Pisa

L’arcivescovo Giovanni Paolo Benotto agli insegnanti di religione cattolica: eccellenza nella dottrina e nella testimonianza di vita cristiana

di Giovanni Paolo Benotto

Ho desiderato questo nostro primo incontro all’inizio del nuovo anno scolastico prima di tutto per conoscerci e poi per esprimervi il mio più cordiale ringraziamento per il servizio prezioso che svolgete come IRC in un contesto, quello delle nostre scuole, che insieme alle tante possibilità e potenzialità che possiede, si manifesta sempre più difficile per la complessità, la multiculturalità e la frammentazione umana e spirituale che ormai contraddistinguono massicciamente la nostra cultura e lo stile di vita della nostra gente.

Il mio vuol essere dunque in prima battuta un forte incoraggiamento nei vostri confronti; la manifestazione del sostegno che la Chiesa pisana, tramite mio, vuol offrirvi in quanto è proprio a nome di questa nostra Chiesa che voi siete inviati ad insegnare la RC nelle scuole statali.

Il mandato del vescovo è infatti essenziale all’insegnamento della RC; un mandato che si esprime attraverso “l’idoneità” che vi è stata riconosciuta e che impegna personalmente il vescovo secondo quel triplice criterio che il Codice di Diritto Canonico esprime con il can. 804 § 2 il quale recita: “ L’Ordinario del luogo si dia premura che coloro, i quali sono deputati, come insegnanti della religione nelle scuole, anche non cattoliche, siano eccellenti per retta dottrina, per testimonianza di vita cristiana e per abilità pedagogica”.

“Retta dottrina, testimonianza di vita cristiana, abilità pedagogica”: sono tre criteri in base ai quali non solo viene concessa l’idoneità all’insegnamento, ma questa stessa idoneità viene conservata e mantenuta. Infatti, l’idoneità, come viene data può anche essere revocata, proprio sulla base di questi tre criteri in rapporto ai quali il vescovo ha il dovere morale e giuridico di chiedere ai “suoi” insegnanti di religione il meglio di sé, o come dice il Codice una vera e propria “eccellenza”.

  1. Eccellenza nella dottrina.

Ciò richiede un continuo obbligo di formazione teologica e di aggiornamento. E non per essere in grado di esporre le opinioni teologiche di questo o di quel teologo, ma per essere sempre più ferrati in quella che è la dottrina della Chiesa così come si esprime nel Catechismo della Chiesa Cattolica e nel suo Compendio. Una dottrina alla quale è necessario innanzi tutto dare la propria adesione di fede; infatti non si può insegnare in maniera convincente e autorevole se non c’è adesione di cuore e di mente al contenuto della dottrina che si insegna. E ciò perché si tratta di contenuti relativi alla fede e la fede, lo sappiamo, è sempre questione di amore. Non si può credere veramente se non si ama; come non si può amare se non si conosce; ma non si ha vera conoscenza se non attraverso una esperienza autentica di relazione personale e profonda con ciò che andiamo conoscendo. In altre parole, il nostro rapporto con la dottrina della fede non può essere pieno e autentico se non attraverso un percorso di vita che fa della dottrina della fede la struttura portante della nostra esistenza e delle nostre scelte di ogni giorno.

E’ ovvio che quando dico “dottrina della fede”, non mi riferisco soltanto ai pronunciamenti dogmatici o al magistero solenne della Chiesa; prima ancora mi riferisco alla sorgente e all’acqua viva che irrora la nostra vita di credenti che è la Sacra Scrittura insieme alla Tradizione della Chiesa; ma non dimentico neppure quello che è il magistero del Papa e dei vescovi a cui è sempre necessario fare riferimento per mantenere intatto il nostro percorso di fede. E’ ovvio che se questa attenzione e questo ascolto sono necessari per ogni cristiano, lo diventano ancora di più per chi dalla Chiesa riceve il mandato di insegnare religione cattolica nelle scuole.

Qualche volta si ha l’impressione che ci sia una specie di strisciante adattamento al relativismo corrente e non perché si insegnino dottrine ereticali, ma perché più facilmente non si insegna tutta la dottrina della Chiesa nella sua pienezza; ci si sofferma di più su tematiche assai condivise dalla cultura egemone in mezzo alla quale viviamo, come le tematiche relative alla pace o alla giustizia sociale, ma si glissa su quelle tematiche che oggi vengono chiamate “sensibili” e sulle quali, di fatto, si verificano le grandi differenziazioni che incidono sia sui percorsi culturali, sia su quelli politici, sia soprattutto sulle scelte personali e familiari che riguardano la vita di tutti i giorni.

