Prato

«Dal degrado economico spazi per il riciclaggio»

«È molto tempo che anche noi, come hanno fatto gli inquirenti presentando l’ultima operazione (41 milioni fra beni e società sequestrati alla camorra, ndr), parliamo di Prato come capoluogo del riciclaggio». L’avvocato Filippo Trippanera è stato il presidente dell’associazione pratese Ezechiele 37, gruppo che ora ha cessato la propria attività come Onlus, ma che continua l’impegno sui temi della legalità: «Un’associazione rivolta a diffondere certi valori nella Chiesa e nella società. Con contatti eccellenti a livello nazionale, dal gruppo Abele a mons. Bregantini, da don Luigi Ciotti a tutte le realtà che fanno capo a don Tonino Bello. L’associazione si è sciolta, non perché non fossero importanti i temi di cui ci occupavamo, ma perché in qualche modo si era esaurito il ciclo iniziale, legato all’impegno sui testimoni di giustizia. Rimangono, senz’altro, le sensibilità personali, la partecipazione e l’organizzazione di incontri su questi temi».«È molto che noi parliamo di Prato come capitale del riciclaggio», ribadisce. «Se si guarda in giro, ci sono tanti immobili enormi, costruiti e rimasti vuoti. Chi è che li fa, viene da chiedersi? Tanti opifici trasformati in residenze poi vuote: chi può avere interesse a fare questo? I grandi imprenditori che hanno fatto grande Prato hanno avuto il torto di non insegnare i mestieri ai figli. È stato insegnato come far soldi. Ecco, allora, che una ex piazza industriale è appetibile per la criminalità e gli affari di riciclaggio».Prosegue Trippanera: «In certi casi mi piace citare Dante, quando dice ‘La gente nuova e i sùbiti guadagni orgoglio e dismisura han generata’: i ‘sùbiti guadagni’ sono i guadagni facili, i soldi rapidi. Ecco quello che, secondo me, è successo qua».Se gli si chiede se non ci sia troppa poca consapevolezza fra la gente comune della presenza anche qui della criminalità organizzata, Trippanera risponde: «Io non l’ho mai creduto che qui fosse un territorio diverso, immune. Si dice ‘Sicilia’ perché fa comodo, perché non si vuol vedere la realtà com’è oggi. Lo stesso è successo in Lombardia: fino a una decina di anni fa andavo lì e vedevo distese di campi, ben coltivati e curati. Oggi vedo distese di cemento. Ma anche da noi ci sono realtà che vengono stravolte. L’attecchimento della mafia passa anche attraverso la violenza alla natura, il dissesto del territorio».Come avviene la colonizzazione? «L’attecchimento avviene su un tessuto degradato socialmente ed economicamente. Questo è il brodo di coltura in cui le mafie operano. Quando da noi si è pensato solo alla finanza più che a continuare la tradizione artigianale e di eccellenza imprenditoriale, si è avuto un degrado delle strutture produttive, un degrado economico che ha aperto spazi alla criminalità. La mafia è spregiudicata, dispone di liquidità, ha il cappello da cui esce il coniglio. La mafia qui non ha bisogno di lupara. È una struttura finanziaria che ha preso per il collo vaste aree del Paese. La forza della mafia è quando si ribalta il Vangelo e si pensa che il sabato non sia ‘per l’uomo’ ma viceversa che l’uomo sia per il sabato. La mafia è quando si diventa solo numeri, pedine in grado di dare profitto».Come se ne esce, allora? «Come faccio a non ripetere le parole di don Luigi Ciotti quando invita all’impegno, all’impegno con gli altri? Ognuno di noi, da solo, può fare poco o nulla, ma noi, tutti insieme, possiamo fare tanto, a livello personale, sociale, di volontariato. Don Milani diceva “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne insieme è la politica, sortirne da soli è l’avarizia”. Si potrebbe parafrasare e dire che sortirne da soli è la mafia».(dal numero 10 dell’11 marzo 2012)