Pisa

«Scienza Pastorale Ministero». Il cardinale Pietro Maffi a Pisa tra Leone XIII e Pio XI

«[Il card. Maffi] dovrà certo arrossire d’aver intavolato così male il problema, che gli dà tali risultanze. Come diventano piccoli certi uomini, che si credono grandi! E come senza volerlo si manifestano! Altro che modernismo!»1. Chi scrive queste righe è personaggio autorevole, e le scrive ad un altro personaggio, altrettanto potente: si tratta di papa Pio X e del prefetto della Congregazione concistoriale Gaetano De Lai. Oggetto del contendere: la stampa cattolica e l’atteggiamento della Chiesa nei confronti del modernismo, quel ramificato e disomogeneo movimento di idee che tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX cercò di riavvicinare il mondo ecclesiastico a quello più latamente socio-culturale e liberale. L’anno è il 1911, quando già si erano definitivamente consumati gli strali pontifici contro tale movimento: il decreto Lamentabili sane e l’enciclica Pascendi dominici gregis, entrambi del 1907, e l’obbligo del giuramento anti-modernista imposto al clero, del 1910. Ma evidentemente il clima che vivono papa Sarto e uno dei suoi più stretti collaboratori continua ad essere un clima da cittadella assediata, e lo scenario si farà ancora più fosco in quegli ultimi anni di vita dell’ex-patriarca di Venezia, tanto più quanto maggiormente si avvicinano le avvisaglie dello scoppio della Grande Guerra. Il cardinale di Pisa ha difeso in una lettera a De Lai la stampa cattolica cosiddetta “transigente”, cioè in maggior misura aperta ai portati della contemporaneità e alla cultura laica, e ha espresso riserve sulla strategia anti-modernista condotta da un po’ di tempo dalla “cricca” romana (ma in realtà perlopiù veneta) ruotante intorno al pontefice. «Persona inqualificabile» pare abbia chiosato Pio X riguardo a Maffi in calce alla sua lettera2. E forse questo episodio, se legato più in generale al percorso ecclesiale di Pietro Maffi e alle sue aperture alla modernità, possono avere influito, in seno al conclave che si aprirà di lì a tre anni, sulla caduta della sua candidatura di fronte a quella dell’arcivescovo di Bologna, Giacomo Della Chiesa, che ne uscirà col nome di Benedetto XV3. Allo stesso tempo, pur apprezzando la sua profonda esperienza pastorale, il suo patriottismo e lo stretto legame instaurato con Casa Savoia, che aveva spesso contigua nella tenuta di San Rossore, pare abbiano costituito ulteriori elementi discriminanti rispetto alla riuscita del suo nome.

Queste prime note condensano però buona parte dei temi che verremo enucleando. Ma è innanzitutto necessario focalizzare brevemente l’attenzione sui primi quarant’anni di vita del Nostro, perché è lì che affondano le radici molti degli atteggiamenti degli anni dell’episcopato pisano. Cercheremo comunque di restare lontani dal pericolo, evidenziato a suo tempo da Silvano Burgalassi, proprio relativamente al cardinale pisano, di cadere “nell’apologia e nella retorica”4, che invece spesso ha inficiato la letteratura su questa figura, non diversamente, del resto, da molti altri personaggi del mondo ecclesiastico. La vita di Pietro Maffi si consuma per metà all’interno del contesto pavese, ma direi meglio lombardo: l’incontro con Lucido Maria Parocchi, ma soprattutto con Agostino Riboldi, i due vescovi del suo chiericato e del suo sacerdozio risultano, come del resto è comprensibile, fondamentali per la sua formazione. Da una parte Parocchi, che ancora da cardinale e vicario della diocesi romana, a fine Ottocento, difenderà il movimento sociale cattolico e in particolare l’idea dell’Opera dei Congressi, istituzione che, pur nel mantenimento di una sostanziale linea di intransigenza nei confronti dello Stato liberale, convoglia e stimola le forze del laicato cattolico verso un atteggiamento di maggiore apertura al sociale e ai suoi problemi, dal mondo rurale a quello operaio, per intenderci5. Dall’altra Riboldi, il presule che, intuendone la predisposizione scientifica, lo instraderà decisamente verso il tentativo di recupero delle posizioni che il cattolicesimo stava sempre più rapidamente perdendo nei confronti dei progressi della scienza moderna. Entrambi però, e Riboldi in particolare6, attestandosi su posizioni di sostanziale intransigentismo: il che, oltre a spiegare in parte il pensiero di Maffi arcivescovo a Pisa, come vedremo, è utile per comprendere come le categorie transigentismo/intransigentismo non vadano assolutizzate, ma anzi calate ogni volta nel vissuto dei protagonisti di quell’epoca non facile tanto per la gerarchia quanto per il laicato cattolico.

Nella riorganizzazione degli studi operata da Riboldi all’interno del seminario pavese, Maffi tiene per tutto l’ultimo ventennio del secolo l’insegnamento di fisica e storia naturale: sono questi gli anni degli studi astronomici, degli scritti scientifici di carattere divulgativo (uno su tutti, Nei cieli: pagine di astronomia popolare, con cinque edizioni tra il 1896 e il 1928), dei contatti con l’osservatorio astronomico di Brera e con la Specola vaticana. L’abbrivio per i suoi interessi filosofico-scientifici, o forse la giustificazione per una predisposizione naturale in tal senso, viene fornito a Maffi, ma non solo a lui, proprio in limine all’inizio del suo apostolato, dall’enciclica Aeterni Patris di Leone XIII. L’anno è il 1879, papa Pecci è da poco sul soglio di Pietro, ma già persegue con sicurezza un obiettivo preciso: fornire ai cattolici l’apparato concettuale e ‘ideologico’ per confrontarsi positivamente con la modernità, lasciandosi alle spalle le chiusure e le sterili contrapposizioni del periodo piano. Gli strumenti vengono offerti dalla ripresa del tomismo e proprio l’enciclica è indirizzata in tal senso, con un’apertura al mondo della ricerca e, pur entro certi limiti, ai portati del progresso scientifico. Ampi settori, laici ed ecclesiastici, del mondo cattolico vi leggono una ventata di novità e si impegnano a fondo in tal senso, ma è soprattutto con la Rerum novarum del 1891 che il movimento cattolico riceve il definitivo impulso dall’alto che consente di dispiegare un’azione a largo raggio, come era nelle intenzioni dello stesso pontefice, impegnato in quella restaurazione cattolica della società, il cui approfondimento molto deve agli studi di Giovanni Miccoli e di Daniele Menozzi. Giuseppe Toniolo, docente di Economia politica a Pisa dal 1883, invita Maffi al primo convegno scientifico dell’Unione cattolica per gli studi sociali da lui fondata, convegno che si tenne a Genova nel 1892. Da quella data, inizia un rapporto mai intermesso, fino alla morte di Toniolo, nel 1918. Maffi infatti è figura centrale nella costituzione della Società cattolica italiana per gli studi scientifici, che vede la luce nel 1899, e che lo ha tra i suoi cinque presidenti, per la sezione di studi fisici, naturali e matematici. L’anno successivo, ecco la “Rivista di fisica, matematica e scienze naturali”, che dirigerà sino all’ultimo numero, uscito nel 1912. Negli ultimi anni pavesi, Maffi entra in contatto anche con un’altra figura centrale del cattolicesimo primo-novecentesco: Agostino Gemelli ricorda di averlo incontrato quando era studente di medicina a Pavia e che Maffi lo coinvolse in qualità di collaboratore della sua rivista; a Maffi Gemelli attribuisce pure la conoscenza di Toniolo, il quale sul letto di morte lascia al frate francescano, a mons. Francesco Olgiati e ad Armida Barelli il compito di dar vita ad un’università cattolica “come strumento della salvezza del popolo italiano”7. Da qui alla carica di vicario generale di Riboldi arcivescovo di Ravenna nel 1901, alla prematura scomparsa di questi l’anno successivo e alla designazione di Maffi alla sede pisana, il passo è breve e direi consequenziale: segnalato come esponente di punta del rinnovamento voluto da papa Pecci, questi non esita ad assegnarlo ad una sede importante e difficile come quella pisana pochi giorni prima di cadere malato, sul finire del giugno del 1903. Maffi assiste all’ultima udienza del pontefice, il 28 giugno, appunto, dove pare Leone XIII gli abbia raccomandato di porre un argine, una volta giunto a Pisa, “al dominio dei partiti popolari sovversivi [e al] loro impero al municipio”8. I papi più congeniali allo spirito, al carattere, alla formazione di Maffi saranno quindi quelli che si pongono agli estremi del suo percorso da presule: Leone XIII, quanto all’iter formativo e alla consonanza con alcune posizioni di fondo, di un intransigentismo consapevole della necessità di porsi a confronto con la società moderna, così come di un’elevata coscienza del ruolo di pastore e di guida; Pio XI dall’altra, per la comune provenienza lombarda, che significa anche uno stile preciso nell’essere preti vescovi cardinali, ma anche per la rinnovata attenzione e simpatia per il mondo degli studi e per l’importanza attribuita all’azione del laicato cattolico come stimolo e lievito per la società tutta.

