Vescovi Toscani

Betori: Il sacro e l’arte: la luce di Dio sul segno dell’uomo

Pubblichiamo il testo integrale della lectio magistralis tenuta dall’Arcivescovo di Firenze Giuseppe Betori, sabato 13 novembre 2010, nel Battistero di San Giovanni Battista, all’interno delle manifestazioni di Florens 2010 – Settimana Internazionale dei Beni Culturali e Ambientali

I. «Oro, argento e bronzo, tessuti di porpora viola e rossa, di scarlatto, di bisso e di pelo di capra, pelle di montone tinta di rosso, pelle di tasso e legno di acacia, olio per l’illuminazione, balsami per l’olio dell’unzione e per l’incenso aromatico, pietre di ònice e pietre da incastonare nell’efod e nel pettorale» (Es 24,3b-7). Non è l’inventario della bottega di un ricco mercante della Firenze del Quattrocento, ma un primo, e ancora parziale, elenco di quanto Dio ordina a Mosè che gli Israeliti reperiscano per la costruzione della sua Dimora nel deserto. È un elenco che, per dovizia, varietà e pregiatezza di materiali, non soffre il paragone con le scene fastose della Cavalcata dei Magi affrescate da Benozzo Gozzoli nella Cappella del Palazzo Medici Riccardi, ovvero con lo splendore severo della commistione di marmi e pietre dure della Cappella dei Principi a San Lorenzo o lo sfarzo del ciborio di Santo Spirito.

Nell’esodo dall’Egitto verso la Terra promessa, giunti gli Israeliti alla santa montagna del Sinai, «il Signore disse a Mosè: “Sali verso di me sul monte e rimani lassù: io ti darò le tavole di pietra, la legge e i comandamenti che io ho scritto per istruirli”. […] Mosè salì dunque sul monte e la nube coprì il monte. La gloria del Signore venne a dimorare sul monte Sinai e la nube lo coprì per sei giorni. Al settimo giorno il Signore chiamò Mosè dalla nube. La gloria del Signore appariva agli occhi degli Israeliti come fuoco divorante sulla cima della montagna. Mosè entrò dunque in mezzo alla nube e salì sul monte. Mosè rimase sul monte quaranta giorni e quaranta notti» (Es 24,12.16-18).

In tale contesto di profonda sacralità, Dio si rivolge a Mosè con queste parole: «Ordina agli Israeliti che raccolgano per me un contributo. Lo raccoglierete da chiunque sia generoso di cuore. Ed ecco che cosa raccoglierete da loro come contributo: oro, argento e bronzo, tessuti di porpora viola e rossa, di scarlatto, di bisso e di pelo di capra, pelle di montone tinta di rosso, pelle di tasso e legno di acacia, olio per l’illuminazione, balsami per l’olio dell’unzione e per l’incenso aromatico, pietre di ònice e pietre da incastonare nell’efod e nel pettorale. Essi mi faranno un santuario e io abiterò in mezzo a loro. Eseguirete ogni cosa secondo quanto ti mostrerò, secondo il modello della Dimora e il modello di tutti i suoi arredi» (Es 25,2-9). Ha inizio così il progetto di realizzazione del capolavoro artistico ed architettonico della fede ebraica, il Tempio, di cui la Dimora nel deserto costituisce l’anticipazione mobile.

Come sia da costruire la Dimora, occupa pagine e pagine del libro dell’Esodo, dal capitolo 25 fino al capitolo 31, con qualche interpolazione di altro materiale sempre legato al culto. È una descrizione che, con tutta evidenza, proietta indietro, nel tempo del deserto, caratteri e forme del Tempio eretto dal re Salomone, tanto che la narrazione biblica, giunta al punto della costruzione salomonica, al capitolo sesto del primo libro dei Re, non si dilunga troppo e dedica poche righe a narrare l’immane impresa di cui il re si fece carico, edificando sul Sion un santuario da annoverare tra le meraviglie dell’antichità, risplendente di pietre luminose, di legnami pregiati, di metalli preziosi, di stoffe sfarzose, che suo padre David aveva preparato e ammassato in abbondanza per lui. L’autore sacro del primo libro dei Re se la cava con un breve capitolo, proprio perché il lettore ha come riferimento quanto già detto nelle pagine dell’Esodo che stiamo ripercorrendo.

Torno ad attirare l’attenzione sull’elenco di materiali che apre l’intera narrazione della costruzione della Dimora-Tempio; un elenco ancora provvisorio e limitato, rispetto a quanto poi apparirà nel seguito della descrizione, ma che già si distingue per varietà e ricchezza. L’intera operazione artistico-architettonica prende dunque le mosse non da una dichiarazione di principio che espliciti le condizioni per cui l’opera che viene avviata potrà dirsi ed essere sacra. Non ci sono presupposti ideologici o teologici a fare da discriminante tra l’azione umana del costruire spazi e oggetti in cui risplende la bellezza e un’azione sacrale da essa distinta. Che cosa fa di uno spazio e di un oggetto un luogo e uno strumento sacro? La risposta che la nostra narrazione offre appare, a prima vista, ma solo a prima vista, deludente: la materia, una materia adatta a farsi modellare dall’uomo, una materia che oggi diremmo nobile, proprio perché in essa si riflette il dialogo tra Dio e l’umanità.