Proprio per mantenere salda ed integra la “retta dottrina” c’è allora bisogno di programmare in maniera sistematica itinerari di aggiornamento. E’ vero che nella scuola i corsi di aggiornamento non rivestono più il carattere di obbligatorietà come nel passato – ed è cosa estremamente paradossale, dal momento che in ogni ambito lavorativo, l’aggiornamento e la riqualificazione professionale sono ormai sempre più necessità obbligatoria per tutti – ma ritengo che agli insegnanti di religione proprio per essere all’altezza della situazione sempre più difficile in cui debbono operare debbono essere offerte possibilità serie di aggiornamento e di formazione. Sarà compito dell’Ufficio Scuola programmare questi corsi in collaborazione con l’ISSR, indicando altre opportunità già offerte annualmente dal Servizio Cultura ed Università della nostra Diocesi; e sarà impegno cogente per tutti gli insegnanti di religione di parteciparvi.

2. Il secondo requisito richiesto dal CJC è l’eccellenza nella testimonianza di vita cristiana che riguarda sia il comportamento personale che il proprio inserimento nella vita della comunità ecclesiale.

In rapporto a ciò viene alla mente quanto scriveva Papa Giovanni Paolo II nella sua lettera Novo Millennio Ineunte alla conclusione del grande Giubileo del 2000 a proposito del vivere cristiano che è vocazione alla santità. “E’ un impegno che non riguarda solo alcuni cristiani: Tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità” (30) e continuava il Papa: “Se il battesimo è un vero ingresso nella santità di Dio attraverso l’inserimento in Cristo e l’inabitazione del suo Spirito, sarebbe un controsenso accontentarsi di una vita mediocre, vissuta all’insegna di un’etica minimalistica e di una religione superficiale (….) E’ ora di riproporre a tutti con convinzione questa misura alta della vita cristiana ordinaria”(31).

Oggi si fa molta più fatica che nel passato a vivere non appiattiti al minimo, proprio perché la cultura che ci circonda, come diceva il Papa, propone la mediocrità come stile di vita, con un’etica che tende al minimo e che cerca di facilitare le scelte che siamo chiamati a fare, abbassando il livello dei valori di riferimento, come se i valori fossero solo riferimenti opzionali e non vera e propria struttura portante della vita della persona e della società. In questo contesto anche la pratica religiosa rischia di essere banalizzata e ridursi, nel migliore dei casi alla presenza se non alla assistenza alla Messa domenicale senza però che ci sia quella profonda partecipazione interiore capace di far incontrare la persona con il mistero che si celebra e che è sempre il Cristo, il Risorto, il Vivente che redime e salva. In altre parole ad un IRC non basta essere classificato, almeno formalmente come un cristiano praticante perché assolve al “precetto” domenicale; un IRC, come cristiano autentico e maturo deve essere una persona che cura in maniera attenta e perseverante la propria vita spirituale nell’ascolto della Parola di Dio, nella preghiera personale e familiare, nella partecipazione ai sacramenti e nella partecipazione alla vita della propria comunità cristiana, pronto al servizio e disponibile a farsi partecipe della missione stessa della Chiesa cui appartiene nel contesto della comunità diocesana e parrocchiale di appartenenza.

Non sono pochi i casi in cui l’IRC non ha alcun rapporto con il proprio parroco e con la propria parrocchia e come fosse un “nomade” della vita religiosa partecipa alla Messa domenicale – voglio sperare che almeno questa fedeltà la viva in pienezza – là dove si trova o dove è più comodo andare.

Non si può essere “testimoni di vita cristiana” se ci si nasconde e se la vita della comunità cristiana non è la casa dove si cresce comunitariamente nell’esperienza di Dio e della vera comunione nella famiglia dei figli di Dio.

La carenza o la totale mancanza di testimonianza cristiana da parte dell’IRC diventa ancor più visibile proprio perché la professione di IRC è un fatto pubblico, che non può essere nascosto e che innesca sempre o positivamente o negativamente una reazione sia all’interno della comunità credente, sia al suo esterno. Essere IRC non è infatti una professione come un’altra; così come l’insegnamento della RC, per certi aspetti non è come l’insegnamento di una qualsiasi altra materia.

