Abramo e tutto si riconferma nell’offerta di una alleanza, con cui Dio vuole stringerlo a sé. La fede inizia da una parola di Dio, da una sua chiamata: è la risposta dell’uomo a Dio che chiama. «Non voi avete scelto me ma io ho scelto voi», dirà Gesù ai suoi discepoli (Gv 15,16). Non si può capire nulla di don Lorenzo se si omette questa radice. Anche nella sua vita c’è questo punto di partenza che ne è la chiave di lettura fondamentale: la sua vocazione alla fede e poi al sacerdozio nel pieno della giovinezza, il suo incontro con il Signore. Questa chiamata alla fede cui risponde con totalità e con fedeltà spiega tutto della sua vita, spiega anche come egli non si sia ritratto neanche nei momenti difficili con la sua Chiesa. È la chiamata e la risposta della fede che spiegano anche le sue scelte più forti, anche il suo lasciare le agiatezze della famiglia per darsi tutto ai bisognosi. Valgono per lui le parole di Paolo: «ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo» (Fil 3,8).
Don Milani è un convertito. Sulla sua conversione ha sempre mantenuto estrema riservatezza, come era nel suo stile. Valutando lo spessore profondo della sua umanità, della sua intelligenza, della sua cultura, della sua sensibilità, dovremmo dire che egli è un grande convertito. E dei grandi convertiti ha probabilmente tutte le caratteristiche, compresa la scomodità. Certo la sua vita è una vita di fede, una fede senza fronzoli, autentica, accompagnata da forti esigenze etiche. Risuona bene per lui l’invito che abbiamo sentito fare da Dio ad Abramo nel momento in cui gli si rivela: «Cammina davanti a me e sii integro». E don Milani è un convertito a Gesù Cristo. Dirà don Bensi, col suo linguaggio particolarmente vivo ed efficace, un linguaggio davvero fiorentino, in una testimonianza che mi sembra tanto bella: «Incontrare Cristo, incaponirsene, derubarlo, mangiarlo, fu tutt’uno. Ecco: fino a pigliarsi un’indigestione di Gesù Cristo».
E su questo punto si può innestare un altro elemento della nostra pagina della Genesi, quando Dio esige che l’alleanza che egli stipula con Abramo sia incisa nella stessa carne di lui, tramite la circoncisione. Nella simbologia del tempo essa sta a indicare l’appartenenza di Abramo a Dio come un sigillo di proprietà. Ma nella sua attualità essa esprime anche il fatto che il rapporto con Dio non si diluisce in una vaga spiritualità, ma prende carne nel corpo stesso dell’uomo. Di questa concretezza storica della fede don Milani è stato un grande testimone, aiutando la Chiesa a uscire da vaghi spiritualismi da non confondere con la vera spiritualità, sulla quale non si possono invece fare sconti , per mischiarsi nelle condizioni umane più laceranti e più marginali, chinando concretamente lo sguardo, il cuore, la voce, la mani sui poveri di questo mondo. Accanto alla sua fede è questo l’aspetto che più mi colpisce di don Milani, il trarre dalla fede un compromettersi con la realtà, con la gente e con la storia.
Dio cambia nome ad Abramo, come poi farà con Sara. Un nome nuovo: quindi una nuova identità, perché possano diventare i progenitori del suo popolo, accogliendo nella loro vita una promessa tanto grande da risultare incredibile, da indurre al riso i suoi destinatari, eppure così reale, come ricorda la liturgia che lo chiama «nostro padre nella fede», riecheggiando il nostro testo, in cui Dio gli si rivolge così: «padre di una moltitudine di popoli ti renderò» e il passo della lettera ai Romani in cui Paolo parla della discendenza «che deriva dalla fede di Abramo, il quale è padre di tutti noi» (Rm 4,16). Il cambiamento del nome dice che l’incontro con Dio non ci lascia immutati e ci rende creature nuove. Così è stato con don Lorenzo, che questa novità di vita ha voluto comunicare in tutta la sua radicalità a chi gli stava attorno, magari anche scomodando qualcuno, ma sempre senza tradire quel Dio che lo aveva chiamato.
Ho cercato di mostrarvi il segreto della fede che ha animato sempre la vita di don Milani. Ma so che non posso andare via da qui se non rispondo anche ad un’altra domanda: Perché la Chiesa non l’ha capito? Non è stata forse troppo dura con lui? Riconoscimenti di ritardi e incomprensioni non sono mancati, a cominciare da quello fondamentale de La Civiltà Cattolica, che, con uno scritto serio e documentato, ha riconosciuto gli errori e i limiti della recensione a Esperienze pastorali lì apparsa nel 1958, che di fatto aveva provocato il provvedimento della Santa Sede che giudicava il libro inopportuno e invitava a sospenderne la vendita se mi è permessa un po’ di ironia, con poca efficacia, vista la sua diffusione già negli anni sessanta. Ma il problema non può ridursi alla correttezza e alla opportunità di un libro: è più di fondo, e trova adeguata risposta solo nelle parole del papa Paolo VI riguardo a don Primo Mazzolari. A chi lo accusava di non aver voluto bene a don Mazzolari, Paolo VI rispose: «No. Non è vero: io gli ho voluto bene. Certo non era sempre possibile condividere le sue posizioni: camminava avanti con un passo troppo lungo e spesso non gli si poteva tener dietro. E così ha sofferto lui e abbiamo sofferto anche noi. È il destino dei profeti». La parola profeta è di quelle che mi imbarazzano e preferisco non usarla se non per quelli che trovo nelle pagine della Bibbia. Ma posso senz’altro dire che in molte cose don Milani camminava avanti, e questo ha causato in chi lo guardava da lontano incomprensioni e ritardi. Camminava avanti perché era grande nella fede. Essergli fedeli oggi vuol dire riattingere a quelle radici di fede che hanno prodotto in lui tanto amore per il Vangelo e per i suoi ragazzi.