L’incontro, non si sa quanto retrospettivamente mitizzato, con il giovanissimo Giovanni Gronchi sul treno che lo portava a Pisa per il suo ingresso in diocesi; quello, ben documentato dalla caduta della giunta comunale, con il sindaco di Pisa all’arrivo in stazione; si tratta di due eventi che ipostatizzano in maniera appropriata due momenti forti del suo episcopato: il sostegno al movimento cattolico organizzato e i non sempre facili rapporti con le autorità cittadine, che dovevano barcamenarsi tra le timide aperture e gli opposti veti di liberali, repubblicani e democratici di appartenenza massonica. Tipico l’episodio dell’offerta da parte di Maffi di un monumento da erigersi per celebrare Galilei nel 1922, episodio che causò le dimissioni del sindaco Pardi e dei consiglieri liberali, che avevano sostenuto il progetto, e l’inedito saldarsi dei fronti contrapposti repubblicani-democratici, come ha ben ricostruito Mario Andreazza9. Siamo quindi giunti all’inizio del periodo pisano, che ora intendiamo approfondire nei suoi molteplici aspetti, non prima però di aver accennato al fervore di iniziative che caratterizzò il quasi trentennio dell’attività pastorale di Maffi a Pisa. Inseguiremo poi il pensiero e l’opera del cardinale attraverso i suoi scritti, utilizzando principalmente il consistente corpus delle lettere pastorali, ma anche le omelie e gli scritti di occasione: ci aiuteranno a comprendere meglio una figura senz’altro centrale dell’episcopato italiano primo-novecentesco, come ebbe del resto a sottolineare lo stesso Giuseppe De Luca in occasione della stesura della voce su Maffi all’interno dell’Enciclopedia italiana Treccani, a pochissimi anni dalla scomparsa, nel 1934: “fu per illuminato zelo pastorale uno dei migliori vescovi d’Italia; e insieme amò assai l’Italia, anche in tempi dolorosi”10.

L’attività pastorale si caratterizza fin da subito per quella tensione, ancora tridentina, ma di un tridentinismo rivisto e corretto secondo l’uso lombardo-borromeano, che Maffi, formatosi a Pavia, non poteva non aver inoculato11. Ecco quindi un iper-attivismo a tutto campo, partendo, innanzitutto, dalla visita pastorale sin dal primo anno di episcopato, seguita da altre tre a intervalli più o meno regolari. Gli scritti sulla visita testimoniano sia degli ideali punti di riferimento di Maffi nel compierla, sia delle carenze rilevate in diocesi. Nell’indire la visita, manifesto è il richiamo non agli immediati precedessori, ma al cardinal Cosimo Corsi, campione dell’intransigentismo post-unitario e per questo incorso nelle censure governative12. Maffi si distingue anche per l’esplicito rifarsi all’ideale eroico del vescovo della Controriforma e questo aiuta a spiegare l’alta coscienza del suo ministero episcopale: il pastore deve raggiungere le sue pecorelle fin nei più sperduti e irraggiungibili luoghi della diocesi, e se muore nell’adempimento del suo mandato, tanto meglio. In questo senso vanno infatti i riferimenti a Francesco Bosio, vescovo di Novara ai tempi di Carlo Borromeo e soprattutto ad Alessandro Sauli, presule prima di Aleria in Corsica e poi di Pavia: Sauli, da poco canonizzato13, ben si prestava a riassumere due aspetti intimamente legati all’esperienza di Maffi, quello della primazia sulla Corsica, appannaggio degli arcivescovi pisani, e il comune gravitare sul contesto pavese e più latamente lombardo. Ma soprattutto interessa Maffi il sacrificio, sino all’estremo limite della morte, compiuto durante la visita pastorale. Il consuntivo della visita, stilato quattro anni più tardi, è caratterizzato, come sempre, da luci ed ombre: lo colpisce la devozione riscontrata spesso in diocesi ai morti e soprattutto a Maria, oggetto di molti dei suoi scritti e che si ricollega all’esaltazione della figura della Vergine da parte di Pio IX, tanto è vero che Maffi attribuisce il merito della diffusione del culto di nuovo al card. Corsi, esaltandone la caratteristica di regina dei cristiani (“Maria regna” è infatti lo slogan che sottolinea a più riprese14). Maffi, seguendo in questo la tradizione gesuitica, è poi un fervoroso sostenitore della pratica della comunione frequente, come “misura” di vita cristiana, e gli spiace constatare che in diocesi tale pratica non raggiunga “tutto il suo splendore”15. Del resto, sarà confortato in questo suo impegno dall’impulso dato da Pio X ai tridui eucaristici e dal decreto dell’8 agosto 1910 sulla prima comunione, anticipata dal pontefice dai 14 ai 7 anni, suscitando non poche polemiche. Maffi lo difende, richiamando un punto focale del suo magistero pisano, sul quale avremo modo di tornare, quello cioè del rispetto pieno delle decisioni pontificie: “ascoltare e obbedire” è quanto secondo l’arcivescovo può e deve fare ogni famiglia cristiana di fronte al papa di Roma16. Di rilievo infine gli strumenti per combattere la lotta che quotidianamente viene portata alla religione: non più solo la conoscenza del catechismo, ma anche “le pagine staccate, gli opuscoli, i libri”, cioè la diffusione di tutta quella buona stampa che soprattutto durante il pontificato leoniano sempre più è stata vista come un’opera di propagazione del credo cattolico e di contenimento dell’immoralità dilagante: “un cristiano non istruito nella sua fede è un moribondo: un primo soffio lo spegnerà”17. Il cristiano può però istruirsi ora anche tramite strumenti diremmo meno formalizzati e istituzionalizzati, ma in un certo senso più accattivanti. Per questo, Maffi insisterà sempre sulla necessità di rendere la stampa cattolica, oltre che meno litigiosa al suo interno, più aperta ai temi e ai problemi della popolazione, affinché possa conquistarsi sempre più larghe fette di mercato, sottraendole perché no anche alla stampa settaria e mondana. In questo, l’arcivescovo fu senz’altro un anticipatore di sviluppi che sarebbero stati compresi molto più tardi dal mondo cattolico nel suo complesso, forse però accumulando un ritardo non facilmente colmabile.

La fondazione nel 1905 del Giornale di Pisa, poi Vita nova e quella del Messaggero toscano qualche anno più tardi si collocano senz’altro su questa scia, e abbiamo visto in apertura come vi fossero state frizioni anche con il Vaticano proprio su questi temi. La contrapposizione di consumava all’interno del confronto-scontro tra i giornali integralisti, facenti capo all’Unità cattolica di Firenze, giornali che tenteranno di colpire duramente lo stesso arcivescovo in anni di fobia anti-modernista; e i giornali cosiddetti di penetrazione, con in testa l’Unione cattolica di Milano e in particolare il famoso trust del conte Giovanni Grosoli Pironi18. Amico personale quest’ultimo di Maffi, esponente di punta di quella parte del movimento cattolico aperta alla partecipazione alla vita politica locale, forzando il non expedit piano, ma sorretti dall’acquiescenza leoniana, presidente dell’Opera dei congressi dal 1902 al 1904, quando viene soppressa da Pio X, Grosoli condivide con Maffi l’idea che la stampa cattolica deve porsi sullo stesso piano di quella liberale, se la vuole contrastare efficacemente: elevata qualità e alta tiratura sono dunque i suoi due obiettivi, nella costituzione della Società editrice romana, che ingloberà anche il Messaggero toscano di Pisa. Nel 1912 giunge però la sconfessione da parte della Santa Sede, pubblicata sulle pagine dell’Osservatore romano: crollo delle vendite e fallimento ne furono le conseguenze. In un clima mutato, sotto il nuovo pontefice Benedetto XV, Maffi esce infine allo scoperto, non limitandosi più solamente a sostenere quell’idea di stampa nei suoi rapporti privati con la Santa Sede, ma affrontando pubblicamente l’argomento. Ed ecco lo scritto Per il giornalismo cattolico in Italia dell’aprile 1915, sconsolante per l’impari confronto con la stampa liberale da parte dei giornali cattolici, amareggiato per le polemiche che dividono il fronte pubblicistico cattolico, convinto però sempre che “ogni dì va crescendo di proporzioni ed evidenza la diffusione, l’importanza, l’influenza del giornale”19. Di qui dunque la proposta di un’opera per il buon giornale, confortata anche dall’istituzione pontificia dell’Opera nazionale della buona stampa. L’idea maffiana di giornalismo non è però vietamente apologetica, anzi nel pluralismo l’arcivescovo intravede la possibilità di opporsi all’eccessivo credito che certi giornali riscuotono presso il pubblico, e soprattutto la verificabilità di tutte le notizie: “sono stato anch’io giornalista”, ammette non senza una punta d’orgoglio20. Ma dopo solo un anno, è la sua idea di buona stampa, e quella del conte Grosoli, a venire sconfitte: soffocata dalle passività, la SER è costretta a chiudere.