Alla nobiltà della materia, nella descrizione della Dimora-Tempio, si aggiunge il tratto della ricchezza: «oro, argento e bronzo, tessuti di porpora viola e rossa, di scarlatto, di bisso…». Ma non sempre nella Bibbia è così: oltre al valore economico, la nobiltà del materiale può essere legata anche ad altri fattori. Nella costruzione del Tempio, ad esempio, le pietre non erano rifinite: non dovevano essere violate dal ferro, ma offerte alla costruzione così come erano uscite dalla cava. Vergini intatte, le pietre del Tempio salomonico sembrano creature da sempre destinate al compito di contenere la presenza dell’Altissimo: andavano soltanto estratte dalla montagna che da sempre le aveva custodite, come in uno scrigno.

La nobiltà del materiale può derivare anche dal fatto che lo si riconosce come testimone della trascendenza, del sacro. Così è per la pietra che il patriarca Giacobbe pone a memoria della rivelazione divina che ha ricevuto. Dopo il sogno notturno della scala che univa terra e cielo, su cui angeli salivano e scendevano, «la mattina Giacobbe si alzò, prese la pietra che si era posta come guanciale, la eresse come una stele e versò olio sulla sua sommità. E chiamò quel luogo Betel». Poi Giacobbe disse: «Questa pietra, che io ho eretto come stele, sarà una casa di Dio» (Gen 28,18-19a.22a). In maniera analoga, all’ingresso nella Terra Promessa, per ricordo del luogo in cui il popolo eletto aveva ribadito la sua adesione all’alleanza con il Signore, Giosuè «prese una grande pietra e la rizzò là, sotto la quercia che era nel santuario del Signore», dicendo a tutto il popolo: «Ecco: questa pietra sarà una testimonianza per noi, perché essa ha udito tutte le parole che il Signore ci ha detto; essa servirà quindi da testimonianza per voi, perché non rinneghiate il vostro Dio» (Gs 24,26b-27).

Ciò che fa nobile la materia di cui ci si serve per realizzare l’opera sacra è il fatto che l’uomo le riconosce la capacità di dire la grandezza del Dio che ha incontrato: a ciò può piegarsi la preziosità di un materiale illustre, ma anche la nuda fisicità di un materiale comune, elevato però dal rapporto che esso ha avuto con la trascendenza. I cieli dipinti con il blu dei lapislazzuli come pure i fondi oro delle icone o dei mosaici che risplendono sopra di noi in questo Battistero esprimono certamente una dimensione sacrale, ma altrettanto si potrebbe dire per un sacco di Burri, su cui si può scorgere traccia ancora del sudore della fatica dell’uomo nel lavoro, con il quale egli nobilita il mondo trasformandolo. Maurizio Calvesi, proprio a riguardo di Burri, si esprimeva in termini affini, parlando di «un processo di risalita dalla muta, squallida presenza della materia e degli oggetti al livello dell’arte come rappresentazione drammatica e regno della bellezza» (M. Calvesi, Alberto Burri, Milano 1971). L’oro che risplende sulle mirabili forme plastiche della porta del Paradiso di questo Battistero esprime la convinzione che Lorenzo Ghiberti e i suoi committenti avevano della sacralità del luogo racchiuso tra le tre porte bronzee e della natura trascendente delle azioni che vi si compiono per coloro che ne superano la soglia. Ma anche le forme appena sbozzate dei materiali quotidiani dicono un messaggio di rivelazione della sacralità che la condizione umana e il cosmo tutto hanno assunto in forza dell’incarnazione del Verbo, che ha accolto la forma umana in un processo di abbassamento, necessario preludio della successiva rigenerazione: «Cristo Gesù […], pur essendo nella condizione di Dio […], svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini […] umiliò se stesso […]. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome» (Fil 2,5-6a.7a.8a.9). Proprio la centralità che, nella fede cristiana, hanno il mistero dell’incarnazione e quello della redenzione, fa sì che non ci sia materia che non possa accogliere il divino e che non possa essere risanata dalla sua miseria e perfino dalla sua abiezione.

