di Gianni RossiLa sua voce si è levata più volte contro la schiavitù «sotto le nostre finestre», come l’ha definita. Ora mons. Simoni coglie l’occasione dei recenti blitz dei Carabinieri in due confezioni cinesi – dove sono stati scoperti ancora una volta operai orientali costretti a lavorare gratis per 14 ore al giorno – per lanciare nuovamente l’appello: «Diciamo basta allo sfruttamento degli immigrati, qualunque volto abbiano i loro sfruttatori». La nuova denuncia giunge alla vigilia, tra l’altro, del convegno organizzato da Caritas diocesana, Cna e Confartigianato (questo sabato 18 in prefettura) dove si parlerà proprio di immigrazione ed economia.Eccellenza, si dice che qualche cinese che conta le rinfacci di avercela con i cinesi che vivono a Prato.«Ne ho sentito parlare anche io. Ma il Vescovo non ce l’ha con nessuno, sia cinese o no. Anzi, ho parlato perché voglio bene agli immigrati, specialmente a quelli trattati male. Ma come cittadini e come cristiani è possibile tollerare che sotto le nostre finestre, in certi stanzoni cinesi, un sistema di illegalità e di sfruttamento arrivi a una vera e propria forma di servitù? Pur considerando le rispettive diversità culturali, è intollerabile che non vengano rispettati elementari diritti dell’uomo e del lavoro. A quanti sono sfruttati, particolarmente a coloro che non possono parlare e protestare liberamente, mi sento di esprimere tutta la solidarietà mia e della Chiesa».A chi si rivolge il suo appello, innanzitutto?«A tutta la comunità civile e religiosa. Certo, non sta a me indicare come muoversi per contrastare efficacemente questo fenomeno sul piano sociale e politico».Il dossier Caritas 2005 evidenzia che Prato è la città toscana con la più alta concentrazione di immigrati. Dati recenti parlano di un ulteriore aumento. Il nostro territorio può sostenere questo trend di crescita?«Sono convinto che il numero degli stranieri incida sulla tenuta di una convivenza pacifica e davvero accogliente, soprattutto in un territorio così ristretto e concentrato com’è la nostra provincia. Abbiamo sempre parlato della necessità di coniugare accoglienza e regole. Ma stiamo attenti, per carità, a diffondere allarmismi fuori luogo, pericolosi tanto quanto i buonismi interessati o ingenui. Certo, bisogna stare all’erta: il problema non è tanto degli immigrati poveri, quanto degli immigrati ricchi e potenti. La cultura e la politica devono farsi un’idea chiara per poter governare bene la situazione. In ogni modo la comunità cristiana ha il dovere di farsi prossima sempre, a chi è nel bisogno, regolarizzato o clandestino che sia. Aggiungo che non si deve dimenticare il diritto ai ricongiungimenti familiari, veramente tali. Che pena constatare le lunghissime separazioni tra coniugi e tra genitori e figli».Ma la nostra città è davvero all’altezza di questo fenomeno?«La situazione è tale che, per quanti aggiustamenti ed equilibri possano verificarsi, sia la comunità cristiana che quella civile devono attrezzarsi, ciascuna secondo le proprie competenze, per trasformare la sfida dell’immigrazione in una nuova nuova possibilità di testimonianza cristiana e di evangelizzazione e di società civile e solidale tra persone e gruppi di etnie e fedi diverse».In queste settimane il dibattito sull’Islam è tornato alla ribalta e la Chiesa ha parlato innanzitutto con il martirio di don Andrea Santoro.«Parlando con alcune persone di fede islamica mi è capitato più volte di affrontare temi connessi alla libertà, particolarmente quella religiosa. Di recente abbiamo invitato a tenere una conferenza il Vicario Apostolico emerito di Arabia, grande amico degli arabi ma testimone diretto di come, in alcuni paesi islamici, anzitutto nell’Arabia Saudita, la libertà religiosa non esista o sia limitata moltissimo. È gravemente lesivo della libertà, ad esempio, che se un giovane cristiano intende sposare e portare in Italia la sua fidanzata musulmana, sia costretto a sottoscrivere una dichiarazione di fede islamica, cioè un’abiura alla sua fede. D’altra parte, come sosteneva lo stesso Vicario Apostolico emerito, la strada maestra per tentare un incontro, per promuovere la pace e anche i diritti umani, resta il dialogo paziente e sincero a tutti i livelli, unito alla fermezza e alla mitezza della nostra identità. Non è giusto trattare con gli Arabi solo per assicurare i nostri interessi economici, per quanto essi possano essere legittimi».