Sulla scia di Grosoli, dell’Opera dei congressi, delle iniziative assistenziali delle organizzazioni cattoliche, ma anche per intimo convincimento personale, Maffi si fa promotore di una miriade di iniziative che vanno nel senso di un rafforzamento dell’associazionismo cattolico: l’Opera a lui dedicata per gli asili infantili; le casse rurali, quelle operaie, quelle di mutuo soccorso contro la pratica dell’usura; le nuove chiese di Marina e di San Pietro in Palazzi. Ma le fila di tutti questi rivoli non le può tenere solo lui in qualità di arcivescovo: è il clero tutto che deve cooperare con il suo presule, quel clero che, in un’allocuzione pronunciata davanti ai chierici del Seminario di Fermo il 10 agosto 1914, definisce granum frumenti. “Tutti i sacerdoti sono frumento di Cristo, il grano eletto e salutare, destinato al nutrimento ed alla vita dei popoli”21. Maffi insiste in più luoghi sulla necessità di un’azione moralizzatrice anche all’interno del clero: è la spinta, peraltro condivisa anche da altri presuli, verso l’immagine del sacerdote santo, alter Christus, modello per i fedeli e uomo integerrimo, al fine di evitare gli strali degli avversari. Di qui l’insistenza sull’aggiornamento continuo del clero in cura d’anime, con i discorsi al clero di Vita sacerdotale (1920), con le Conversazioni manzoniane col mio clero (1923); di qui l’indizione del sinodo diocesano nel 1920, al termine della terza visita pastorale2223.

Ma è in particolare sulla formazione che Maffi insiste ed opera, lui che viene dall’esperienza pro-rettorale del seminario pavese. Innova dunque ampiamente il cursus studiorum del pisano Seminario di santa Caterina, applicando fin da subito le indicazioni di Pio X volte a separare definitivamente la formazione dei chierici da quella degli alunni esterni, ponendo fine al secolare sistema dei seminari-collegi, e a convogliare tutta la formazione sacerdotale, fino ad allora multiforme, verso l’unica istituzione seminariale. “I chierici esterni non sono e non saranno che eccezioni”, sentenzia Maffi nel suo discorso in occasione dell’inaugurazione degli studi nel 190524. Bonitatem et disciplinam et scientiam doce me, dal salmo 118, è l’iscrizione che fa incidere all’ingresso del seminario rinnovato. Se circa la disciplina le sue indicazioni sono veloci e sommarie, più estesamente si sofferma sulla santità del sacerdote: “un prete, del quale si dice soltanto che di lui non si può dir male, è niente, è un prete zero”, chiosa con l’icasticità che spesso contraddistingue il suo linguaggio25. Ma il punto centrale della sua riforma degli studi riguarda il terzo corno della triade, cioè la scienza, e potremmo dire che non poteva essere altrimenti. Interessanti risultano le riflessioni di Maffi a questo proposito: parlano innanzitutto di una concezione elitaria della conoscenza scientifica: non importa che tutti i preti siano studiosi e scienziati, in particolare nelle scienze profane, è sufficiente che alcuni vi eccellano. Anche perché compito del sacerdote è un altro, guai a “scambiare col quadro la cornice […] il sacerdote prima e soprattutto è e deve essere sacerdote, ed egli rinnegherebbe e tradirebbe la sua missione se sempre scienza sovrana per lui non considerasse la scienza sacra”26. Il programma maffiano per gli studi dei teologi è chiaro: dogmatica, morale e Sacra Scrittura d’abord, ma anche un ampliamento della storia ecclesiastica e del diritto, il re-inserimento degli insegnamenti di eloquenza sacra e di patristica, il rafforzamento di quelli di pastorale, di sociologia (che affiderà a Toniolo), di liturgia, arte, archeologia e geografia sacra. Il liceo passa da due a tre anni, con corsi di etica, storie civili e letterarie, matematica e computisteria; mentre nel ginnasio consente che vengano seguiti i programmi governativi. Una ristrutturazione che porterà di lì a poco il seminario pisano ad essere indicato tra i migliori d’Italia, durante le visite apostoliche volute pochi anni più tardi dallo stesso Pio X. E’ evidente qui lo sforzo del Nostro al fine di fornire ai chierici gli strumenti utili per confrontarsi positivamente con il mondo esterno. Ma questo scritto è anche l’occasione per Maffi di precisare la sua personale posizione: uomo di mediazione, non si sente né vicino ai novatori né ai conservatori ad ogni costo. E, attenzione, siamo nel 1905, quando affermazioni del genere ancora non destavano eccessivi sospetti o eccessiva riprovazione, Maffi scrive queste parole: “non è della data, è della bontà delle cose che importa giudicare. Se il nuovo è buono, sia il benvenuto […] vi è una pagina della storia da correggersi, un versetto nelle Ss. Scritture da interpretarsi in nuovo modo, un’opera di un Padre da rifiutarsi apocrifa? Oh perché non lo faremo?”27. E’ questa, mi pare, una chiara spia dell’atteggiamento positivo di Maffi nei confronti dei portati della critica storica e letteraria, applicate anche ai testi sacri, critica che aveva nelle scuole tedesca (di parte perlopiù protestante) e francese (l’Institut catholique di Parigi, diretto da mons. D’Hulst, i nomi di Loisy e di Duchesne) i suoi capisaldi e che già da qualche anno dava i suoi frutti, pur meno omogenei e più variegati, anche all’interno del mondo ecclesiastico italiano (Giovanni Semeria, Salvatore Minocchi, Ernesto Bonaiuti e Giovanni Genocchi, per fare solo i nomi più noti tra i cosiddetti modernisti).

Possiamo dire che oramai la gran parte degli aspetti del modernismo sono stati sviscerati dalla recente storiografia, a partire dagli studi pionieristici (e pre-conciliari) del compianto Pietro Scoppola sino ad arrivare a quelli del Centro studi di Urbino diretto da Lorenzo Bedeschi, anche lui da poco scomparso. E’ tanto più importante richiamare comunque una sorta di terza via, che pare quella adottata da Maffi, tra l’intransigentismo degli ambienti romani e le turbolenze più o meno manifeste di una parte, pur esigua, del clero italiano. Così come la recente storiografia invita a riflettere e distinguere sui personali convincimenti dell’episcopato dell’epoca, espressi come nel caso di Maffi nella corrispondenza privata, e l’atteggiamento tenuto pubblicamente. Le visite apostoliche compiute dai delegati di Pio X in diocesi di Pisa, studiate da Giovanni Vian, documentano pur esse un arcivescovo teso più al recupero dolce e persuasivo del clero in via di traviamento, piuttosto che alla condanna e all’allontanamento, fonte di scandalo e a volte di fuoruscita dall’ambito ecclesiale. Non fu, la seconda parte del pontificato di Pio X, periodo facile e sereno sia per lui sia per il suo clero. Maffi, accusato dai giornali intransigenti di modernismo, e come lui, e più ancora di lui il confratello Andrea Carlo Ferrari, arcivescovo di Milano (ora, per inciso, beatificato da Giovanni Paolo II nel 1987), ma anche Pulciano a Genova, Svampa a Bologna, si trovano in situazioni a volte imbarazzanti, e a loro la Santa Sede guarda con sospetto e francamente con scarsa simpatia, come documentato in apertura del nostro contributo. Eppure Maffi è netto, Comunicando la enciclica «Pascendi» al clero di Pisa e San Miniato (di cui era amministratore apostolico): “pietre fondamentali” della Chiesa sono “la parola dei vescovi, le decisioni delle congregazioni, la Tradizione dei Padri e della Scuola, le Sante Scritture; “pietra angolare” è il pontefice28. Ai loro insegnamenti i fedeli non possono che obbedire. In realtà, Maffi riconduce, secondo uno schema che vedremo tra poco innervato nelle sue posizioni più salde, gli errori del modernismo, al quale nega l’attributo di scienza, alle “tendenze malsane della nostra età”, allo svilimento dell’autorità “diluita nel popolo”, al prevalere della scienza sulla fede29. Insomma, immoralità, socialismo, scientismo, secondo un ordine forse non casuale, sono i mali della società contemporanea, mali dai quali anche i preti sono stati infettati. Ma da questo Maffi non giunge a concludere, come del resto non fece Pio X, pur nella diversità delle posizioni di partenza, che la condanna del modernismo debba sfociare in un rinnegamento dell’impegno scientifico: “né per questo, o fratelli, noi temeremo di aver rinunciato alle scienze [che saranno] sempre nostro pascolo e delizia”30, rassicura nel medesimo scritto.