Uno dei più noti teologi del Novecento, Karl Rahner, spiega la “capacità del divino” che sta nelle cose materiali affermando che «la profondità naturale della realtà simbolica […] di tutte le cose, è stata infinitamente dilatata in senso ontologico-reale, per il fatto che è divenuta determinazione del Logos stesso o del suo ambiente. Ogni realtà scaturita da Dio, quando è autentica e intatta e non è degradata a semplice mezzo utilitaristico umano, non dice solo se stessa, ma riecheggia sempre […] l’insieme della realtà. Ma se questa singola realtà, nel render presente il tutto, parla anche di Dio […], questa trascendenza acquista una radicalità ancor maggiore (anche se comprensibile soltanto per mezzo della fede) per il fatto che ora in Cristo queste realtà non ci indirizzano più a Dio solo come a causa, ma a quel Dio al quale esse appartengono come sua determinazione sostanziale o come suo ambiente. Il Verbo incarnato tutto fa sussistere in sé (Col 1,17) e perciò tutto, anche nella sua simbolicità, ha una profondità imperscrutabile, che soltanto la fede può scandagliare» (K. Rahner, “Sulla teologia del simbolo”, in Saggi sui sacramenti e sull’escatologia, Roma 1965, pp. 84-85). Non è solo il Padre invisibile a essere diventato visibile attraverso il volto di Gesù: anche la nostra immagine rivela e rimanda a una dimensione spirituale, che non può essere ridotta alla semplice consistenza materiale e tuttavia fa parte a pieno titolo della realtà.

Con parole diverse ma nella stessa linea si esprime un altro eminente teologo del nostro tempo, Joseph Ratzinger, che così, in un suo saggio del 2000, formula il primo dei criteri di un’arte sacra ordinata alla liturgia: «La totale assenza di immagini non è conciliabile con la fede nell’incarnazione di Dio. Nel suo agire storico Dio è entrato nel nostro mondo sensibile perché esso divenisse trasparente in ordine a Lui. Le immagini della bellezza, nelle quali si rende visibile il mistero del Dio invisibile, appartengono al culto cristiano» (J. Ratzinger, “Lo spirito della liturgia”, in Teologia della liturgia, Opera Omnia 11, Città del Vaticano 2010, p. 129).

Tutto in tal senso può assumere il carattere della nobiltà, purché attraversato da un’esperienza di redenzione. In quest’ultima annotazione ritengo si possa cogliere il dramma di quell’arte contemporanea che si nega al traguardo della bellezza proprio perché fa dell’abiezione umana e cosmica non un terreno della misericordia e del riscatto, ma un destino senza vie di uscita. E, soprattutto, ritiene che l’esaltazione dell’abiezione possa essere una strada breve per stupire; ma non si può stupire a costo della verità. Nell’ottica cristiana non è il mondano che viene rifiutato ma il peccato, e anche questo non viene espulso dall’esperienza bensì accolto come spazio di esercizio del perdono e della salvezza. Come afferma Giovanni Paolo II nella sua Lettera agli artisti del 1999, «persino quando scruta le profondità più oscure dell’anima, o gli aspetti più sconvolgenti del male, l’artista si fa in qualche modo voce dell’universale attesa di redenzione» (n. 10). Viene istintivamente alla mente l’immagine de Il ritorno del figliol prodigo di Rembrandt, ma lo stesso possiamo dire per i volti dei popolani di Caravaggio assurti a dire la fede e la santità. Il non-sacro, cioè, non spaventa, e per chi sa che gli idoli non esistono, perfino le carni offerte agli idoli possono diventare un pasto comune, come insegna l’apostolo Paolo (cf. 1Cor 8-10). È il medesimo principio che ha permesso la ripresa dei miti e delle figure della classicità quali strumenti espressivi della rivelazione cristiana nell’arte rinascimentale: spogliati della loro falsa identità sacra i personaggi del mito assurgono a valori perenni e non temono di diventare strumento di loro espressione. E perché oggi dovremmo temere di assumere miti e figure della contemporaneità per dire la verità dell’uomo? Purché, come ricorda ancora san Paolo, «sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio» (1Cor 10,31), cioè per manifestare lui e il suo amore per l’umanità. È ciò che fecero, secondo l’antica leggenda, gli antichi fiorentini, quando trasformarono lo spazio sacro a Marte in questo Battistero di San Giovanni, come naturale rigenerazione di un ambiente anch’esso attraversato, come gli uomini e le donne, dall’acqua del battesimo. Ce lo ricorda la bella tela di Bernardino Poccetti, che si è voluta anzitutto qui, come doveroso passaggio verso la sua ricollocazione nella nostra Cattedrale, per cui verosimilmente era stata concepita. L’arte non dà soltanto nobiltà di bellezza alla materia, ma è anche assunzione e trasfigurazione della storia, a proclamarne, specie per la storia sacra, la perenne attualità. Così è per questo battesimo del popolo fiorentino da parte di san Zanobi, il pastor ecclesiae e defensor urbis, la cui azione di ridefinizione della città nella fede è fatto che coinvolge chiunque ne contempla il gesto e chiama a una eredità coerente.

 II.

I materiali sono la base, ma ovviamente da soli non fanno un’opera d’arte. Ne è consapevole anche la narrazione biblica, che all’elenco dei materiali fa seguire la descrizione di come essi assumano le forme che danno vita ai vari elementi della Dimora. Qui mi limito a richiamare alcuni tratti della costruzione dell’arca e poi del pettorale dell’efod.

