di Gianni RossiCon una delle immagini più pregnanti dal punto di vista biblico, la paragona ad una sposa. Anzi, una «sposa bella». Per mons. Eligio Francioni è come celebrare le nozze d’oro con la Chiesa di Prato. Da cinquant’anni è sacerdote. Fu ordinato nella solennità dei Santi Pietro e Paolo, il 29 giugno, del 1956. Questa domenica la Diocesi gli si stringe attorno per fargli festa, dirgli grazie, e augurargli ancora tanti anni di proficuo ministero.Cinquant’anni di sacerdozio sono un traguardo bello e significativo. Cosa rappresenta nella vita di un prete?«Sono passati come un soffio. Per me non sono un traguardo. Per usare l’immagine di S. Paolo, la corsa, il cammino non è finito. L’importante è tenere lo sguardo fisso su Gesù. È lui la meta».Ci racconti la sua vocazione: com’è nata? Ci sono state delle persone che hanno avuto un ruolo particolare?«Nella mia famiglia – non voglio peccare di presunzione, ma solo essere riconoscente verso Dio – si è vissuta la fede, credo, fino alla santità, per cui ci sono state vocazioni: uno zio di mio padre era missionario francescano in Canada; tre sorelle, cugine di mio padre, sono state tra le suore Francescane dell’Immacolata di S. Piero a Ponti; nella terza generazione ci sono stato io; in questa ultima generazione ci sono due fratelli tra i Francescani dell’Immacolata – uno è sacerdote da due mesi – figli di una mia cugina. La famiglia è il un buon terreno per una vocazione».Quando iniziò a pensare di entrare in Seminario?«Cominciai presto a sognare – lo dico proprio in senso letterale – di farmi prete. Si abitava allora a Montemurlo dove ero nato. La mia vocazione, oltre che dai miei genitori, fu coltivata dalla mia maestra, Suor Raffaella Siroli – andavo a scuola dalle suore – e dal parroco, mons. Paolino Contardi, uomo di grande cultura e virtù. Entrai nel seminario di Pistoia a 13 anni e ne uscii a 17. «Salvò» la mia vocazione un frate, buono e sapiente, di Galceti, padre Malachia Massai. Ci eravamo trasferiti lì. Il seminario di Arezzo, luogo di grande apertura culturale e formativa, consolidò la mia vocazione. Mons. Fiordelli, pochi mesi dopo la sua venuta, richiese ed ottenne dal Vescovo di Arezzo il mio ritorno a Prato. Da Lui fui ordinato il 29 giugno del 1956. Mi è stato padre».Oggi si parla spesso di crisi d’identità del sacerdote. Come è cambiata la figura, il ministero del prete in questi cinquant’anni?«Ogni uomo è figlio del suo tempo. Anche il prete lo è. La mia generazione ha concepito il prete a servizio a tempo pieno. Nella parrocchia, oltre alla cura dei giovani e dei malati, la gente doveva trovare tutto: l’evangelizzazione, la preghiera e i sacramenti, la scuola materna e possibilmente quella elementare, il campo da gioco, il bar e la sala cinematografica Modello di parroco era mons. Milton Nesi.Giudico bene e con tanta fiducia i preti giovani della nostra diocesi. Certo devono conoscere la Città, la Chiesa di Prato con la loro “storia” antica e recente, a cominciare dal seminario».L’esperienza forte del suo ministero è senza dubbio il servizio di Vicario Generale, che svolge da quasi trent’anni. Come vede la nostra Chiesa diocesana?«L’essere stato vicino al vescovo per 29 anni, prima con mons. Fiordelli e da 14 anni con mons. Simoni, mi ha dato la possibilità di conoscere persone ed ambienti. La Diocesi è piccola di territorio ma possiede una concentrazione di grandi risorse umane, spirituali, strutturali: le parrocchie, i monasteri, le comunità religiose, le molte aggregazioni ecclesiali, la scuola cattolica, le opere di solidarietà verso il mondo della sofferenza e della emarginazione, le tante presenze missionarie sparse in varie parti del mondo Questa Chiesa di Prato, per me, è la “Sposa bella” che amo. E non da solo, siamo in tanti ad amarla. Quando si notano dei difetti è allora che si ama di più».La società è in rapida trasformazione; i sacerdoti diminuiscono sempre più e tra dieci anni la media d’età sarà molto elevata; Prato è sempre più multietnica. Come vede la nostra Chiesa nell’immediato futuro?«Nei prossimi 10 – 15 anni si gioca la vita della Chiesa di Prato, così sarà per quella italiana ed europea. Giustamente il Vescovo sta impostando un cammino di verifica, secondo i metodo sinodale del vedere, giudicare ed agire, con l’apporto di tutti, per gli anni 2005 -2010. La Chiesa, in ogni secolo, ha avuto le sue difficoltà. Come le sette Chiese del libro dell’Apocalisse dobbiamo metterci in ascolto di ciò che lo Spirito Santo ci dice. In una Chiesa viva, che coltiva la Parola di Dio e si proietta alla missione, le vocazioni – e non c’è soltanto la vocazione al sacerdozio – non verranno meno. I talenti ci sono: non debbono essere sotterrati. Come un nuovo Gregorio Magno che ai tempi tumultuosi della fine dell’impero romano accolse i nuovi popoli nella Chiesa, Giovanni Paolo II ci ha insegnato il metodo per relazionarci con le religioni: rispetto, accoglienza, ma anche proposta fiduciosa e coraggiosa della luce liberante del Vangelo. Non ci sarà da meravigliarsi se anche il presbiterio diverrà multietnico. Lo è già».E poi c’è il laicato, che molti vedono poco presente e clericalizzato. Lei che ne pensa?«È vero, c’è bisogno di un cambiamento di mentalità: passare dal vedere i laici semplici esecutori al considerarli collaboratori responsabili. Di cammino se ne è fatto tanto ma non è sufficiente. In questo quinquennio sarà importante che le strutture di partecipazione – consigli pastorali, consigli economici, uffici, commissioni a livello parrocchiale, zonale e diocesano – senza mandare in pensione nessuno – abbiano ricambio generazionale».Di lei in città si apprezza molto l’attenzione verso le molteplici realtà della società civile. Con lei, insomma, la Chiesa si fa dovunque presente. Come vede Prato oggi?«I gesti hanno sempre un significato. Il giorno stesso del loro arrivo, mons. Fiordelli e mons. Simoni salivano le scale del palazzo comunale nella loro dignità di Vescovi della Chiesa di Prato. Rendevano omaggio, riconoscevano dignità alla società civile che mille anni fa si è organizzò in libero Comune. A Prato, come disse Giovanni Paolo II il 19 marzo 1986 in piazza del Comune, città e tempio sono cresciuti insieme. Piazza del Duomo e piazza del Comune non sono separate ma unite nel corso Mazzoni, strada intitolata a quel Giuseppe Mazzoni che, insieme ad altri, nell’800 contribuì a far soffrire ma anche a purificare provvidenzialmente la Chiesa. È vero, i rapporti tra Diocesi e Istituzioni civili sono molto buoni. In pieno rispetto e autonomia collaboriamo per il bene comune, soprattutto per il bene dei più poveri.Come vedo Prato oggi? Viviamo un cambiamento impressionante. È richiesta la partecipazione di tutti perché Prato, rimanendo se stessa accolga le novità che l’attendono: lavoro, immigrazione, assetto urbanistico, convivenza tra genti diverse…».