Prato

L’infanzia negata dei bambini cinesi

di Damiano FedeliLa vicenda della settimana scorsa ha portato il problema drammaticamente alla ribalta. La storia del bambino cinese di una decina di mesi ritrovato in un cestino dei rifiuti ai giardini di via Colombo (ora ospite di una casa di accoglienza, in attesa che la giustizia, anche dopo i test del Dna, decida se restituirlo o meno alla presunta madre che nel frattempo si è fatta viva, accusando del gesto il padre del bimbo) ha aperto un piccolo squarcio su una realtà sconosciuta ai più: il rapporto dei cinesi che vivono qua con i bambini. Come crescono, in quali condizioni vivono, cosa sperano per loro i genitori? Domande che, adesso che si sono spenti i riflettori delle tv e dei giornali nazionali che hanno seguito il caso, rimangono in gran parte senza risposta, coperte nella coltre impenetrabile che avvolge tanti aspetti della vita quotidiana nella comunità cinese della porta accanto. Il quadro che emerge ha dei risvolti anche drammatici, non tanto per violenze o maltrattamenti, non segnalati, quanto per il distacco più o meno forzato dai genitori cui i neonati sono costretti nei primi anni di vita. Spiega Antonella Ceccagno, docente di lingua e cultura cinese all’università di Bologna che si è occupata in numerose pubblicazioni della comunità di Prato: «Intendiamoci: i genitori cinesi hanno un grande affetto per i figli, sperano un futuro migliore per loro. C’è però una centralità del lavoro che li costringe a mettere la vita privata fuori. L’organizzazione del lavoro, soprattutto per i terzisti in un distretto tessile come quello pratese, con tempi di produzione strettissimi e ritmi di lavoro forsennati, fa sì che la cura dei figli passi in secondo piano». Conferma donSantino Brunetti , vicario episcopale per gli immigrati: «La donna in cinta sta nello stanzone dove si vive e si lavora solo finché può rendere. Quando non c’è più reddito, la persona non conta più nulla. Diverse decidono, purtroppo, di abortire». «Quando non produci sei allontanato», aggiunge Idalia Venco , direttrice della Caritas diocesana. «Chi è clandestino, poi, è ancora di più in balia del proprio datore di lavoro».

Al Centro di aiuto alla vita di via del Seminario si presentano tante giovani cinesi in cinta. «Molte non sono in regola e non hanno nemmeno documenti di identità. Parlano pochissimo italiano e la loro richiesta è quella di essere ospitate in una casa di accoglienza perché sono state cacciate dal loro stanzone», racconta Bertilla Venco, del Centro di aiuto alla vita. «Le aiutiamo a ottenere dal consolato un attestato di nazionalità, documento di identità senza il quale non possono nemmeno riconoscere il bimbo. E le indirizziamo a ottenere il permesso di soggiorno per gravidanza: per legge non possono essere espulse fino a quando il bambino non ha compiuto i sei mesi di vita o, nel caso di gravi patologie, i due anni». Per l’alloggio, le puerpere vengono accompagnate o ai servizi sociali («È sconvolgente – dichiarò a caldo dopo l’episodio del bambino abbandonato l’assessore ai servizi sociali del Comune MariaLuigia Stancari – che con tutti i servizi esistenti in città ci sia decisi ad un gesto di questo genere») che cercano una collocazione in una casa di accoglienza a Prato o in regione. «Noi del Centro – prosegue Bertilla Venco – ne gestiamo una, Casa Aurora, in via Carraia, con quattro posti letto per altrettante mamme col bambino. È aperta non solo alle donne cinesi: queste ci vogliono stare poco, lo stretto necessario dopo il parto. Hanno fretta di tornare al lavoro».Al lavoro nello «stanzone» si rientra quando il bimbo ha circa tre mesi. E qui cominciano i problemi seri: qual è il destino del neonato? La madre difficilmente lo può tenere con sé. I padri, in molti casi, sono assenti (il legame fra le coppie è spesso il cosiddetto «matrimonio del ristorante», una grande cerimonia e festa in cui i due partner firmano un accordo di convivenza). Spiega Riccardo Consorti , del Centro d’ascolto cinesi della Caritas: «Sono pochissime quelle che hanno la fortuna di avere il permesso di soggiorno e di poter tenere il bambino qui».

Ecco che si aprono, così varie possibilità, tutte ugualmente dolorose. La prima è quella di mandare in Cina il bambino, o accompagnandolo direttamente o affidandolo a una rete di conoscenti che si occupino di portarlo nella madrepatria. In Cina i bambini nati qua vengono cresciuti dai nonni o dai parenti. «Della famiglia hanno un concetto allargato», spiega ancora Consorti. Per il ritorno devono aspettare che i genitori abbiano ottenuto il permesso di soggiorno in Italia. «Possono passare diversi anni: quando il bambino ormai ha l’età dell’asilo o addirittura della scuola», racconta Bertilla Venco. È chiaro che per questi bambini venire qui, a vivere in un luogo e con genitori che non hanno mai visto prima diventa traumatico, anche per i problemi linguistici che si creano. «Sono frequenti i casi in cui bambini nati qui e poi mandati in Cina, una volta tornati in Italia non riconoscono la madre. E può passare molto tempo prima di recuperare un rapporto sereno», racconta suor Helen , cinese, del Centro d’ascolto Caritas.

Ma un’altra via sta prendendo piede inaspettatamente anche a Prato (fino a qualche tempo fa era molto diffusa a Napoli): quella delle balie che prendono con sé, giorno e notte per un paio di mesi, bambini cinesi, facendosi pagare, ovviamente in nero, tariffe molto elevate: anche 6-700 euro al mese per ciascun bimbo (ne prendono fino a tre-quattro). Non si tratta solo di balie cinesi: la cosa si sta diffondendo sempre di più anche fra donne italiane. Spesso sono persone non adatte a fare questo tipo di lavoro, e che spesso tengono i bambini in abitazioni non adeguate. È una soluzione molto costosa per le giovani cinesi e non dura per più di un mese o due. «Sono casi in cui le disperazioni, quella delle giovani madri e quella delle donne che fanno da balia si incontrano», racconta Consorti. Altre vie difficilmente sono praticate: «Non si fidano dell’istituto dell’affido a famiglie italiane», spiega ancora Bertilla Venco. «Temono che i bambini si affezionino alla famiglia affidataria e che non vogliano poi ritornare. E poi non ci sono abbastanza famiglie italiane disponibili».

E dopo? Un figlio più grandicello che frequenti la scuola e che conosca l’italiano è ritenuto un valido aiuto. «Spesso bambini cinesi si trovano ad accompagnare i genitori in uffici, come la questura, l’ospedale o qui alla Caritas, in cui si muovono con grande familiarità e che i loro coetanei italiani, fortunatamente viene da dire, manco conoscono», spiegano al Centro d’ascolto. Bambini quindi che crescono precocemente. «Ci sono molti genitori che vorrebbero che i propri figli studiassero, ma, e questo è paradossale, si fanno aiutare da loro nel lavoro del capannone», spiega la Ceccagno. «La generazione di adolescenti cinesi di Prato è insofferente nei confronti del modello di vita dei propri genitori: tanto lavoro e poca affermazione sociale. Tanto più che adesso confrontano la propria condizione con quella dei cugini in Cina: con il boom economico diversi, nella madrepatria, cominciano a permettersi l’università».