Infatti se per essere bravi insegnanti occorre sempre e per tutti padronanza piena della propria materia, quando questa “materia” è qualcosa che attinge al mistero stesso della coscienza e delle scelte di vita, allora occorre che ne venga data testimonianza esplicita, piena, integrale, con una professione di fede che non si limita alla recita del Credo nella Messa domenicale, ma che lo traduce nella liturgia della vita, che diventa così ambito di autentica testimonianza a Gesù e al suo Vangelo.

Tutto questo chiede allora un forte impegno a curare il proprio cammino spirituale anche attraverso momenti specifici di spiritualità che dovranno essere organizzati dall’Ufficio Scuola e che dovranno caratterizzare almeno i due momenti fondamentali dell’anno liturgico: la Pasqua e il Natale, magari in collaborazione con le Associazioni cattoliche di categoria degli insegnanti come l’AIMC e l’UCIIM presenti in Diocesi.

Ugualmente sarà importante che ogni IRC, specie per quanto riguarda la scuola dell’infanzia, la primaria e la secondaria di primo grado, si faccia conoscere dai parroci delle parrocchie sul cui territorio ci sono le scuole dove insegnano: il collegamento con la vita ecclesiale potrà essere di grande aiuto a conoscere le situazioni di vita del territorio, i bisogni e le potenzialità, così da tessere quella rete di collegamento che è sempre garanzia di sostegno reciproco e di aiuto anche per quanto riguarda il rapporto con le famiglie degli alunni, rapporto spesso poco significativo se non addirittura inesistente.

3. Il terzo requisito richiesto è l’eccellenza nella abilità pedagogica.

Tema assai delicato che spesso ha una ricaduta non trascurabile sulla crescita numerica dei non avvalentesi. Il numero dei non avvalentesi anche nella nostra diocesi è in continua crescita quasi ovunque, ma ha raggiunto livelli di guardia soprattutto nella scuola secondaria di 2° grado (23,9% nell’anno scolastico 2006-2007); ma è pure significativo l’ 8% dei non avvalentesi nella scuola dell’infanzia a confronto del 5,4% nella scuola primaria e dell’ 8,9% nella secondaria di primo grado. Spesso la crescita dei non avvalentesi è un segnale preoccupante circa le carenze metodologiche da parte dell’insegnante, come è pure spia di arbitrari comportamenti da parte dei dirigenti scolastici che di fatto non riconoscono la dignità che compete all’insegnamento della RC. Penso in particolare agli orari con l’ora di religione all’inizio o alla fine della mattinata e la non attivazione dell’ora alternativa o la sua assoluta mancanza di significato. Basta pensare che la statistica riguardante la nostra diocesi (anno 2006-2007) ci dice che in totale il 71,2% dei non avvalentesi esce dalla scuola senza fare alcuna ora alternativa o studio indirettamente assistito o non assistito (la percentuale di chi esce è del 24,5% nella scuola secondaria di primo grado, dell’80,1 % nella scuola secondaria di secondo grado; del 79,5% nei licei; del 10,1 % nei licei sociopsicopedagogici; del 76,7% negli istituti tecnici; del 90,0% negli istituti professionali e del 73,0% in altre scuole).

Una attenzione va pure posta alla percentuale dei non avvalentesi nella scuola dell’infanzia. L’8% è un dato assai alto che è probabilmente destinato a crescere e a far lievitare il numero dei non avvalentesi nei gradi di scuola successivi.

Se da una parte il mondo ecclesiale deve prende coscienza di questa tendenza negativa e deve quindi sollecitare le famiglie ad avvalersi dell’insegnamento della RC, dall’altra parte una grande opera può essere fatta dagli stessi IRC che all’interno della scuola devono adoprarsi perché le norme scolastiche vengano osservate da tutti, compresi i dirigenti scolastici, vigilando e informando l’Ufficio Scuola di ciò che sta succedendo di anomalo.

E’ ovvio che l’abilità pedagogica non si consegue senza fatica e senza impegno; ma soprattutto esige che si diventi sempre più attenti nella riflessione su quella che il Papa Benedetto ha chiamato “emergenza educativa” e sulla quale dovremo riflettere con molta attenzione anche come chiesa pisana. Per ora vi esorto a leggere e a meditare attentamente il discorso che il S.Padre fece nel giugno dello scorso anno in S.Giovanni in Laterano al Convegno della Diocesi di Roma sul tema della educazione alla fede, inserito nel quadro più ampio della emergenza educativa.