Quattro anni dopo, torna sul tema, comunicando il motu proprio papale sul giuramento anti-modernista, rinfrancato dall’aver ottenuto tale impegno da tutti i sacerdoti della diocesi. Significativamente, lega il modernismo al giansenismo: entrambi condannati solennemente dalla Chiesa, ma non ipso facto escludenti dalla comunione ecclesiale. Nella storia della Chiesa, infatti, si è potuto essere simpatizzanti del giansenismo senza per questo considerarsi fuori dall’istituzione: “un’eresia condannata è un esercito sconfitto [scrive]; ma sconfitto non vuol dire distrutto né scomparso”31. Pare questo un monito anche nei confronti degli ambienti vaticani e forse una sottile critica a come è stata gestita tutta la questione. Il giuramento è fondamento non solo della Chiesa, ma anche del vivere civile, e porta gli esempi del suo uso all’interno del mondo accademico, di quelle forense, dell’esercito, degli organi rappresentativi32: questo pare sia sufficiente per acquietare gli animi e sopire le coscienze. Il suo forte richiamo al “primo dovere” dell’obbedienza può però anche essere retrospettivamente letto come un tentativo di insinuare un dubbio in chi si accontenta di un giuramento estrinseco: non valeva la pena cercare di recuperare i traviati con la “docilità” e l’amorevolezza, alle quali spesso si richiama nei suoi scritti, piuttosto che con le condanne e le esclusioni? Del resto, già in uno scritto redatto in occasione della visita della diocesi a Roma in occasione del giubileo sacerdotale di Pio X, nel 1908, indica quale secondo lui deve essere il faro di ogni azione, ecclesiastica e laica: “ si scrive e si disputa molto oggidì sul clero, sui suoi bisogni, sull’indirizzo dei suoi studi, sulle sue missioni sociali: ottime cose”, ribadisce, e che l’hanno sempre visto in prima linea nello stimolarle, ma senza dimenticare che “primo bisogno è Gesù, primo studio il Crocifisso, prima missione il Vangelo”33.

Maffi resta comunque fortemente preoccupato del fatto che le sanzioni papali possano essere malamente interpretate: eccolo dunque tornare con insistenza sulla necessità di comprendere che Pio X non ha inteso con i suoi atti mettere a tacere gli studi, piuttosto ha invitato alla moderazione, alla prudenza e al rispetto della tradizione scolastica neo-tomista. Di nuovo, e in maniera tranchante, il nostro presule individua l’origine di tutto il male in quella genealogia degli errori che prende corpo nel primo Ottocento e che troverà la sanzione definitiva nel Sillabo piano del 1864. Maffi, diversamente però dalla tradizione canonica che fa scaturire tutto il male dalla Rivoluzione francese, la retrodata di circa due secoli, in linea con i suoi interessi scientifici. E’ dall’epoca della cosiddetta rivoluzione scientifica, quella che ha tra i suoi protagonisti Galilei, per intenderci, è “da tre secoli [che] si lotta per far sola sovrana la ragione”e invece si è sempre andati incontro a continui fallimenti. Da qui, attraverso il cruento passaggio della rivoluzione di fine Settecento e poi l’evento orribile della Comune parigina del 1871, di cui avrà senz’altro inorridito in seminario, una volta entrato, insieme agli altri chierici, nascono i mali della società contemporanea: sono temi che ritornano quasi ossessivamente in molti luoghi dei suoi scritti, laddove insiste anche in modo macabro sugli efferati atti compiuti in quelle occasioni e sull’odio fomentato nei confronti della religione e del clero. “Il sistema non vi è nuovo, vi è anzi famigliare: ricordate l’uso che n’avete fatto nelle rivoluzioni di Francia”; “Danton sale il patibolo e là aspetta Robespierre. Suicide le rivoluzioni”: così nella lettera pastorale del 191034. Ma dalla rivoluzione risorge più rinvigorito il cattolicesimo, con i suoi adepti accolti anche laddove prima erano osteggiati, in Inghilterra, in Germania, in Russia, nelle Americhe. Mi pare abbastanza ovvio che la conoscenza del periodo rivoluzionario non possa non essere legata all’interesse manzoniano per lo stesso periodo35. Non dimentichiamo poi che la lotta con la Francia laicista si era rinfocolata pochi anni prima, con le leggi di separazione Chiesa-Stato, alle quali Maffi accenna nella sua pastorale del 1905, quando scrive “dalle scuole, dai consigli, dalle società, dalle famiglie, da troppi cuori Gesù Cristo è respinto”36. Laicismo, scientismo, socialismo, ateismo fanno della Chiesa una cittadella assediata. Questa immagine, che ricorre quasi ossessivamente nelle pagine di Maffi, perché evidentemente inoculatagli negli anni pavesi di formazione, si esprime fin nei titoli dei suoi scritti pastorali. La lettera del 1912, I confini delle persecuzioni, è esplicita al riguardo: partendo, con una buona dose di anti-giudaismo, del resto moneta corrente in quegli anni, dalla passione e morte inflitta a Gesù dagli ebrei, lega le persecuzioni di epoca romana a quelle inflitte alla Chiesa da Giuseppe II, da Napoleone, da Luigi Filippo; enumera tutti i vulnera portati al mondo ecclesiale, l’eliminazione della religione dalle scuole, le leggi eversive contro le corporazioni religiose; i cristiani banditi, “nemici della patria, sovversivi, rivoluzionari, agitatori, oscurantisti”37. Due anni più tardi, rievocando il centenario costantiniano del 1913, ha modo di puntualizzare la superiorità della Chiesa sullo Stato: “Costantino non concesse, non donò nulla alla Chiesa ed a noi [permise solo] il riconoscimento del diritto delle anime alla libertà”. Ma soprattutto di individuare lucidamente il più temibile avversario della Chiesa, in un certo senso anticipando le riflessioni sugli stati totalitari che avrebbero devastato l’Europa di lì a pochi anni: il nuovo paganesimo (usa proprio questa espressione, che fu molti anni dopo anche di Pio XI) è legato al rafforzarsi del dio-stato: nell’esercito, nella scuola, in famiglia, nei costumi. Quello della Chiesa, rispetto alla sacralizzazione e alla divinizzazione del potere statuale, si giustifica dunque come un grido di libertà, l’unico baluardo contro il definitivo annientamento dell’”uomo” e del “cittadino”: “dateci la libertà, che è nostro diritto e nostra conquista”, invoca autorevolmente Maffi nei confronti di potenze che stanno velocemente precipitando verso la catastrofe della Grande Guerra38.

Come si coniuga questa critica forte dello statalismo con il patriottismo tradizionalmente attribuito a Maffi e con la sua vicinanza alla Casa regnante? Direi con la sottomissione dello Stato alla Chiesa, con la preminenza di quell’instaurare omnia in Christo, che fu la cifra del pontificato di Pio X, e che sarà ripreso da Pio XI sotto la forma della regalità di Cristo nel 1925, che vede ben due interventi di Maffi, uno per l’anno santo, l’altro per presentare ai diocesani l’enciclica piana Quas primas dell’11 dicembre di quell’anno39. Se privatamente, e limitatamente al mondo ecclesiastico, il cardinale ha potuto esprimere perplessità sul modo di agire di Roma nei confronti del modernismo, pubblicamente, ma senza dubbio anche intimamente, la sua adesione al programma di riconquista cattolica della società è completa e sincera. Si può trattare di differenti modi di utilizzo degli strumenti per raggiungere l’obiettivo, ma il fine resta uno, e direi per tutto l’espiscopato maffiano. Lo testimonia la lettera pastorale immediatamente successiva all’enciclica piana, quella cioè del 1904, in cui invita i fedeli a “ricopiare Gesù Cristo [a] vestirsi di Gesù”, attribuendogli tre caratteristiche che in fondo sono anche quelle che animeranno il suo impegno pastorale: “conquista, paternità, regno”. Ri-conquista della società sempre più secolarizzata; ma con un atteggiamento paterno, amorevole, aperto alla mediazione; ma sempre all’interno di una netta affermazione del supremo potere della Chiesa sulle vite e sulle coscienze del popolo cristiano40.

