Pisa

CASO WELBY – UN EPILOGO DISCUTIBILEAldo Ciappi – Scienza e Vita Pisa e Livorno.

Il non luogo a procedere del G.U.P. di Roma nei confronti del dott. Mario Ricci perché il fatto non costituisce reato merita alcune considerazioni per alcuni inevitabili risvolti sul piano giuridico che essa implica.Il diritto (in un sistema incentrato sulla legge e sulla sua certezza) non può che contemplare regole generali ed astratte.La regola astratta prevede che l’omicidio resti tale (pur se con applicazione di sanzioni più lievi) anche se eseguito su persona consenziente (art. 579 c.p.). Tale principio risponde ad un criterio di giustizia indiscutibile.Coerente con esso appare essere l’altra norma che punisce l’istigazione o l’ aiuto – nel senso di una qualunque agevolazione – al suicidio (art. 580 c.p.) Il cd. “suicidio assistito” non è una fattispecie autonoma e diversa dall’omicidio del consenziente o dall’aiuto al suicidio; se non vi è l’una, vi è l’altra.Da notare, en passant, un’altra norma evidentemente “a rischio” al giorno d’oggi; l’art. 593 c.p. che punisce l’omissione di soccorso a persona incapace di provvedere a se stessa e che abbisogni di cure; mi pare inevitabile un’ accostamento di questa norma alle altre citate in quanto tutte presuppongono l’esistenza di un generale dovere civico di solidarietà e di aiuto nel senso di curare la vita altrui a prescindere dall’eventuale richiesta in tal senso proveniente da chi si trovi in difficoltà. Il dovere giuridico di (tentare di) salvare la vita; non di reciderla. Di fronte alla richiesta di un soggetto rivolta ad un altro (che sia o no medico è indifferente, dal punto di vista del diritto) di interrompere una cura o una tecnica salvavita è assai difficile che ci si possa sottrarre all’alternativa tra la prima o la seconda fattispecie perché è indubbia, in entrambi i casi, la rilevanza causale della condotta (che può essere indifferentemente commissiva od omissiva) rispetto all’evento finale (morte dell’altro).Per uscire da questo impasse si deve poter invocare l’esistenza di una “scriminante” (es.: stato di necessità, legittima difesa, adempimento di un obbligo o esercizio di un diritto, ecc.) a favore del soggetto che agisce ma, nell’ordinamento vigente, non ve n’è una che si presta al caso (né si potrebbe immaginare, de iure condendo, di introdurne una nuova ad hoc dovendo anch’essa presentare il carattere di generalità ed astrattezza).Quindi, qualsiasi azione od omissione diretta al fine di “abbreviare le sofferenze”(che, peraltro, potrebbero anche essere psichiche e quindi difficilmente obiettivabili), ovverosia la vita, di un qualunque soggetto, sarebbe pur sempre penalmente rilevante.Il rifiuto di sottoporsi a certe terapie da parte di un soggetto difficilmente si può contestare a persona che dimostri un adeguato grado di capacità di intendere e volere, ma ciò si realizza non sul presupposto di un diritto illimitato di ciascuno di disporre liberamente del proprio corpo, bensì per un limite derivante dall’impossibilità di coercizione della volontà di un soggetto da parte di un altro.Quindi la situazione soggettiva che viene in essere si caratterizza in negativo.In un’ ottica diversa ed opposta, infatti, si dovrebbe coerentemente pervenire all’affermazione di un vero e proprio diritto soggettivo e personalissimo al suicidio e quindi alla pretesa, insindacabile, del suo titolare di ottenerne la tutela nei confronti di chiunque e di esigerne l’attuazione nei confronti dello Stato.Come si può constatare il discorso ci porta dritto a conclusioni devastanti.Non vi può essere che un unico principio che si pone come norma imperativa, inderogabile e di ordine pubblico: quello dell’indisponibilità del proprio corpo così come sancito dall’ art. 5 c.c., che poi è speculare al diritto alla salute costituzionalmente garantito, e conseguentemente dell’inesistenza, sul piano del diritto positivo, di una facoltà di disporre della vita propria.La sentenza emessa sul caso Welby, pertanto, si pone, a mio avviso, in contrasto con le norme vigenti se è vero che le sue condizioni di salute non potevano essere definite “terminali” (nel qual caso, probabilmente, avrebbe aiutato il ricorso alla nozione di “accanimento terapeutico”) e che il medico abbia di proposito staccato il respiratore artificiale (al di là che abbia o meno praticato contestualmente una dose letale di analgesici). Il caso di una persona cosciente (qual era Welby) che, per le ritenute insopportabili sofferenze, chieda di morire ed in ciò sia stata esaudita da un medico, o da chiunque altro, anche se mosso da sentimenti altruistici, mediante distacco del respiratore o con altri mezzi, rientra a pieno titolo nelle ipotesi descritte.Le considerazioni di umana pietà, che pure hanno una rilevanza tutt’altro che secondaria e che a Welby sono state forse negate come riflesso di una scelta deliberata di sottrarre la tristissima vicenda alla sua  naturale dimensione privata, non possono (e non debbono) tuttavia a togliere significato e validità ad alcuni dei capisaldi su cui si riconosce (ma per quanto ancora?) la nostra civiltà giuridica.