4. Rapporto con il Vescovo e la Chiesa locale.

Questo sguardo sul tema della idoneità all’insegnamento della RC mette in primo piano anche il rapporto con il Vescovo e con la Chiesa particolare di cui voi, insegnanti di RC siete espressione.

Con il concorso bandito a seguito della L186/03, come ben sapete, si sono diversificati i contratti dei docenti di RC: alcuni docenti (chi non ha vinto il concorso e chi non l’ha potuto sostenere) continuano ad avere un contratto a tempo determinato che anno per anno firmano presso l’istituzione scolastica che l’Ordinario Diocesano indica all’Ufficio Scolastico regionale che nomina il docente. Infatti la nomina dell’IdRC non è “della Curia” ma è d’intesa tra Chiesa Cattolica e Stato Italiano. Ogni anno è possibile modificare la sede del docente anche se è opportuno nel limite del possibile mantenere la stessa sede per continuità didattica. Certamente l’Ordinario è liberissimo di modificare la proposta anno per anno: punto delicatissimo che però al suo interno ha un’aspetto inamovibile: mai diminuire le ore settimanali della proposta rispetto all’anno precedente se non su richiesta dello stesso IdRC.

Altri docenti (cioè i vincitori di concorso) hanno firmato un contratto a tempo indeterminato con lo Stato Italiano e chiaramente hanno una stabilità contrattuale diversa. Loro sono di “ruolo” nella Regione Toscana e possono insegnare solo nella Diocesi di cui hanno il certificato di idoneità che determini anche l’ordine e grado di scuola nel quale l’IdRC può insegnare. Non sono di ruolo nella scuola assegnata, ma nella Diocesi di appartenenza. Pertanto ogni anno è necessario confermare la sede di utilizzazione del docente, e la conferma avviene d’intesa tra Vescovo e Stato Italiano. Il docente può chiedere altra sede ma solo il vescovo può dire sì o no. La graduatoria regionale su base diocesana stilata in aprile 08 ha solo lo scopo di individuare i soprannumerari e non dare la precedenza per la scelta della sede. Pertanto il rapporto con l’Ordinario circa la nomina d’intesa non cambia: l’Ordinario diocesano mantiene tutta la discrezionalità necessaria per assicurare un IRC che corrisponda alle attese pastorali della Chiesa Diocesana che guida.

Qualche volta si avverte nei docenti di ruolo una sorta di sufficienza verso l’Ordinario diocesano data la “sicurezza del contratto” e le certezze che anche se il Vescovo togliesse loro l’idoneità loro comunque rimarrebbero dipendenti dello Stato e mai licenziabili (a meno che il motivo di revoca dell’idoneità non sia anche motivo di un procedimento disciplinare o civile/penale con pena il licenziamento).

Contemporaneamente si nota come si creino 2 livelli di IdRC: quello di ruolo e quello non di ruolo rischiando di ingenerarsi due modi diversi di trattamento anche da parte dell’Ordinario diocesano, cosicché se il primo è inamovibile l’altro è sempre ballerino da una sede all’altra e magari la validità pastorale e educativa del secondo è di gran lunga superiore rispetto a quella del primo.

Pertanto: è necessario ribadire il ruolo dell’idoneità: non c’è un insegnante più idoneo o uno meno idoneo. Tutti hanno la piena e completa fiducia del Vescovo. Ma il vescovo ha la piena e completa fiducia di tutti i suoi IdRC?

I criteri del Vescovo non possono essere quelli per titoli e punti dello Stato, ma nemmeno di simpatia o antipatia: sono criteri ecclesiali. Cioè significa che l’Ufficio Scuola (che è e deve essere sinonimo della parola “vescovo” poiché agisce per nome e per conto del Vescovo) deve avere dei criteri ecclesiali che non siano soltanto“la graduatoria” diocesana. Essa può essere stilata con qualsiasi criterio (l’anzianità di servizio e l’aggiornamento dovrebbero essere i punti base per tali graduatorie) ma assicura solo la precedenza circa le ore di nomina e non circa il luogo di nomina: un docente più in alto nell’elenco non può avere meno ore di uno più in basso. Cosicché l’ultimo in graduatoria avrà certamente meno ore (le rimanenti del comparto diocesano) ma è anche colui che insegna per la prima volta o per i primi anni. E’ quindi ovvio che se c’è fiducia si possono costruire anche criteri comuni, se c’è rivendicazione non si va avanti.