Lo testimonia una delle lettere pastorali più citate e significative, quella del 1920, dall’altrettanto significativo titolo di Restaurazione. Restaurare un mondo che è da poco uscito dalla tragedia della guerra; che si dibatte nelle violenze del cosiddetto “biennio rosso”; che ha visto inverarsi il timore del socialismo reale. E quale il filo ideale al quale Maffi si riallaccia in apertura del suo scritto pastorale? Proprio il programma piano di inizio pontificato. Di fronte alla sempre più massiccia partecipazione popolare alla gestione della cosa pubblica, lui uomo di un altro secolo, pur aperto alle novità, sembra ritrarsi spaventato: scrive infatti di temere le istituzioni senza virtù, e in particolare “le rappresentanze del popolo nelle amministrazioni, nelle aule legislative, nelle sale severe della giustizia”41. Non è l’opzione per una gestione elitaria del potere, piuttosto è il tentativo di arginare fenomeni che non possono che sfociare nel socialismo e quindi nella destabilizzazione del quadro autoritativo nel suo insieme, al quale l’uomo d’ordine Maffi non può e non vuole rinunciare; così come non può rinunciarvi l’ecclesiastico Maffi, temendo una persecuzione ben più dura e definitiva rispetto a quelle subite dalla Chiesa in passato. Ecco dunque l’accettazione, pur a malincuore, pur con molti distinguo, del meno peggio: dapprima lo Stato liberale, di lì a poco, le illusorie garanzie (ma reali perlomeno sino a poco prima della morte di Maffi) offerte dal fascismo. Che il pericolo maggiore sia rappresentato dal trionfo del socialismo (di comunismo si potrà parlare di lì a un anno, con la nascita del partito a Livorno) è provato poco dopo dal riproporsi della nota genealogia protestantesimo-bolscevismo, senza citare il liberalismo. L’unica salvezza rimane la Chiesa, che deve porsi come guida di un progetto di globale ristrutturazione della società, anche con il sostegno degli Stati liberali: è del resto il tema centrale del pontificato di Benedetto XV, che è riuscito con il suo magistero e con gli aiuti concreti forniti alle popolazioni sofferenti a riaccreditare la Chiesa come autorità spirituale superiore agli stati coinvolti nel conflitto. Maffi va oltre, invitando a “non confondere il cristianesimo colla, anzi colle cristianità […] la religione vera s’identifica col cristianesimo, e il cristianesimo vero col cattolicismo”. Sono temi di lungo corso all’interno della teologia cattolica, non completamente abbandonati neppure in epoca post-conciliare (di Vaticano II, intendiamo). Ma qui l’arcivescovo approfondisce il suo pensiero con un preciso riferimento alle tesi weberiane, rese pubbliche proprio negli stessi anni in cui si diffondeva il motto piano, tra il 1904 e il 1905: a chi obietta che i paesi progrediti non sono quelli cattolici e che il progresso è stato osteggiato dalla Chiesa, Maffi risponde che intanto le nazioni più progredite “non sono quell[e] né di Budda, né di Maometto, ma sono pur sempre di cristiani”, e di cristiani che prima furono cattolici. “Misurate il cristianesimo di un popolo e voi ne avrete misurata la vera civiltà”: qui, ma anche in altri luoghi, Maffi si mostra uomo profondamente occidentale, scarsamente consentaneo con le aperture, che furono soprattutto proprio di Benedetto XV, nei confronti delle altre culture, nel rispetto delle tradizioni locali e operando un’azione netta di sganciamento dai nazionalismi colonialistici, quello francese in primis. Tanto è vero che la lettera pastorale immediatamente successiva, dedicata nel 1921 al tema delle missioni, sembra quasi extra-vagante all’interno delle riflessioni pastorali maffiane e sin dal titolo, Ai fedeli per gl’infedeli. Missioni, pare tradire intenti prettamente proselitistici; vi si fornisce comunque un giudizio sostanzialmente positivo sull’operato delle potenze colonizzatrici e sul progresso tecnologico da loro propiziato, progresso che ha fatto “piccola la Terra”42. Maffi è italiano, insomma, tutt’al più europeo, ma dell’Europa cattolica, diffidente nei confronti del protestantesimo nelle sue varie forme, quasi ostile nei confronti degli “scismatici” ortodossi, come li definisce. Ma, come dire, tout se tient: nel clima di contrapposizione forte che ha contraddistinto la sua esperienza di vita, per l’alto ruolo e per la responsabilità ai quali si sente legato, soprattutto in scritti rivolti al pubblico, ritiene importante veicolare con precisione il messaggio su dove esattamente si colloca il male e dove invece il fedele può ricevere aiuto, protezione, conforto. Tanto è vero che, in chiusura della lettera del 1921, Maffi ricorda come esistano anche le Indie “di qui”, riprendendo un’espressione tipica dei missionari gesuiti della Controriforma, e perora la “trasformazione di noi in missionari per noi”, quasi ad indicare come il compito primario sia ora quello di recuperare al cattolicesimo il mondo occidentale che si è troppo rapidamente secolarizzato43. E recuperarlo anche con il concorso delle strutture dello Stato liberale perché è assodato che ora il nemico comune è diventato il bolscevismo. Maffi non a caso chiude il suo scritto ricordando un discorso di Vittorio Emanuele Orlando alla Camera dei deputati il 7 aprile 1916, in cui l’esponente liberale invitava a considerare “come un grande problema nazionale la questione della fede”44. Una fede che non può essere che cattolica: “tutte le religioni, fuori della nostra, sono false”, ribadisce crudamente proprio nella pastorale di quell’anno. Dal diffondersi di versioni spurie del cristianesimo derivano la licenza nei costumi e la sensualità imperante. E ne porta esempi storici precisi: Lutero concupito da Caterina Bora, Enrico VIII “rimorchiato da Anna Bolena”, scrive con espressione forte, da fondo di giornale45.

Il tema della destabilizzazione del quadro sociale torna quasi ossessivo negli scritti di Maffi, come nella lettera pastorale di inizio 1923, a pochi mesi dalla Marcia su Roma. L’obiettivo da centrare per lui è quello del ripristino di una fonte autoritativa, meglio la Chiesa, se proprio si deve lo Stato, ma sotto la guida della Chiesa. “Non c’è più autorità […] divisa tra tutti, naturalmente l’autorità rimase poca e piccola per ciascuno [mentre] è da Dio che dipend[e] ogni autorità”46. Nuovamente polemico si mostra nei confronti del popolo come fonte di sovranità: “legittimate [così] le rivoluzioni, le agitazioni”47. La nuova piega che avevano assunto le cose in Italia è invece accolta con favore, come fu all’inizio per molti, soprattutto in ambito ecclesiastico: come non plaudire al ricollocamento del Crocifisso nelle scuole?, è il tema della lettera pastorale del 1924, anche se non dimentica che i nemici, “i figli di Satana e le sette”, come li chiama esplicitamente, non sono scomparsi, stanno sempre in agguato48. Il suo programma di restaurazione cristiana della società prosegue nell’ultima parte del suo episcopato, attingendo alla fonte autoritativa per eccellenza, i comandamenti mosaici. Ma già il vero volto del fascismo si era manifestato e Maffi iniziava a scorgerne i caratteri incompatibili con il cattolicesimo. Forse quindi non è un caso che la lettera pastorale del 1925, a pochi mesi dal delitto di Giacomo Matteotti, sia dedicata al quinto comandamento e che l’arcivescovo vi rilevi lo scarso valore attribuito alla vita umana e ne scorga l’origine nella “funesta eredità di guerra [e negli] odi acri e violenti tra le classi e i partiti”, ai quali neppure la normalizzazione fascista era riuscita a porre fine, anzi ne aveva essa stessa suscitato di nuovi, anche contro le strutture associative cattoliche. Stare con la Chiesa significa invece aver rispetto per la vita. Alto è il suo appello finale, in tempi tristemente tragici: “il prossimo è sacro; rispettiamolo, con ogni scrupolo, nel suo onore, nella sua vita, nei suoi diritti, nelle sue sostanze”49. L’autorità di Cristo e della sua Chiesa è per sempre, non è caduca come quella umana, si estende “dall’Eden al Sinai al Calvario”, come sottolinea nella pastorale del 1928. Vi esalta Cristo supremo “legislatore e restauratore”, in un clima sempre più favorevole alla conclusione dell’annosa Questione romana e vicino alla stipula dei Patti lateranensi, per il cui obiettivo pare Maffi avesse sotterraneamente lavorato da una decina d’anni, ma è ipotesi che necessiterebbe di precisi riscontri documentari, benchè già i riscontri offerti da Mario Andreazza, sia circa i documenti conservati presso l’archivio personale dell’arcivescovo, sia per quelli depositati presso l’ASV, parlino quantomeno di un costante interessamento per la risoluzione del contrasto Stato italiano-Chiesa cattolica50. Per giungere infine alla lettera del 1929, in cui esalta nuovamente l’unicità dell’autorità divina51. Tra il 1926 e il 1929, è chiaro il percorso delle riflessioni di Maffi: il fascismo può sì favorire in qualche modo il progetto di restaurazione cristiana della società, e ne ha dato prove concrete; ma deve pure essere arginato nelle sue manifestazioni estremistiche riaffermando con forza, accanto al mito dell’italianità, la compattezza delle truppe cattoliche riunite non sotto l’egida di alcun potere terreno, ma sotto quella di Cristo e del suo vicario in terra. “Integri, omogenei e veramente tutti d’un pezzo, cattolici, saremmo più cattolici; italiani, più italiani; e maggiormente allora avrebbero da rallegrarsi di noi la patria e la Chiesa”, afferma Maffi nel 192652. All’indomani dell’emanazione delle prime leggi fascistissime, l’arcivescovo di Pisa pare essersi reso conto che il regime che si va instaurando impone più ancora che non il vecchio Stato liberale la fine delle polemiche all’interno del mondo cattolico e la compattezza di tutti i fedeli intorno alla figura del pontefice, che ha oramai pienamente riconquistato, grazie al lento lavorio di Benedetto XV, una statura internazionale, slegata dalla oramai stantia Questione romana e circonfusa invece di una rinnovata aura di sacralità, tutta spirituale.

