Prato

Ma non chiamateci “Cervelli in fuga”

di Damiano FedeliIn Italia sono precari e guadagnano poco: uno su due non supera i mille euro mensili, uno su tre non arriva a 800, come ha evdidenziato una ricerca della Cgil recentemente presentata. Sono i ricercatori universitari, categoria fra le più colpite nel nostro paese dall’instabilità del lavoro e dalla mancanza di prospettive più sicure. Una situazione che genera insicurezza e ansie (lo ha evidenziato la stessa ricerca) e sfiducia nelle prospettive future in questa categoria di giovani scienziati. Mancanza di risorse, di strutture e di investimenti sono fra gli elementi che penalizzano di più la ricerca da noi. A questo si aggiunge il sistema «baronale» che predomina nelle nostre università, con i professori più influenti che condizionano pesantemente ingressi di nuovi ricercatori e avanzamenti di carriera. Molte più poissibilità si aprono all’estero, dove i nostri ricercatori spesso sono costretti a emigrare per trovare centri d’avanguardia dove prevalgano criteri di meritocrazia e dove il proprio lavoro sia adeguatamente riconosciuto e retribuito. In tanti, anche da Prato, scelgono questa via. Abbiamo raccolto le storie di cinque di loro, impegnati in varie zone del mondo, in Europa, negli Usa, persino in Messico. In settori di ricerca che vanno dalla biologia alla medicina all’informatica. Abbiamo chiesto quali sono i sogni, le soddisfazioni e le piccole nostalgie quotidiane («mi manca la Nutella», scherza Alessandra Bartolozzi, ricercatrice in campo farmaceutico a Boston) di questi giovani talenti pratesi. Li chiamano «cervelli in fuga», ma loro rifiutano questa definizione.

 Spiega Marina Vannucci, 40 anni e già full professor (l’equivalente di un nostro professore ordinario, titolo cui si arriva mediamente molto dopo da noi) alla A&M University in Texas: «Non capisco perché usare il termine fuga. La vedo più come un’esperienza per arricchire il proprio bagaglio di conoscenze. La scelta di una carriera all’estero, come ho fatto io, è naturalmente più complessa». E Cristina Gabellieri, ricercatrice all’Istituto di ricerca sul cancro a Londra aggiunge: «Non mi piace parlare di fuga dall’Italia perché non sento di esserne fuggita». Per tutti è un’opportunità importante lavorare in centri d’avanguardia, a contatto con ricercatori da tutto il mondo. «È molto bello confrontarsi con persone di altre culture e religioni», racconta Max Manfrin che a Bruxelles studia l’Intelligenza artificiale. Le speranze di tornare in Italia? Conclude Lorenzo Meriggi, vulcanologo all’Unam, università di Città del Messico: «Sarebbe bello, ma per ora per il rientro vedo poche prospettive».