Pisa
DARIO CATUREGLI NUOVO PRESIDENTE AC
di Andrea Bernardini
Dario Caturegli è il nuovo presidente diocesano dell’Azione cattolica. L’ha nominato lo scorso 1 settembre l’arcivescovo Giovanni Paolo Benotto. 53 anni, originario a Cascine di Buti – dove risiede con la moglie Antonella e i figli Irene, Valentina e Luca – Dario Caturegli è insegnante di lettere al liceo scientifico a Pontedera. Raccoglie il testimone di Anna Maria Catarsi, che ha guidato l’associazione negli ultimi tre anni e mezzo.
Si aspettava che le venisse affidato questo incarico?
«No e, paradossalmente, sì. No: da vent’anni sono impegnato in parrocchia ed anche il lavoro mi occupa molto tempo, per questo mi consideravo fuori dalla chiamata. Sì: nel senso che non ho mai smesso di credere nell’Azione cattolica e sono convinto che quando nell’Aci ci si è formati e si è avuto tanto (in termini umani, spirituali, di incontri, di amicizie…) si debba anche – con umiltà – provare a restituire e condividere quello che si è ricevuto. L’incontro e la richiesta dell’arcivescovo -cordiale e fraterna ma anche ferma – ha fugato le remore sempre presenti nell’iniziare un nuovo compito, che non si sostituisce ad altri ma che se ne aggiunge, che ti rimette in gioco, che ti fa lasciare le acque sicure degli impegni, magari anche intensi, ma conosciuti e ordinari, dell’adulto in parrocchia».
Quando e dove ha conosciuto l’Ac?
«Il mio è stato il cursus honorum di tanti: dapprima, in paese, iscritto alle fiamme (bianche, verdi e rosse) e agli aspiranti; con l’Acr ho fatto la prima esperienza in un’epica tre giorni animatori a Calambrone nel settembre 1969: epica per la vivacità dei partecipanti, l’incontro con animatori (spesso più grandi) di tutta la diocesi, la celebrazione delle prime messe liturgicamente partecipate e dialogate all’omelia, l’entusiasmo di sentirci in tanti e di creder di poter fare qualcosa nella Chiesa, le tante amicizie. Negli anni successivi sono venuti i campi Acr e giovani a Pian degli Ontani. Con la verifica della propria religiosità che da familiare cercava di divenire personale, che si interrogava, che protestava anche un po’ contro quello che si vedeva nella società intriso di ipocrisie e contraddizioni. Cantavamo, infatti, Dio è morto con tutta la fede e l’entusiasmo con cui da giovani si può credere. C’è stato successivamente un silenzio associativo fino alla riscoperta e all’impegno nell’Aci da adulto. È stata (almeno per la mia maturazione) la ricca e intensa stagione della fine degli anni ’70 e ’80. In questo periodo, prima, sono stato in presidenza Ac con Antonella come coppia cooptata, poi, nel triennio 82-84 come vicepresidente adulti con Maria Luisa Barachini. Sono stati gli anni di un’intensa formazione: la scuola associativa mensile di tutto il giorno, gli esercizi spirituali, i convegni, le grandi manifestazioni per la pace e la vita; nella pastorale familiare sono stati gli anni della metabolizzazione associativa del documento «Evangelizzazione e Sacramento del Matrimonio», della promozione dei gruppi fidanzati-sposi e dei gruppi famiglia. Insomma, per dirla con una battuta, eravamo, in quegli anni, di quelli che «andavano in Via San Zeno, 2» (la vecchia sede associativa). Poi il secondo e il terzo figlio, l’impegno ritornato in parrocchia e i tentativi con l’allora parroco don Simone di pensare e sperimentare per l’Ac nuove frontiere di pastorale, in tempi in cui pareva appannarsi il carisma dell’associazione e il suo specifico ruolo in parrocchia».
Com’è cambiata l’Ac negli ultimi trent’anni?
«Non ho seguito in modo approfondito le ultime stagioni dell’Azione cattolica nazionale e diocesana, ma credo che le trasformazioni, rispetto ad un’Ac numerosa e protagonista della vita ecclesiale di qualche decennio fa, siano state causate da fenomeni come: la secolarizzazione, la presenza di una molteplicità di carismi, di gruppi e movimenti, la crisi al tempo stesso delle forme di aggregazione giovanile – e non solo- di tipo sia ecclesiale che sociale. Ciò ha comportato, spesso, un lavoro intenso dei singoli aderenti nella vita ecclesiale, ma sommerso o in diaspora per quanto riguarda la visibilità e in definitiva il senso della propria ministerialità».
Qual è la peculiarità dell’Ac tra le tante associazioni cattoliche presenti anche in diocesi?
«Senza voler descrivere con pienezza il suo ruolo nella chiesa -non è questa l’occasione- credo che l’ACI, secondo lo statuto, le dichiarazioni del Magistero, nonché le prime indicazioni del nostro arcivescovo, risponda ai compiti che delineano la sua vera e secolare identità: un forte senso di appartenenza alla Chiesa, così com’è, incarnata nella vita diocesana; la formazione per tutto l’arco dell’assistenza degli aderenti (e «vicini», sia detto per inciso: ma a quante persone l’Ac ha dato contributi di formazione integrale -attraverso i campi o i ritiri in parrocchia- con apertura e disponibilità anche se non erano iscritti!); la creazione di un tessuto ecclesiale, di una rete fatta di conoscenze, di incontri, di vita ecclesiale come famiglia di famiglie; e infine la dimensione parrocchiale, intesa non come confine ma piena valorizzazione della quotidianità: intessuta di fatiche, spesso, di insuccessi e di povertà ma nella consapevolezza che il laico è qui che costruisce la propria santità».
Quale lavoro lo attende?
«La domanda è ben posta: non tanto quanto lavoro (che certo dovrei dire è grande, soprattutto perché chi mi ha preceduto ha molto seminato, ma anche irrimediabilmente sproporzionato tra il dover fare e il poter concretamente operare) ma quale. Allora rispondo in modo più sereno, in quanto decisivo diventa lo stile con cui si opera: di assoluta fedeltà e servizio ecclesiale, di piena assunzione di responsabilità laicali; con un piano d’attività che non può non discendere da una forte vita spirituale, un saper rendere ragione della nostra fede nel mondo (che è il campo proprio del laico) nel dialogo e nella franchezza, la costruzione di comunità fraterne e gioiose (ci son già tanti problemi nel mondo per diventare anche nelle associazioni profeti di sventura)».
Un ringraziamento a chi l’ha preceduta …
«Volentieri e non di opportunità: la grandezza dell’Ac è fatta di persone e di testimoni che passano di mano in mano: ciascuno indispensabile e ciascuno parziale; le persone passano, infatti, la motivazione teologica dell’Ac -come ebbe a dire Paolo VI alla III Assemblea- resta e così l’associazione. Grazie, dunque, in particolare a tutti i presidenti che ho conosciuto da Equi a Quintavalli, da Tomasi a Barachini, da Roncella a Guidi a Catarsi, che mi ha proceduto. Un grazie anche a quei sacerdoti, a vario titolo assistenti, da cui ho ricevuto e appreso, in stile davvero paterno, l’entusiasmo, l’umiltà, la dedizione alla chiesa e ad ogni singola persona: don Dino Bertini, don Antonio Bianchin, don Adriano Valleggi, don Claudio Desii e don Claudio Masini… per rendere preciso – anche se non certo esaustivo – il ricordo e la gratitudine per i tanti».