La strategia di riavvicinamento allo Stato liberale, o forse ancor di più alla monarchia come elemento unificante della patria, può esser fatta risalire in Maffi agli anni precedenti lo scoppio della Grande Guerra. Quel che è certo è che, sia per l’impresa libica del 1911, sia per il coinvolgimento del paese nel 1915, l’arcivescovo si pone apertamente dalla parte dei neutralisti cattolici alla Grosoli, per intenderci, che sostengono fattivamente il governo una volta deciso l’intervento. “Soldati, partite! Vi accompagnano le preghiere nostre e il nostro amore: il Signore è con voi; sieno con voi le sue vittorie”, è l’auspicio e la benedizione di sapore vetero-testamentario con la quale Maffi accompagna le truppe che partono per la Libia53. Vanno del resto, secondo il pensiero maffiano, a ricivilizzare quell’Africa settentrionale che altrove aveva definito “bella finché scritta sugli altari di Agostino e di Cipriano, e lagrimevole poi”54. “Nessuna guerra senza morti e senza feriti […] ma supplicando a Dio perché nostra sia la vittoria e pochi cadano dei nostri cari”, aggiunge quando è il momento di partire per il fronte nel 191555. Senza dimenticare che al Te Deum della vittoria, celebrato nella primaziale il 10 novembre 1918, erano presenti pressoché tutti i Savoia56.

Del resto, immagini e metafore militari e militaresche ricorrono spesso negli scritti del Nostro. E pare che D’Annunzio stesso abbia dedicato proprio a Maffi alcuni versi tratti dalla sua Merope: “Ma pur ieri / tuo Vescovo il cor di Daiberto / balzò, verso i trofei de’ Cavalieri”57. Nel clima di restaurazione cristiana della società, che abbiamo visto caratterizzare contemporaneamente l’inizio del pontificato di Pio X e dell’episcopato di Maffi, quello di quest’ultimo è un appello all’azione decisa e agguerrita: “è tempo di battaglia, ed urge la difesa”, sono le sue parole; incita i cristiani a farsi “soldati di Cristo” e attribuisce al clero un ruolo di guida: “se noi [sacerdoti] siamo capitani, voi siete i soldati”, scrive nel 190558, aderendo del resto alle indicazioni papali che proprio in quel torno di tempo erano intervenute pesantemente a sconfessare la Lega Democratica Nazionale di Romolo Murri e a sciogliere l’Opera dei congressi, rivendicando autorevolmente un ruolo direttivo nell’ambito del movimento sociale cattolico. Del resto l’invito alla battaglia non viene rivolto solo al laicato, anzi prioritariamente, sin dalla prima lettera ad clerum suum del 15 agosto 1903, ancora da Ravenna, sono i sacerdoti che ne vengono investiti. Chiamati cioè ad essere non solo pastores, ma anche duces, per combattere l’ateismo, per salvaguardare i buoni costumi e la famiglia, per difendere la fede e fare proseliti, “in tanto bello contra catholicum ministerium undique inflato”. Se le chiese si svuotano per la guerra continua che viene condotta contro la Chiesa, li invita a scendere nelle strade, in particolare a combattere i “socialistarum dogmata” e, riprendendo la famosa espressione leoniana, ma evidentemente riferita al fronte opposto, a difendere il popolo cristiano dai “rerum novarum cupidos seductores”59.

Tornando al clima bellico vero e proprio e all’atteggiamento dei cattolici nei confronti del conflitto, non stupisce che Maffi, Comunicando la prima enciclica del S. Padre Benedetto XV il 17 novembre 1914, liquidi piuttosto velocemente il tema del dolore del pontefice per lo scoppio della guerra per passare invece a trattare della guerra interna alla società “nei contatti e nei contrasti delle classi, e persino nel segreto delle famiglie”60. Sono infatti i temi della corruzione morale, fomentata dalla stampa e dai libri irreligiosi; delle mode invereconde, veicolate dai teatri, dai cinematografi, dai caffè e dai ritrovi libidinosi, dai settimanali sconvenienti, dalla letteratura sensuale e dall’arte sconcia, che dominano le pastorali del periodo di guerra61. Quasi a significare che se guerra c’è e se provoca tante devastazioni, la responsabilità è del mondo occidentale che si è allontanato dalla religione. La pastorale del 1917 appare invece più piegata alle ragioni pacifiste del pontefice: siamo però in limine alla famosa dichiarazione della guerra “inutile strage”, del 1° agosto di quell’anno, e certo Maffi doveva essere a conoscenza degli intensi rapporti diplomatici messi in atto dal Vaticano nei mesi precedenti per giungere ad una soluzione del conflitto. Depreca infatti le accuse rivolte dagli opposti schieramenti al papa “schernito se domanda, schernito se non ottiene” e insiste sui “diritti delle nazioni e le aspirazioni legittime dei popoli, anche dei piccoli popoli”62, con uno sguardo preoccupato rivolto in particolare alla situazione dell’Europa orientale, e con un sostanziale accordo nei confronti del pronunciamento del neo-ri-eletto presidente americano Woodrow Wilson, del dicembre dell’anno precedente, laddove si auspicava il riconoscimento bi-partisan di alcuni basilari elementi di diritto internazionale sui quali far convergere le aspirazioni delle potenze belligeranti. L’addolcirsi delle posizioni di Maffi, rispetto allo strenuo patriottismo di qualche anno prima, non è però disgiunto da una chiara affermazione dell’apporto dei cattolici alla salvezza della patria, foriero, nella visione di lungo periodo dell’arcivescovo, di un nuovo clima nell’immediato e oramai prossimo dopoguerra: “noi, figli della pace, allorché fummo chiamati sul campo, siamo corsi e vi siamo stati eroi”, sottolinea a scanso di equivoci63. “E’ il tempo della concordia e dei fatti”, conclude, con un auspicio che rimarrà tristemente inascoltato64.

Pur nelle contrapposizioni all’interno del fronte cattolico, pur con tutti i distinguo circa i metodi ecclesiastici di controllo del clero, pur con differenti visuali relativamente agli utilizzi del movimento cattolico, il faro che illumina costantemente le riflessioni pastorali di Maffi, dall’inizio alla fine del suo episcopato, oltre naturalmente al fare di Cristo il centro di ogni vita cristiana, è la devozione al papa65. Ci possono essere divergenze di opinioni riguardo alla prassi pastorale, ma di fronte al successore di Pietro deve splendere fulgida l’obbedienza del laico e dell’ecclesiastico. Maffi vi insiste in un’omelia del 1908, in tempi di contestazione del magistero pontificio, e riprende il tema nella lettera pastorale del 1913. Il primato di Pietro “dice non ordine appena, ma grado ancora e primo e supremo potere”, sottolinea l’arcivescovo che pare voler trasferire la regalità di Cristo in quella del suo vicario, lui che si è formato negli anni della solenne affermazione dell’infallibilità pontificia66. E infatti ne dà una sapida illustrazione: “brancicante nelle tenebre e troppo facile agli errori, l’uomo da sé non avrebbe potuto assicurare il vero, e Dio, come in trono, s’è collocato verità in lui: ecco l’infallibilità”. “Nel Tabernacolo il cuore, nel Vaticano la parola di Gesù”, è lo slogan lanciato dal Nostro, la cui precedente esperienza giornalistica, unita allo studio della retorica, è evidentemente servita a saper sapientemente utilizzare gli strumenti del comunicare, in particolare negli scritti dedicati ad un ampio pubblico67. Più giocato su un tono paternalistico lo scritto del 1913, addensandosi in quei mesi i venti di guerra. Il papa, vi si scrive, è “il guardiano del dogma e della morale, il consigliere […] il capo [ma soprattutto] il padre […] Ai cattolici che sentono sibilar la guerra […] ecco la parola: abbandonatevi sulle braccia del papa, che son di padre”68. Se vogliamo, l’arcivescovo di Pisa sembra qui anticipare quell’addolcirsi della figura papale, sicuro rifugio di fronte alla violenza degli stati in guerra, che non rispettano l’incolumità dei propri cittadini, che sarà una delle cifre distintive del pontificato benedettino. Quasi una sorta di programma per il cardinale di Pisa, destinato di lì a poco ad entrare in conclave e ad esserne tra i protagonisti, pur soccombente.