«Faranno dunque un’arca di legno di acacia: avrà due cubiti e mezzo di lunghezza, un cubito e mezzo di larghezza, un cubito e mezzo di altezza. La rivestirai d’oro puro: dentro e fuori la rivestirai e le farai intorno un bordo d’oro. Fonderai per essa quattro anelli d’oro e li fisserai ai suoi quattro piedi: due anelli su di un lato e due anelli sull’altro. Farai stanghe di legno di acacia e le rivestirai d’oro. Introdurrai le stanghe negli anelli sui due lati dell’arca per trasportare con esse l’arca» (Es 25,10-14). Il fascino del manufatto è sì legato allo splendore dell’oro, ma anche alla proporzione delle forme, la cui semplicità sembra voler fare da contrappeso alla preziosità della materia. È legato anche alla funzione pratica per cui l’opera era concepita, con le stanghe introdotte negli anelli per rendere portatile l’oggetto sacro.

Nel racconto biblico non meno significativo è il coperchio dell’arca, il propiziatorio: «Farai il propiziatorio, d’oro puro; avrà due cubiti e mezzo di lunghezza e un cubito e mezzo di larghezza. Farai due cherubini d’oro: li farai lavorati a martello sulle due estremità del propiziatorio. […] I cherubini avranno le due ali spiegate verso l’alto, proteggendo con le ali il propiziatorio; saranno rivolti l’uno verso l’altro e le facce dei cherubini saranno rivolte verso il propiziatorio. Porrai il propiziatorio sulla parte superiore dell’arca e collocherai nell’arca la Testimonianza che io ti darò. Io ti darò convegno in quel luogo: parlerò con te da sopra il propiziatorio, in mezzo ai due cherubini che saranno sull’arca della Testimonianza, dandoti i miei ordini riguardo agli Israeliti» (Es 25,17-18.20-22). Sotto lo sguardo vigile dei misteriosi cherubini riposa la preziosa custodia delle tavole della Legge, la Testimonianza, chiusa sotto il propiziatorio, che è però anche il trono da cui Dio manifesta la sua volontà agli Israeliti. Pregio del materiale e purezza delle linee convergono nel dare figura alla trascendenza che incontra l’uomo.

Come la materia prende forma con varietà e bellezza per una funzione sacrale lo mostra anche la descrizione della realizzazione del pettorale dell’efod, il memoriale delle dodici tribù, stoffa preziosa, posta sul petto e sulle spalle del sommo sacerdote, sul davanti a forma di borsa per contenere le pietre sacre della divinazione: «Farai il pettorale del giudizio, artisticamente lavorato, di fattura uguale a quella dell’efod: con oro, porpora viola, porpora rossa, scarlatto e bisso ritorto. Sarà quadrato, doppio; avrà una spanna di lunghezza e una spanna di larghezza. Lo coprirai con un’incastonatura di pietre preziose, disposte in quattro file. Prima fila: una cornalina, un topazio e uno smeraldo; seconda fila: una turchese, uno zaffìro e un berillo; terza fila: un giacinto, un’àgata e un’ametista; quarta fila: un crisòlito, un’ònice e un diaspro. Esse saranno inserite nell’oro mediante i loro castoni. Le pietre corrisponderanno ai nomi dei figli d’Israele: dodici, secondo i loro nomi, e saranno incise come sigilli, ciascuna con il nome corrispondente, secondo le dodici tribù. […] Così Aronne porterà i nomi dei figli d’Israele sul pettorale del giudizio, sopra il suo cuore, quando entrerà nel Santo, come memoriale davanti al Signore, per sempre. Unirai al pettorale del giudizio gli urìm e i tummìm. Saranno così sopra il cuore di Aronne quando entrerà alla presenza del Signore: Aronne porterà il giudizio degli Israeliti sopra il suo cuore alla presenza del Signore, per sempre» (Es 28,15-21.29-30).

A collegare tra loro la nobiltà della materia e lo splendore della forma è posta ovviamente l’abilità manuale dell’uomo e la sua capacità ideativa. Nella nostra narrazione questo è così attestato: «Il Signore parlò a Mosè e gli disse: “Vedi, ho chiamato per nome Besalèl, figlio di Urì, figlio di Cur, della tribù di Giuda. L’ho riempito dello spirito di Dio, perché abbia saggezza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro, per ideare progetti da realizzare in oro, argento e bronzo, per intagliare le pietre da incastonare, per scolpire il legno ed eseguire ogni sorta di lavoro. Ed ecco, gli ho dato per compagno Ooliàb, figlio di Achisamàc, della tribù di Dan. Inoltre nel cuore di ogni artista ho infuso saggezza, perché possano eseguire quanto ti ho comandato: la tenda del convegno, l’arca della Testimonianza, il propiziatorio sopra di essa e tutti gli accessori della tenda; la tavola con i suoi accessori, il candelabro puro con i suoi accessori, l’altare dell’incenso e l’altare degli olocausti con tutti i suoi accessori, il bacino con il suo piedistallo; le vesti ornamentali, le vesti sacre del sacerdote Aronne e le vesti dei suoi figli per esercitare il sacerdozio; l’olio dell’unzione e l’incenso aromatico per il santuario. Essi eseguiranno quanto ti ho ordinato”» (Es 31,1-11). Visione e manualità si uniscono nelle qualità artistiche individuate in Besalèl e Ooliàb, ma soprattutto lo spirito artistico è assimilato allo «spirito di Dio», o, meglio, è considerato come una sua espressione e un suo frutto, immettendo quindi la dimensione trascendente alla radice stessa della facoltà artistica. Agli artisti non è chiesto altro che di eseguire ciò che Dio ha ordinato. Così che il sacro non è qualcosa che si aggiunge all’artistico, ma la forma con cui lo spirito artistico si concretizza quando si applica a un orizzonte religioso.

