Prato

Vent’anni del carcere: la speranza e il disagio

di Damiano FedeliLa prima sensazione è quella di soffocare, di un macigno che ti schiaccia lo stomaco. Una paura amplificata dai «clanc» metallici delle pesanti porte blu che si aprono davanti e chiudono, insesorabilmente, dietro. Ma superato il timore iniziale si apre un mondo diverso, per certi versi inaspettato, dove fra mille difficoltà si tenta la strada del reinserimento sociale di chi ha sbagliato. Compie vent’anni il carcere della Dogaia: i primi detenuti arrivarono qui il 2 febbraio del 1987 (70 provenienti da Pianosa), a fine dicembre ’86 erano arrivati gli avamposti dei poliziotti penitenziari. In questi due decenni centinaia di persone hanno continuato ad attraversarla quella soglia fatta di sbarre e cancelli. In entrata e in uscita. Cosa è cambiato in questi anni, dentro e fuori dal carcere? Come è stata percorsa la strada del reinserimento? Con quali risultati? È l’obiettivo di questa inchiesta con cui Toscana Oggi ricorda l’anniversario della casa circondariale pratese. Certo che quei cancelli continuano ad attraversarli in tanti. «Guardi qua: queste sono le pratiche delle persone arrivate negli ultimi tre giorni: una ventina», spiega Ione Toccafondi, direttrice dal ’96, sfogliando una pila di incartamenti sulla scrivania. Se la capienza ottimale della Dogaia è di circa 320 posti, prima dell’indulto i detenuti erano poco più di 600. «Subito dopo – racconta la direttrice – siamo arrivati a 370, ma adesso siamo già a 450. Il numero di chi rientra dopo aver beneficiato del provvedimento di clemenza non è elevatissimo, ma è alto il numero dei piccoli reati». Com’è organizzato il carcere pratese? Spiega la direttrice: «C’è un edificio per i collaboratori di giustizia. Un altro ospita l’Alta sicurezza, con un centinaio di detenuti che hanno commesso reati associativi: hanno tutte le altre attività, ma non hanno contatto con i detenuti comuni». Il grosso delle presenze è rappresentato dalla «Media sicurezza», racchiusa in un edificio di quattro piani, ciascuno dei quali con due sezioni. «I primi due piani ospitano detenuti in attesa di giudizio o condannati solo in primo grado: è la vera e propria casa circondariale», racconta ancora Toccafondi. «Al terzo, ci sono i condannati definitivi a pene medio-lunghe e gli ergastolani. Al quarto piano c’è la cosiddetta “settima sezione”, con una cinquantina di detenuti per reati di natura sessuale. E poi la sezione universitaria, con 23 persone, sistemate in celle singole, che frequentano in carcere facoltà che vanno da Giurisprudenza a Farmacia». Un ulteriore edificio ospita i 17 semiliberi. «Lavorano all’esterno, alle dipendenze di privati o, per la maggior parte, di cooperative sociali. Una possibilità che non è prevista per tutti i reati o i periodi detentivi. Passano qui in carcere tutto il periodo in cui non lavorano». Una caratteristica che certo è cambiata in questi venti anni è la presenza di stranieri, diventata sempre più massiccia, fino arrivare adesso al 40% del totale dei detenuti: in prevalenza albanesi, magrebini, cinesi o sudamericani. «In generale la convivenza non provoca problemi: non c’è razzismo, ma solidarietà. Se ci sono situazioni conflittuali è per riflessi della loro attività esterna». Problematico, semmai, come sottolineato da più parti, il continuo viavai dei «clandestini», per i quali è praticamente impossibile un piano di recupero.Da qualche tempo alla Dogaia c’è anche una piccola moschea, oltre che a un’attenzione all’alimentazione o al Ramadan per i detenuti islamici.