Due temi di fondo accompagnano infine le riflessioni pastorali di Maffi durante tutto l’arco del suo episcopato: l’attenzione al laicato e alle sue forme di organizzazione; l’istruzione e l’educazione religiosa come base del farsi cristiano dell’individuo. Abbiamo in più punti accennato al diretto coinvolgimento del presbitero prima e dell’arcivescovo poi, in qualità di organizzatore, di consigliere, di mediatore, all’interno di quel variegato movimento cattolico che va da Toniolo a Grosoli a Murri al giovane Gronchi. Già commentando l’enciclica piana Il fermo proposito, relativa alla riorganizzazione dell’Azione cattolica, Maffi chiama a raccolta i laici cattolici perché siano “i veri, i primi, i più efficaci coadiutori” del progetto dell’instaurare omnia in Christo. Naturalmente sempre sotto la guida dei sacerdoti e dei vescovi che però, proprio perché “elevati sopra gli altri uomini”, devono mantenersi alieni dall’immischiarsi negli interessi materiali, limitandosi alla direzione e al controllo delle iniziative laicali69. Ma è con la Prima settimana sociale dei cattolici italiani, tenutasi a Pistoia nel settembre del 1907, che il lungo lavoro messo in opera da Maffi e da Toniolo raggiunge il suo apice. Non senza ragione Silvano Burgalassi, nelle pagine conclusive del testo di Mario Andreazza sui rapporti tra i due, istituisce un legame tra la Pascendi di pochi giorni antecedente e l’iniziativa pistoiese, quasi da lontano si volesse rispondere al papa che né tutto il laicato né tutto il clero potevano essere identificati con il campo a favore o con quello contro il modernismo, ma che esisteva, come abbiamo sottolineato a più riprese, anche una sorta di terza via70. “Siamo qui per far avanzare l’applicazione del Vangelo nella vita della società”, esordisce Maffi e lucidamente individua pure l’obiettivo finale del movimento cattolico: “scopo ultimo e finale di tutto il nostro lavoro sia il regno di Dio – che Dio regni nelle anime colla fede, colla giustizia, colla verità”. L’arcivescovo mostra per la verità di avere una concezione elitaria del movimento: oltre alle guide spirituali rappresentate dai sacerdoti, è necessario che le organizzazioni siano guidate da pochi laici di vaglia, sui quali poter sempre fare affidamento. “Gli apostoli rimarranno gli apostoli, le turbe le turbe”, chiosa, e le turbe devono essere indirizzate e controllate. E conclude con un forte appello di sapore militaresco: “qui è lotta e noi un esercito [grande, disciplinato, forte, organizzato]. Cattolici, contiamoci e ordiniamoci”71. L’arcivescovo pare voler inviare un segnale di fiducia a Roma e allo stesso tempo un richiamo forte di coesione al mondo cattolico, percorso da venti di divisione.

Per tale coesione, punto focale rimane però la libertà di insegnamento, la formazione dei piccoli e dei giovani in un contesto nel quale la religione non venga osteggiata, ma riverita e ossequiata. In più luoghi ritorna negli scritti di Maffi la rivendicazione dei meriti della Chiesa in campo educativo, meriti che invece dall’Unità in poi sono stati sempre più misconosciuti. “Meglio avere degli analfabeti, che degli alfabetismi (passi in nome) che abbiano imparato a leggere su un libro di Chiesa”, è il salace commento del Nostro nel momento in cui ripercorre i vulnera portati dallo Stato liberale alle istituzioni educative cattoliche72. In realtà, anche nel campo opposto, vi erano dei liberali che riconoscevano l’importanza dell’insegnamento della religione come uno dei cementi dell’ordine e della stabilità sociali, nonché dell’accettazione delle fonti autoritative. L’insistenza di Maffi, e non solo sua all’interno del mondo ecclesiastico, è quella di legare educazione scolastica ed educazione domestica e familiare, e questo forse preoccupava maggiormente il fronte liberale. Si legava cioè al tema, di lungo corso nella trattatistica cattolica, ripreso anche nell’ultimo lavoro di Francesco Traniello, della famiglia non solo come nucleo fondante della società, ma anche come cellula base di quella nazione cattolica che dai primi decenni post-unitari si era posta molto spesso in antitesi alla nazione che faticosamente cercavano di costruire i gruppi dirigenti dell’Italia unita73. “Genitori dunque, badate bene: il compimento alla scuola lo dovete dar voi!”: la famiglia deve cioè operare un’azione di controllo e sui maestri e sui fanciulli74. Se è vero, come è vero, che la scuola costituisce uno dei punti fondanti dell’identità nazionale, il fatto che lo Stato non consenta il libero esplicarsi dell’insegnamento religioso impone di individuare altre agenzie educative, come si direbbe oggi con termine moderno; e anche qualora l’insegnamento della religione venisse consentito, il controllo non può venire intermesso a fronte di un corpo docente non affidabile.”Via Dio, ed ecco tolta ogni affermazione di diritti, e tolti i cardini dell’ordine e della società”, e di conseguenza ecco in agguato il pericolo di anarchia, le minacce alla proprietà, la prepotenza dei giovani, la violenza diffusa75. E’ invece proprio intorno all’insegnamento religioso che Maffi individua il punto di saldatura tra lo Stato liberale e la Chiesa, al fine di contrapporsi vittoriosamente agli ormai comuni nemici, in primis il socialismo.

Concluderei tornando all’inizio. All’inizio dell’episcopato di Maffi a Pisa e a quella prima lettera che inviò ai suoi nuovi diocesani da Ravenna, il 15 agosto 1903, e dove è racchiuso in un certo senso il fulcro del suo programma pastorale. Agostino Riboldi viene individuato in apertura come il nume tutelare dell’apostolato di Maffi a Pisa: e questo significa, lo ripetiamo, pur in una linea di sostanziale intransigentismo, un’apertura al mondo degli studi, al sociale, alle organizzazioni cattoliche. Il neo-arcivescovo prende poi spunto dalla posizione della cattedra primaziale tra Battistero e Camposanto per sottolineare la centralità del vescovo come punto di congiunzione tra la nascita e la morte, tra la terra e il cielo. E questa elevata consapevolezza del suo ruolo, più volte richiamata, ha fatto giustamente evocare a Cinzio Violante, nella prefazione agli atti del primo convegno su Maffi, tenutosi a Pisa nel 1982, un atteggiamento “ierocratico” dello stesso76, ma col fermo proposito di porsi in qualità mediatore dei contrasti sorti all’interno della Chiesa locale e del laicato. Il papa, l’eucarestia, la Vergine i fari coi quali intende rischiarare il suo ministero episcopale. Anzi, a mo’ di captatio benevolentiae, rispetto alla particolare protezione accordata da Maria a Pisa, mette in campo la tradizionale rivalità con Livorno e ricorda di un terremoto che risparmiò Pisa e non Livorno. Se il fine ultimo deve rimanere la tensione verso il Regno di Dio, il suo essere “padre di anime” non gli impedirà, e insieme a lui tutti i suoi sacerdoti, di adoperarsi “perché a tutti sieno rese quelle giustizie individuali e sociali, che il vangelo domanda”. E’ la rivendicazione forte di un programma eminentemente sociale: diventare “padre dei popoli” perché “colla tenerezza, colle premure, colle preoccupazioni di un padre provvederemo alle difese che l’oggi impone e nuove risorse, nuove industrie, nuove strade saprà suggerire una viva carità”. Tre volte il nuovo: pur rimanendo forse uomo dell’Ottocento, pur mantenendo i necessari punti fermi figli delle aspre contrapposizioni della seconda metà di quel secolo, Maffi non si mostra pauroso di fronte alle sfide della modernità, quanto piuttosto convinto che vadano piegate al riconoscimento di quei valori supremi di cui il cattolicesimo, e la Chiesa di Cristo, rimangono i veri depositari. Ma soprattutto acquista valore profetico l’altra insistenza, quella sul ruolo paterno del vescovo che non vuole che nessuna delle sue pecorelle si travi e che, pur accettando e benedicendo la “varietà” e le “tattiche diverse” che vanno assumendo le forme di organizzazione del laicato, invita a riassumerle in uno sforzo di concordia che prepari l’inverarsi dell’obiettivo comune, quello cioè di una società che sia tota christiana e quindi perfecta come lo fu la mitica cristianità occidentale, secondo categorie che uniscono Leone XIII a Pio XI. Pur con i limiti che abbiamo sottolineato, non c’è dubbio che Pietro Maffi fu davvero una figura di notevole spessore nel panorama ecclesiastico, e non solo, dell’Italia primo-novecentesca e non sbagliò un giovane Eugenio Pacelli, segretario di Stato al momento della morte nel 1931, a indicarlo come “benemerito triplice causa: per scienza pastorale ministero”, come recita il titolo del nostro contributo, che è opportunamente tratto dal telegramma del futuro Pio XII.

1 Vian, 622.

2 Vian, 622n.

3 Fliche-Martin, XXII/1, 156.

4 Prefazione a F. Ingrasciotta, 7.

5 Vian, pp. 856-870.

6 Vian, 356n. Proprio Giuseppe Sarto, allora patriarca di Venezia, tra il 1902 e il 1903, ricorderà Riboldi come «un vescovo esemplare dello stampo antico, un apostolo, un amico dolcissimo», con espressioni ben differenti rispetto a quelle riservate un decennio più tardi al suo discepolo prediletto.

7 A. Gemelli, Prefazione a P. Stefanini, XII.

8 Così in P. Stefanini, p. 42.

9 M. Andreazza, Pagine di storia pisana (il cardinale Maffi e Galileo Galilei), Pisa 1969.

10 G. De Luca, ad vocem, in Enciclopedia italiana, XXI, Roma 1934. Gli farà eco anni dopo il successore sulla cattedra pisana Benvenuto Matteucci: Maffi è stato “il più completo vescovo della prima metà di questo secolo, per la vastità multiforme della sua cultura, per le sue qualità umane, umanissime, per le sue iniziative”, citato in F. Ingrasciotta, p. 96.

11 Del resto, fu Maffi a pronunciare in duomo a Milano il discorso in occasione del centenario della canonizzazione, l’8 settembre 1909, invitato dal card. Ferrari, in PM, I, San Carlo Borromeo, pp. 337-354.