Altrettanto importante è il modo in cui il testo dell’Esodo illustra le forme con cui lo spirito di Dio si esprime nell’artista: «saggezza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro, per ideare progetti da realizzare». Il momento ideativo viene in evidenza, dopo tanto spazio dato alla materia e alla manualità. È ciò che permette di superare il piano artigianale e attingere quello artistico, nella composizione armonica delle forme, come suggerisce il termine saggezza, ma anche nelle capacità ideative e inventive frutto dell’intelligenza e nella progettualità che mette insieme i dati secondo scienza e conoscenze. Il tutto indirizzato verso la concretezza della realizzazione di un prodotto. Perché lo spessore materico e la capacità plasmatrice non si oppongono alla dimensione ideale, ma ne sono il necessario complemento, che ne impedisce un esito disincarnato, di una teoresi staccata dalla realtà. Ne è testimonianza anche il fatto che il progetto prevede accanto ai due artisti una schiera di collaboratori, senza i quali la complessità della costruzione avrebbe schiacciato ogni pur alto disegno, con un intreccio tra arte e artigianato che sta nelle migliori tradizioni della nostra Firenze, culla non solo di eccelsi artisti ma di altrettanto eccelse botteghe d’arte: «Mosè disse agli Israeliti: “Vedete, il Signore ha chiamato per nome Besalel […]. L’ha riempito dello spirito di Dio, perché egli abbia saggezza intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro, per ideare progetti […]. Gli ha messo nel cuore il dono di insegnare, e così anche ha fatto con Ooliàb […]. Mosè chiamò Besalèl, Ooliàb e tutti gli artisti, nel cuore dei quali il Signore aveva messo saggezza, quanti erano portati a prestarsi per l’esecuzione dei lavori» (Es 35,30.31-32.34; 36,2).

 III.

Su questo orizzonte ideativo si pone il secondo passaggio in cui l’architettura del Tempio diventa oggetto di specifica trattazione. Lo troviamo nel libro di Ezechiele. Il profeta scrive in un momento storico in cui il Tempio che abbiamo appena descritto non c’è più, essendo stato distrutto, con tutta Gerusalemme, dall’esercito babilonese di Nabucodonosor. Gli edifici del Tempio sono stati rasi al suolo, le sue suppellettili depredate e portate a Babilonia. La Gloria del Signore non ha più il suo luogo di dimora e il popolo ne vive la drammatica assenza.

La prospettiva del suo ritorno, quale orizzonte di salvezza che il profeta è chiamato ad annunciare nell’ultima fase della sua predicazione, è strettamente legata alla ricostruzione del luogo sacro. Il ritorno della Gloria è subordinato alla riedificazione del Tempio. Dal capitolo quaranta al capitolo quarantadue il libro di Ezechiele rivela come ricostruire il nuovo Tempio, secondo una visione di esso che culmina con la rappresentazione del ritorno della Gloria, cui fanno seguito le norme circa il culto da svolgervi, la nuova suddivisione della terra promessa secondo le tribù d’Israele e, infine, il perimetro della riedificata Gerusalemme.

Le pagine che ci interessano – la visione del nuovo Tempio – descrivono il cammino del profeta al seguito di un misterioso personaggio che, con una cordicella e una canna di misura in mano, lo conduce attraverso il fabbricato svelandone le misure. Si tratta di misure di superficie, quasi un percorso su una pianta dell’edificio, che prescinde dalla sua altezza. Per orientarci sarà opportuno ricordare che la misura del cubito corrisponde più o meno a mezzo metro di lunghezza. Tutto è rarefatta geometria, senza riferimento ai materiali e alle forme.

Ascoltiamone un passaggio: «Ed ecco, il tempio era tutto recinto da un muro. La canna per misurare che l’uomo teneva in mano era di sei cubiti, ciascuno di un cubito e un palmo. Egli misurò lo spessore del muro: era una canna, e l’altezza una canna. Poi andò alla porta che guarda a oriente, salì i gradini e misurò la soglia della porta; era una canna di larghezza. Ogni stanza misurava una canna di lunghezza e una di larghezza, da una stanza all’altra vi erano cinque cubiti: anche la soglia della porta dal lato del vestibolo della porta stessa, verso l’interno, era di una canna. Misurò il vestibolo della porta: era di otto cubiti; i pilastri di due cubiti. Il vestibolo della porta era verso l’interno» (Ez 40,5-9).