Ma cosa si fa in carcere? Come si porta avanti a Prato la missione costituzionale che è non solo quella di proteggere la società esterna, ma anche di consentire un reinserimento e un’educazione di quanti sono finiti dentro? Alla Dogaia lavorano tre educatori con un capoarea, tre psicologi, tre assistenti sociali, due criminologi, 230 poliziotti penitenziari, oltre ad almeno 250 volontari. «La funzione educativa è trasversale a tutto quello che facciamo», spiega PasqualeScala , responsabile dei servizi educativi. Si comincia dall’istruzione in senso stretto. «Abbiamo dalla scuola dell’obbligo fino all’università», racconta. Per elementari e medie – frequentate da un terzo dei detenuti, l’80% dei quali stranieri – la Dogaia è in qualche modo una succursale della Mazzoni. Nel carcere pratese si può poi frequentare il triennio del Datini o i cinque anni del Dagomari. «Dal 2000, e in questo siamo stati pionieri in Italia, – racconta Scala – è stato istituito il Polo universitario grazie a una convenzione con l’ateneo fiorentino. Questi detenuti sono sottoposti a un regime definito “avanzato”, con sale computer e biblioteca, orari e condizioni migliori. Alla sezione accedono docenti, ricercatori, tutor e volontari per le lezioni e per gli esami». Sono 23 gli universitari della Media sicurezza, cui si aggiongono altri 25 dell’Alta sicurezza (per i quali sono previste però modalità diverse). «Qualche difficoltà c’è con chi dovrebbe frequentare laboratori o tirocini ma, ovviamente, non può», racconta la direttrice. «Abbiamo avuto anche il placet per un polo universitario regionale per l’Alta sicurezza», aggiunge Scala.

Altro elemento fondamentale è quello del lavoro. Spiega il responsabile dell’area educativa: «È una forte opportunità di risocializzazione, un aggancio per abbandonare la scelta deviante. Il lavoro avviene all’interno del carcere e serve al suo funzionamento: dalle pulizie alla cucina». Il detenuto percepisce uno stipendio («mercede») sulla base dei contratti nazionali delle rispettive categorie, commisurato alle ore lavorate. Un quinto è vincolato e viene riconsegnato al detenuto come piccolo patrimonio al momento dell’uscita. Il resto è dato a disposizione per le piccole spese: dal dentifricio a una quantità maggiore di cibo (420 euro mensili il tetto massimo di spesa). Le risorse disponibili – e qui siamo alle note dolenti – rendono possibili appena 150 posti di lavoro: per questo sono state introdotte forme di rotazione (turni di tre mesi circa) e part-time. Qualcosa è stato fatto e continua ad essere fatto con ditte esterne, oppure con l’aiuto di cooperative sociali (molte fanno capo al consorzio Astir), come la cura di un’azienda agricola all’interno del carcere. «Si tratta però di un’esperienza da ripensare per l’oscillazione dei ritmi di lavoro o per la puntualità dei pagamenti. Problemi ben noti a tanti giovani disoccupati fuori dal carcere, ma che, in una struttura come questa, pongono qualche difficoltà in più», sostiene Scala.

Altre cinque persone lavorano alla raccolta differenziata dei rifiuti all’interno del carcere (progetto Asm-Astir finanziato dal Comune di Prato). Ci sono poi i percorsi di orientamento al lavoro delle cooperative sociali S. Pietro a Sollicciano e Sestante Lavoro di Sesto Fiorentino. Ma quali sono in definitiva i risultati?«Le difficoltà, è vero, sonotante, inprimis la mancanza di risorse», conclude la direttrice. «Quello che ci vuole è una rete di interventi che coinvolga carcere, enti locali, volontariato, cooperative sociali e anche imprenditori. Proprio il lavoro di squadra è quello che ci ha caratterizzato sempre di più in questi vent’anni, fino a far diventare Prato una realtà per molti aspetti modello».Due detenuti attraversano il cancello in uscita, un sacco della spesa in spalla con le poche cose: oggi si esce. I gatti nel cortile della Dogaia li guardano e, indifferenti, passano oltre: faranno lo stesso anche le persone, là fuori?