di Gianni RossiOgni tanto mi do dei pizzicotti in faccia perché mi sembra di vivere un incubo». Lo chiameremo Michele, con un nome immaginario, per una elementare esigenza di riservatezza. Ma la storia di questo uomo, 48 anni, napoletano di origine e romano d’adozione, è tutta vera. È una di quelle che può capitare di incontrare alla Mensa dei poveri dell’associazione «Giorgio La Pira», in via del Carmine. Chi crede che sia un posto per albanesi e barboni sbaglia di grosso. La Mensa è l’ultima ancora di salvezza per chi si è trovato naufrago della vita e ancora non ha trovato la spiaggia dove approdare. Storie che, davvero, non ti aspetteresti di trovare. Michele è stato Ispettore Capo di Polizia. Ventiquattro anni di divisa e racconta – due attentati subiti, di cui uno ad opera delle Brigate Rosse. «Niente soggiunge rispetto a quello che mi sarebbe capitato in seguito». Parla quasi sottovoce, con proprietà di linguaggio e parole misurate: «Sa quante interviste ho rilasciato durante gli anni di servizio? Tantissime».Tutto è iniziato sette anni fa. «Ho una grande colpa: aver amato tantissimo il mio lavoro e, per questo, aver involontariamente trascurato la mia famiglia». Dal portafoglio Michele estrae due fotografie, quasi lacere per averle chissà quante volte ripassate tra le dita: «Sono le mie tre figlie, il bene più grande, l’unico che mi è rimasto. Hanno 18, 22 e 25 anni. La più grande è entrata anche lei in Polizia». Michele inizia con un po’ di pudore il racconto della sua storia, del suo naufragio. «Non mi ero accorto che qualcosa con mia moglie si stava rompendo; il tradimento è stata la sua risposta alla mia trascuratezza».Quel che ne è seguito è stato l’inizio di un incubo. Michele perde la famiglia, la casa e, soprattutto, inizia il calvario di una lunga malattia psichica. Quando questi fatti si intrecciano, chiunque, anche la persona più normale, rischia di trovarsi in mezzo ad una strada. A Michele non è successo subito, perché per alcuni anni è stato ospite della sorella. Ma la malattia non lo molla e lui inizia a girare per l’Italia, ormai privo di riferimenti: «Ho cercato anche un lavoro, ma quando superi quarant’anni in Italia sei ormai da buttare».Il destino si doveva però accanire ancora: irreperibile da anni, durante l’ultimo censimento è stato cancellato dalle liste anagrafiche. Qualche tempo dopo, mentre era in treno, gli rubano il portafoglio con i documenti. Michele perde sé stesso: «Non avendo la residenza non posso riavere la carta d’identità. Proprio mentre stavo uscendo dalla depressione, sono diventato clandestino a casa mia. A quel punto sono andato in tilt del tutto: non ho residenza, non ho documenti, di conseguenza non posso trovare un lavoro, non posso votare. Nemmeno i più grandi delinquenti ricevono un trattamento del genere».È quando gli sembra ormai di affogare definitivamente che Michele trova un’ancora. Inattesa. Con i pochi soldi rimasti, dal Veneto dove si trovava decide di ripartire. I soldi gli bastano per un biglietto fino a Prato. «Per me era una città come un’altra. Ma qui ho ritrovato la solidarietà vera delle persone. Tre agenti del Posto di Polizia Prato centro sono diventati i miei tre angeli custodi. Poi gli operatori della Caritas e quelli dell’associazione La Pira, persone squisite. Alloggio in una struttura della Diocesi e, ogni giorno, vengo a mangiare alla Mensa di via del Carmine. Non vivo: sopravvivo, ma è già qualcosa. Grazie agli amici, potrei trovare un lavoro anche domani, ma senza documenti è impossibile». Michele spera che questa assurda situazione possa risolversi presto. Intanto, con la mente un po’ più serena, rilegge questi anni: «È come ritrovarsi dalle stelle alla stalle. Ho sbagliato, sicuramente. Ma i miei errori li sto tutti pagando».