La nudità formale della descrizione non cambia sostanzialmente neanche quando si passa a proporre la visione del cuore più sacro dell’edificio, il santuario vero e proprio – il luogo chiamato semplicemente “Santo” –; si concede qualcosa a notizie circa il materiale e la decorazione, ma prevalgono ancora i dati geometrici: «La costruzione che era di fronte allo spazio libero sul lato occidentale, aveva settanta cubiti di larghezza; il muro della costruzione era tutt’intorno dello spessore di cinque cubiti, la sua lunghezza di novanta cubiti. Poi misurò il tempio: lunghezza cento cubiti; lo spazio libero, l’edificio e le sue mura, anch’essi cento cubiti. La larghezza della facciata del tempio con lo spazio libero a oriente, cento cubiti. Misurò ancora la larghezza dell’edificio di fronte allo spazio libero nella parte retrostante, con le gallerie di qua e di là: era cento cubiti. L’interno dell’aula, il suo vestibolo, gli stipiti, le finestre a grate e le gallerie attorno a tutti e tre, a cominciare dalla soglia, erano rivestiti di tavole di legno, tutt’intorno, dal pavimento fino alle finestre, che erano velate. Dall’ingresso, dentro e fuori del tempio e su tutte le pareti interne ed esterne erano dipinti cherubini e palme. Fra cherubino e cherubino c’era una palma; ogni cherubino aveva due aspetti: aspetto d’uomo verso una palma e aspetto di leone verso l’altra palma, effigiati intorno a tutto il tempio» (Ez 41,12-19).

L’astrattezza della descrizione rasenta, sul piano letterario, l’aridità. Il messaggio che ne trapela è però di grande impatto: ciò che conta nel Tempio da costruire non è il come della realizzazione, ma il suo rispondere a un canone di equilibrio di misure che dona armonia al tutto. L’arte, l’arte sacra, è sì una materia da plasmare, un’immagine da modellare, ma è soprattutto una misura da cogliere secondo un preciso progetto, un’idea che anticipa ogni concreta realizzazione, lasciandosi poi disporre a varie concretizzazioni. Considerazioni queste, che hanno evidenti assonanze con quanto scriveva Le Corbusier: «L’architettura non ha niente a che fare con gli “stili”. I Luigi XV, XVI, XIV o il Gotico sono per l’architettura come una piuma sulla testa di una donna; talvolta graziosa, ma non sempre e niente di più. L’architettura ha dei compiti più seri; suscettibile di purificazione, essa tocca gli istinti più brutali con la sua oggettività; sollecita le capacità più elevate con la sua stessa astrazione. L’astrazione architettonica ha di particolare e di magnifico che, pur radicandosi nella realtà brutale, la spiritualizza, perché la realtà brutale altro non è che la materializzazione, il simbolo delle idee possibili. La realtà brutale non può essere trasformata in idee che attraverso l’ordine con il quale si progetta» (Le Corbusier, Tre richiami ai Signori Architetti, 1920: tratto da L. Toccafondi, Le forme sorgono. La condizione dell’architettura contemporanea attraverso gli scritti degli architetti, Torino 1975, p. 30). L’arte è forma, secondo principi di armonia, e l’arte sacra chiede che tale forma si allinei a un progetto divino che è misura di tutte le cose, da rispettare nelle loro native, creaturali proporzioni.

Solo così si è certi di superare la soglia del pur degno artigianato, senza peraltro distaccarsi troppo da esso, come ci insegnano i nostri antichi, e come continuano a ricordarci le pagine dell’Esodo su cui ci siamo a lungo soffermati. Ma le esigenze poste dal brano di Ezechiele sono altre, per certi aspetti superiori, e danno ragione anche di quella relatività circa le radici della nobiltà della materia che abbiamo prima evidenziato. Ciò che conta è cogliere la forma ideale delle cose. Sono esigenze che, con un rapido sguardo alla storia dell’arte, non distano troppo dalle istanze che guidano Leon Battista Alberti nella ricerca dei canoni delle discipline artistiche ed architettoniche. La stessa rarefatta atmosfera geometrica pervade i dipinti di Piero della Francesca e, per arrivare a tempi a noi vicini, si ravvisa nelle piazze assolate della pittura metafisica di Giorgio De Chirico.

Pur radicato nella concretezza fisica della materia, il prodotto artistico che emerge dalle pagine bibliche propone un primato della forma ideale, che è poi il motivo della sua significatività e della sua capacità di fare da supporto a un messaggio di verità. Nella forma ideale giace infatti il significato che le immagini potranno comunicare. E l’arte sacra non rifugge quindi neanche dalla rarefazione radicale dell’immagine che per altri versi l’astrattismo o il concettualismo contemporaneo suggeriscono. Come osserva Timothy Verdon, «l’idea di un’arte sacra astratta non deve spaventare il cristiano se Cristo stesso, Verbo umanato, pur nella concretezza del corpo assunto da Maria non esitò a presentarsi in termini lontani da ogni possibilità di figurazione, come “via”, “verità” e “vita” degli uomini. Soprattutto – continua Verdon – nel contesto liturgico, dove l’arte accompagna riti che spingono oltre l’aspetto esterno delle cose, i linguaggi del contemporaneo, tra cui l’astrattismo, sono adatti al mistero vitale celebrato» (T. Verdon, “Verso una teologia dell’arte contemporanea”, in G. Bonanno (a cura di), Novecento Sacro in Sicilia, Palermo 2010, p. 24). Neanche queste sono strade chiuse a un’arte sacra che sappia trarre lezione dalle pianificazioni geometriche di Ezechiele.