12 PM, I, Prima visita pastorale, 1904.

13 Da Pio X l’11 dicembre 1904.

14 PM, I, Dopo la prima visita pastorale, lettera pastorale del 1908, p. 97.

15 PM, I, Dopo la prima visita pastorale, lettera pastorale del 1908, pp. 99-100.

16 PM, I, La ss. comunione frequente e quotidiana e la prima comunione dei fanciulli, lettera pastorale del 1911, p.

17 PM, I, Dopo la prima visita pastorale, lettera pastorale del 1908, p. 101-102.

18 Ne accenna L. Righi, Una porpora prestigiosa, Fiesole 1978, passim.

19 PM, II, Per il giornalismo cattolico in Italia, 4 aprile 1915, p. 351.

20 Ibidem, pp. 366-367.

21 PM, II, Il prete “granum frumenti”, 10 agosto 1914, p. 597.

22 Pisanae Ecclesiae Synodus XI, SEI, Torino 1921. Alla conclusione del sinodo, la diocesi verrà divisa in 21 vicariati foranei e la città in 4, secondo le indicazioni tridentine.

23 PM, II, Per la difesa del clero. Nell’adunanza per la Federazione delle associazioni del clero, tenuta in Pisa il 2 ottobre 1917, p. 624. Il quarto congresso dell’associazione sarà nuovamente celebrato a Pisa nel 1925. Cit. A. Erba.

24 PM, I, Inaugurazione degli studi nel Seminario di Santa Caterina, 10 gennaio 1905, p. 390.

25 Ibidem, p. 393.

26 Ibidem, pp. 396-397.

27 Ibidem, p. 399.

28 PM, I, Comunicando la enciclica «Pascendi» (al clero di Pisa e San Miniato), 12 dicembre 1907, p. 418.

29 Ibidem, p. 417.

30 Ibidem, p. 420.

31 PM, I, Il motu-proprio «Sacrorum antistitum», 28 gennaio 1911, p. 427.

32 Cit. P. Prodi, Il sacramento del potere.

33 PM, I, Comunicando la «Exhortatio ad clerum», 22 settembre 1908, p. ??.

34 PM, I, Chi sono-Chi siamo, lettera pastorale del 1910, pp. 124 e 133.

35 Cfr. F. Traniello, Rosmini, Manzoni e la Rivoluzione francese, in Democrazia e cultura religiosa. Studi in onore di Pietro Scoppola, a cura di C. Brezzi, C.F. Casula, A. Giovagnoli, A. Riccardi, il Mulino, Bologna 2002, pp. 19-31.

36 PM, I, Difendete Gesù, lettera pastorale del 1905, p. 61. Ancora nella pastorale del 1909, Per una chiesa a Marina [di Pisa], richiama quel triste paese che “si dibatte ora in prostrazioni umilianti” proprio perché ha allontanato la Chiesa da sé, in PM, I, p. 111

37 PM, II, I confini delle persecuzioni, lettera pastorale del 1912, pp. 37-39. Contro gli ebrei lancia i soliti anatemi: “fu rovina di libertà, di dignità e di patria per voi (e lo sarà lungo i secoli per tutti) l’odio a Gesù”, p. 16.

38 PM, II, Moniti del centenario costantiniano, lettera pastorale del 1914, p. 91. Maffi apre sottolineando il discrimine tra paganesimo e cristianesimo: “per la Grecia e per Roma l’uomo era fatto per lo Stato, il cittadino per la patria”, la novità di Cristo fu l’aver diffuso il messaggio che “sopra il regno di Cesare [vi era] un altro regno non de hoc mundo”, pp. 85-86.

39 PM, III, Per l’Anno Santo 1925 e Perché Cristo regni, rispettivamente alle pp. 677-696 e 755-782.

40 PM, I, Imitazione di Gesù, lettera pastorale del 1904, pp. 46 e 49.

41 PM, III, Restaurazione, lettera pastorale del 1920, p. 7.

42 PM, III, Ai fedeli per gl’infedeli. Missioni, lettera pastorale del 1921, p. 52.

43 Ibidem, p. 60.

44 PM, III, Restaurazione, lettera pastorale del 1920, p. 28.

45 PM, II, La propaganda della corruzione, lettera pastorale del 1916, pp. 131-132. Mette anche in guardia dal porre sullo stesso piano islamismo e cristianesimo, approfittando del momento di destabilizzazione dell’Impero ottomano sotto i colpi delle potenze occidentali.

46 PM, III, Espiazioni, lettera pastorale del 1923, pp. 131 e 135.

47 Ibidem, p. 136.

48 PM, III, Il Crocifisso ritorna, lettera pastorale del 1924, pp. 159-160.

49 PM, III, …quinto: Non ammazzare, lettera pastorale del 1925, p. 220.

50 M. Andreazza, Alle origini del movimento cattolico pisano, pp. 190-202. Sulla biblioteca e sull’archivio maffiani, cfr. G. Rossetti, Il cardinale Pietro Maffi, arcivescovo di Pisa, la sua preziosa biblioteca e il suo progetto di un monumento a Galileo, in Galileo e Pisa, a cura di R. Vergara Caffarelli, pp. 99-120.

51 … Primo: Non avrai altro Dio…, lettera pastorale per la quaresima del 1929, SEI, Torino 1929.

52 PM, III, Un’esclamazione e un proverbio, lettera pastorale del 1926, p. 226.

53 PM, II, Alle truppe partenti per la guerra libica, Pisa, chiesa dei Cavalieri, 11 ottobre 1911, p. 633.

54 PM, III, Il Crocifisso ritorna, lettera pastorale del 1924, p. 165.

55 PM, II, Per il trionfo delle nostre armi, Pisa, chiesa di San Francesco, 11 luglio 1915, p. 645.

56 PM, III, Al “Te Deum” della vittoria nella Primaziale di Pisa, 10 novembre 1911.

57 G. D’Annunzio, Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi. IV: Merope. La canzone dei trofei, 10-12, Mondadori, Milano 1964.

58 PM, I, Difendete Gesù, lettera pastorale del 1905, pp. 58 e 69.

59 PM, I, Epistola pastoralis ad clerum suum, 15 agosto 1903, pp. 22, 24, 26.

60 PM, II, Comunicando la prima enciclica del S. Padre Benedetto XV, 17 novembre 1914, p. 283.

61 E che continuano anche nel dopoguerra, vedi la pastorale del 1919, in PM, II, Per la dignità della parola e della vita, “contro la bestemmia e il turpiloquio”, p. 239.

62 PM, II, A offese di parole risposta di opere, lettera pastorale del 6 gennaio 1917, p. 197.

63 Ibidem, p. 192.

64 Ibidem, p. 201. Anche nella pastorale dell’anno prima, l’invito all’azione per i cattolici era stato netto: “il male è audace perché i buoni sono timidi e troppe volte anche vili”, in PM, II, La propaganda della corruzione, lettera pastorale del 1916, p. 170.

65 Cfr. A. Zambarbieri, La devozione al papa, in Fliche-Martin, XXII/2.

66 PM, I, Il papa, omelia, 1908, p. 259.

67 Ibidem, p. 263. Il richiamo ai fatti destabilizzanti del 1907 è esplicito nello svolgimento dell’omelia: l’anno precedente si è sentito in dovere di trattare il tema “secondando il richiamo di diversi fatti, sorti e svolti in mezzo a noi […] Altri fatti d’altro ordine, ma ancora intimi a noi” impongono ora di ritornarvi, p. 258. Di nuovo, nell’Indirizzo al S. Padre nel ricevimento del pellegrinaggio toscano, del 10 ottobre 1908, richiamando molti di pronunciamenti pontifici (Il fermo proposito del 1905, la Pascendi, la Exhortatio), ribadisce la sottomissione e l’obbedienza del popolo e del clero pisani, condannando duramente gli “spiriti superbi che la disciplina […] volevano infranta”, ibidem, p. 446.

68 PM, III, Il papa, lettera pastorale del 1913, pp. 50 e 63.

69 PM, I, Comunicando l’enciclica sull’Azione Cattolica, 5 luglio 1905, p. 462.

70 S. Burgalassi, Conclusioni, in M. Andreazza, Una pagina di storia pisana, ETS, Pisa 1997.

71 PM, I, Discorso inaugurale alla Settimana sociale di Pistoia, 23 settembre 1907, pp. 465, 467, 469, 471. La Pascendi viene promulgata l’8 di quello stesso mese.

72 PM, III, Il Crocifisso ritorna, lettera pastorale del 1924, p. 171.

73 F. Traniello, Religione cattolica e Stato nazionalePrefazione a C. Sagliocco, L’Italia in seminario.

74 PM, III, Il Crocifisso ritorna, lettera pastorale del 1924, p. 187.

75 PM, II, Due righe di catechismo, lettera pastorale del 1915, p. 123. Già nella pastorale del 1907, l’arcivescovo aveva sottolineato che l’educazione religiosa deve iniziarsi in famiglia, per poi continuarsi nella scuola, PM, I, Istruzione religiosa. Ma vedi pure quella dell’anno precedente, ibidem, Date Dio ai bambini, lettera pastorale del 1906.

76 C. Violante, Prefazione, p. VII.