5. Alcune riflessioni conclusive sull’identità dell’IRC.

L’IdRC è un fedele cristiano laico appartenente alla Chiesa particolare pisana che vive la sua fede in diversi luoghi: la propria famiglia, la comunità parrocchiale di appartenenza, la scuola. Circa la famiglia, come ogni cristiano, le scelte etiche, dell’educazione dei figli, della condotta familiare in genere debbono poter rispondere al Vangelo di Gesù senza vergognarsene. Non è raro trovare cristiani che si nascondono anche verso i propri figli magari perché cresciuti e non proprio inclini al messaggio di Cristo. Questo dice che il cammino personale di ciascuno è cammino autentico di conversione e approfondimento del rapporto con Cristo. L’IdRC in famiglia non si vergogna di pregare a tavola, di andare a Messa la domenica anche se al mare, di chiedere ai propri figli una rinunzia per un povero, di aprire la propria famiglia alla vita della parrocchia, di gioire insieme alla Chiesa e di soffrire insieme alla “sua” Chiesa. Un cristiano vero non si sente mai fuori o accanto alla Chiesa ma dentro: ne è parte con il battesimo e sa che Chiesa non significa gerarchia ecclesiastica ma comunità di credenti, Sposa di Cristo. Per questo vivere attivamente all’interno della comunità cristiana (anche solo essere presente, ma sul serio) non è imposto da un lavoro e da una legge “del Vescovo” ma diviene naturale.

Circa la presenza nel mondo scolastico è importante ricordare che l’IdRC non è l’unico cristiano a scuola. Questo se è vero in teoria, di fatto, molto spesso, non si riscontra nella evidenza delle situazioni. Di fatti, non è raro che l’IRC si trovi in una vera e propria solitudine con un senso pesante di “frustrazione” proprio perché di fronte alle difficoltà non sono pochi i cristiani che si defilano, si nascondono o se ne stanno in silenzio di fronte a tante sollecitazioni contrarie alla Chiesa che vengono più o meno subdolamente proposte ai ragazzi. Ciò esige che almeno gli IRC siano tra loro uniti; siano appoggiati e sostenuti dalla Diocesi; siano accompagnati nelle loro difficoltà dall’Ufficio Scuola; siano fatti partecipi e aiutati dalle proposte di Pastorale scolastica e disponibili a lasciarsi coinvolgere dalle varie iniziative che specie nelle scuole superiori pisane vengono portate avanti dal Movimento Studenti di Azione Cattolica e in genere dalle iniziative della Pastorale giovanile diocesana.

Un ultimo accenno desidero farlo poi riguardo ai programmi di insegnamento. Come ben sappiamo i programmi sono in continua evoluzione e proprio al termine dello scorso anno scolastico è stato reso noto l’inizio della sperimentazione per formulare i nuovi programmi IRC per l’ infanzia, la primaria e la secondaria di primo grado. Da questo punto di vista occorrerà vedere che cosa succederà.

È vero però che la materia tiene se tiene l’insegnante: questo è un problema effettivamente serio. Se il docente non è un adulto significativo non solo il contenuto è mal trasmesso, ma spesso i ragazzi abbandonano l’insegnamento. Vorremmo essere tutti come don Bosco… ma non lo siamo. Però possiamo sicuramente chiederci con quanta passione educativa affrontiamo il nostro lavoro, con quale amore per i ragazzi che incontriamo e per i quali svolgiamo il nostro servizio educativo; quali sono le mete verso le quali indirizziamo il nostro servizio e quali sono le risposte da parte dei ragazzi e delle loro famiglie.

Come sempre e come in tutto, se vogliamo crescere e migliorare, se vogliamo dare il massimo c’è sempre bisogno di fare un coraggioso esame di coscienza, mettendoci in discussione e non per il gusto di piangerci addosso, ma con la voglia di tentare vie sempre nuove per entrare in contatto con una realtà giovanile che non è affatto chiusa o refrattaria di fronte a proposte serie e forti, ma che ha bisogno soprattutto di essere ascoltata e accolta con amore perché è sempre e soltanto l’amore che spalanca tutte le porte e apre prospettive di novità e orizzonti insospettabili ed esaltanti.

Che il Signore ci e vi renda tutti capaci di questa ricchezza d’amore perché anche attraverso il vostro servizio che non è certamente catechesi e tanto meno indottrinamento, possano aprirsi quelle strade interiori attraverso le quali il Signore possa giungere in quel sacrario interiore che è la coscienza e il cuore dei giovani studenti, portando il suo amore, il solo capace di saziare l’attesa di felicità che c’è nel profondo di ciascuno.