 IV.

Il nostro percorso biblico dietro le figurazioni del Tempio, e quello che esso può dire a un’arte sacra oggi, non può però fermarsi qui. C’è infatti un terzo capitolo del percorso che va assolutamente indagato. È la ripresa/assenza dell’immagine del Tempio nel cuore della Gerusalemme celeste di cui parlano le pagine finali dell’Apocalisse giovannea.

La Gerusalemme del cielo, la città escatologica non ha più un Tempio. «In essa non vidi alcun tempio» (Ap 21,22a), confessa il veggente. Ma la lettura del testo che precede questa affermazione desacralizzante ci ha mostrato trasferite all’intera città le caratteristiche che la tradizione anticotestamentaria, quella dell’Esodo e quella di Ezechiele insieme, avevano consegnato all’immagine del Tempio. Le misure di una geometria armonica, che questa volta si estende anche all’altezza, e la preziosità dei materiali servono ora a dire forma e materia della città che Dio dona all’umanità redenta come sua abitazione per l’eternità: «L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio. Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino. È cinta da grandi e alte mura con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele. A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e a occidente tre porte. Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello. Colui che mi parlava aveva come misura una canna d’oro per misurare la città, le sue porte e le sue mura. La città è a forma di quadrato: la sua lunghezza è uguale alla larghezza. L’angelo misurò la città con la canna: sono dodicimila stadi; la lunghezza, la larghezza e l’altezza sono uguali. Ne misurò anche le mura: sono alte centoquarantaquattro braccia, secondo la misura in uso tra gli uomini adoperata dall’angelo. Le mura sono costruite con diaspro e la città è di oro puro, simile a terso cristallo. I basamenti delle mura della città sono adorni di ogni specie di pietre preziose. Il primo basamento è di diaspro, il secondo di zaffìro, il terzo di calcedònio, il quarto di smeraldo, il quinto di sardònice, il sesto di cornalina, il settimo di crisòlito, l’ottavo di berillo, il nono di topazio, il decimo di crisopazio, l’undicesimo di giacinto, il dodicesimo di ametista. E le dodici porte sono dodici perle; ciascuna porta era formata da una sola perla. E la piazza della città è di oro puro, come cristallo trasparente» (Ap 21,10-21).

Lo stadio ultimo di questo percorso artistico e architettonico unisce i due fattori di forma e materia, riprendendo con evidenza i testi dell’Esodo e di Ezechiele e componendone insieme le istanze. La lezione da trarre è fin troppo evidente, nel suo invito a non contrapporre i due principi ma a farli interagire per la compiutezza del prodotto artistico. Potremmo anche dire che trascendenza e immanenza, idea e plasticità si congiungono nell’immagine della città celeste di Giovanni e indicano una chiara direzione anche a un’arte sacra che voglia essere fedele alla teologia cristiana del “Verbo” che si fa “carne” (cfr. Gv 1,14).

Ritengo ancor più interessante per noi il fatto che questi elementi che, peraltro divisi, avevamo incontrato come distintivi del Tempio – cioè dello spazio e della costruzione sacra per eccellenza – ora li ritroviamo a descrivere invece la città che dal cielo Dio dona agli uomini. La dimensione della sacralità spezza i confini ristretti del Tempio e conquista gli spazi della vita ordinaria dell’uomo, come un dono di Dio, che permea di sé l’intero universo redento dal suo Figlio. Possiamo dire che nella forma che l’umanità accoglie da Dio, la città degli uomini è tutta un tempio divino, permeata della sua presenza, resa sacra dalla sua dimora, come nella profezia di Zaccaria in cui si afferma che, alla fine dei tempi, «anche sopra i sonagli dei cavalli si troverà scritto: “Sacro al Signore”, e i recipienti nel tempio del Signore saranno come i vasi per l’aspersione che sono davanti all’altare. Anzi – continua il profeta –, tutti i recipienti di Gerusalemme e di Giuda saranno sacri al Signore degli eserciti» (Zc 14,20-21a). Sono visioni, queste di Zaccaria e dell’Apocalisse, di una compenetrazione dell’umano dal divino tale da trasfigurare la città terrestre, elevandola a prefigurazione della città di Dio – visioni che proprio a Firenze sono state riproposte con particolare forza qualche decennio fa da Giorgio La Pira.

Ecco, in città così immaginate, la perfezione delle misure dice questa natura divina dell’umano redento; come pure l’eccezionale preziosità dei materiali esprime un’altezza che va ben oltre le possibilità dell’uomo e attinge il livello stesso di Dio. Qui si scorge un’ulteriore indicazione preziosa per il rapporto tra arte e sacro. Quando coglie la verità dell’uomo e del mondo ogni espressione artistica tocca la dimensione della sacralità; viceversa un’arte propriamente sacra non separa i contenuti trascendenti da quelli immanenti, ma nel dire Dio dice qualcosa di profondamente umano. Ha affermato il Santo Padre Benedetto XVI nell’incontro con gli artisti dello scorso anno: «L’autentica bellezza schiude il cuore umano alla nostalgia, al desiderio profondo di conoscere, di amare, di andare verso l’Altro, verso l’Oltre da sé. Se accettiamo che la bellezza ci tocchi intimamente, ci ferisca, ci apra gli occhi, allora riscopriamo la gioia della visione, della capacità di cogliere il senso profondo del nostro esistere, il Mistero di cui siamo parte e da cui possiamo attingere la pienezza, la felicità, la passione dell’impegno quotidiano. […] L’arte, in tutte le sue espressioni, nel momento in cui si confronta con i grandi interrogativi dell’esistenza, con i temi fondamentali da cui deriva il senso del vivere, può assumere una valenza religiosa e trasformarsi in un percorso di profonda riflessione interiore e di spiritualità» (Benedetto XVI, Discorso all’incontro con gli artisti, Cappella Sistina, Città del Vaticano, 21 novembre 2009).

Non è poi da dimenticare che la descrizione della Gerusalemme celeste nella seconda parte del capitolo 21 dell’Apocalisse, identificata in un tempio pieno di armonia e di splendore, non va disgiunta da un’altra descrizione della medesima città che si incontra nei versetti iniziali del medesimo capitolo: «E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva:

“Ecco la tenda di Dio con gli uomini!Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli

ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio.

E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi

e non vi sarà più la mortené lutto né lamento né affanno,perché le cose di prima sono passate”» (Ap 21,2-4).

Per l’immagine della Gerusalemme celeste, la tenda della consolazione non è meno importante della città dalle mura di diaspro cristallino. La precarietà della tenda si unisce alla forza sanante le sofferenze umane che in essa prende corpo, come comunione divina che avvolge la miseria umana e la redime portandola a vita nuova, oltre ogni morte, lutto, lamento e affanno. Ritroviamo qui l’incrocio tra la nudità della pietra del deserto e lo splendore dei metalli preziosi che abbiamo visto caratterizzare i luoghi sacri dell’Antico Testamento. Ciò che conta, di nuovo, non è il come dello spazio creato per il sacro, ma la presenza del divino che lo redime. E anche qui tocchiamo un altro punto nevralgico dell’arte sacra: solo l’esperienza dell’incontro con la trascendenza e l’assoluto Trascendente fa la differenza dell’arte sacra, nella varietà dei suoi strumenti espressivi, nobili tutti, ma più o meno preziosi o precari, legati a un principio di armonia, ma più o meno radicati in forme astratte o concrete.

Da ultimo, però non possiamo sfuggire alla ragione per cui il tempio è assente dalla Gerusalemme dell’Apocalisse:

«[Nella città] non vidi alcun tempio:il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnellosono il suo tempio.La città non ha bisogno della luce del sole,né della luce della luna:la gloria di Dio la illuminae la sua lampada è l’Agnello» (Ap 21,22-23).

L’Agnello: proprio qui nel Battistero è raffigurato, nella volta che sovrasta l’altare, in un cerchio con la scritta: «Hic Deus est magnus mitis quem denotat agnus [Questo è Dio, grande, mite, significato nell’agnello]». Grande ma anche mite, Dio non risiede più in uno spazio separato dagli uomini, ma è entrato nella loro esistenza, personale e sociale, e lo ha fatto attraverso il suo Figlio, l’Agnello di Dio sacrificato per gli uomini.

La connaturalità di Dio all’uomo, che è il frutto dell’incarnazione e della redenzione, impone di scorgere in ogni fatto umano il volto di Dio e di cercare Dio in ogni volto umano. Qui i confini tra arte e arte sacra si fanno sempre più sottili e rendono ragione del percorso che l’arte occidentale ha compiuto, nella sintesi che ha saputo fare di umano e divino, in una reciprocità che non ha stretti confini. Cosa di più umano e divino della Pietà, o meglio delle Pietà, del nostro Michelangelo? Ma, per toccare tempi a noi vicini, possiamo provare una sensazione simile nel contemplare le storie bibliche di Chagall o i paesaggi e i volti umani di Van Gogh. C’è uno spazio per il sacro, così come lo vuole l’Apocalisse, anche per l’arte del nostro tempo; e c’è uno spazio per il radicamento umano dell’arte sacra del nostro tempo. Per tutti gli artisti ancora oggi è aperta la sfida a far risplendere la luce di Dio nel descrivere la città degli uomini che egli abita, a dire Dio nelle forme congiunte della tenda del deserto e della città d’oro, a offrire un segno dell’uomo su cui si proietta la luce di Dio.

 

Giuseppe Betori

 Arcivescovo Metropolita di Firenze