Pisa

BENOTTO: «I MIEI PRIMI DUECENTO GIORNI DA VESCOVO»

di Andrea Bernardini

Poco più di duecento giorni fa monsignor Giovanni Paolo Benotto tornava, da arcivescovo, nella nostra diocesi. Duecento giorni sono troppo pochi per fare un primo bilancio delle scelte pastorali di un vescovo. Sono però sufficienti per raccontare ai nostri lettori l’idea che si è fatta della nostra diocesi dove è tornato dopo aver servito, per cinque anni, la Chiesa di Tivoli…

«Questi primi mesi di servizio pastorale a Pisa mi sono serviti soprattutto per una prima ricognizione circa la vita diocesana e per iniziare tutta quella serie di contatti indispensabili per avere gli elementi necessari per iniziare una programmazione pastorale che, tenendo conto del cammino fin qui percorso, tenda a mete ulteriori. Da qui gli incontri con tutto il clero ed ora gli incontri con i catechisti, gli animatori e i collaboratori dei nostri sacerdoti nei singoli vicariati. Come già sapevo, ho costatato che molte sono le potenzialità e le ricchezze spirituali presenti nella nostra Chiesa: a me il compito di accoglierle e di aiutarle a crescere per un rinnovato impegno di evangelizzazione».

Nelle scorse settimane hanno bussato alla porta del Seminario – per iniziare un percorso di discernimento vocazionale – altri quattro giovani. Adesso la comunità del seminario ne conta quindici. Ovunque si è recato, lei ha chiesto preghiere incessanti per nuove vocazioni sacerdotali…

«L’esperienza mi dice che il Signore continua a spargere a piene mani semi di vocazione nel cuore di molti giovani. C’è però bisogno che l’intera comunità ecclesiale sia ancora più attenta nel cogliere gli appelli della grazia, proprio perché la chiamata del Signore riguarda tutti, nessuno escluso, così come riguarda tutti il fatto che una diocesi sia capace di fecondità nel servizio al vangelo. Da qui la necessità che tutta la comunità cristiana diventi una voce sola nel chiedere al Signore il dono di nuove vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata e che nella comunità ci sia chi si prende cura di quanti percepiscono nel loro cuore l’appello di Gesù a seguirlo. Sono sicuro che soprattutto i sacerdoti saranno ancora più attenti nell’offrire la loro preziosa esperienza ai tanti giovani che sono in ricerca circa il futuro della propria vita».

Alla radice della crisi di vocazioni (sacerdotali, religiose, ma anche familiari) sta, forse, quello che lei chiama «analfabetismo religioso di ritorno» delle penultime generazioni: senza adulti formati è difficile suscitare nei figli anche solo la curiosità per uno stile di vita coerente col vangelo di Gesù…

«Come c’è un “analfabetismo di ritorno” nel campo della scuola e della cultura, così c’è anche nel campo della fede e della conoscenza religiosa. Spesso, nel campo religioso, si parla e si sente parlare di ciò che non si conosce, perché, come per tanti altri aspetti del vivere, l’ ignoranza, intesa come non conoscenza è cifra ricorrente. Da qui la necessità di una formazione cristiana più profonda, che non si fermi alla superficie, ma che cerchi di penetrare nel profondo i misteri della nostra fede, anche attraverso lo studio sistematico della teologia. Da qui l’importanza che attribuisco alle possibilità di conoscenza che vengono offerte sia dall’Istituto Superiore di Scienze Religiose presente a Pisa presso Santa Caterina e dalla Scuola di Formazione Teologica nelle tre sedi di Pisa, Pontedera e Pietrasanta, a cui invito tutti a partecipare».

Come può rispondere la Chiesa pisana alla sfida dell’emergenza educativa?

«Da tempo Papa Benedetto sta parlando di “emergenza educativa” che se più specificamente riguarda l’educazione alla fede, non manca di interpellare la società civile, il mondo della cultura e soprattutto ogni famiglia. Una emergenza che non è assolutamente pensabile affrontare “in ordine sparso”, in qualche modo, con risposte estemporanee e frammentarie, ma attraverso un vero e proprio progetto educativo non più rimandabile e che chiede l’impegno di tutti. La famiglia deve avere l’aiuto della scuola e della chiesa; la scuola deve sempre più rapportarsi alla famiglia, tenendo conto delle altre realtà educative presenti nella società, compresa la chiesa; la chiesa deve lavorare all’unisono con la famiglia tenendo conto a sua volta della scuola e delle altre realtà che si occupano di sport e tempo libero e che spesso viaggiano per conto proprio senza seri e pensati progetti educativi. La chiesa, in questo campo, può offrire molto se però anch’essa si impegna a leggere con attenzione, con passione educativa e senza paura la complessità della situazione presente».

C’è un passaggio del discorso che lei ha rivolto agli insegnanti di religione cattolica che merita di essere ripreso. In quella occasione ha manifestato l’impressione che ci sia – anche tra gli insegnanti – «una specie di strisciante adattamento al relativismo corrente e non perché si insegnino dottrine ereticali, ma perché più facilmente non si insegna tutta la dottrina della Chiesa nella sua pienezza»; ovvero che «ci si sofferma di più su tematiche assai condivise dalla cultura egemone in mezzo alla quale viviamo, come le tematiche relative alla pace o alla giustizia sociale, ma si glissa su quelle tematiche che oggi vengono chiamate “sensibili” e sulle quali, di fatto, si verificano le grandi differenziazioni che incidono sia sui percorsi culturali, sia su quelli politici, sia soprattutto sulle scelte personali e familiari che riguardano la vita di tutti i giorni»…

«Il relativismo di cui parla il Papa non è uno slogan pubblicitario; è bensì il clima culturale nel quale siamo immersi e che rischia di far tendere al “minimo” il lavoro e l’impegno comune. Da qui lo stile del “politicamente corretto”, cioè di un modo di essere e di fare che evita gli spigoli dei “principi intangibili” e “non negoziabili” e che con un falso irenismo rischia di addormentare le coscienze e spengere lo slancio verso ciò che vale di più e che in termini cristiani è poi una vera e autentica vita di santità che è totalità di impegno per Cristo e per i fratelli».

Una Chiesa capace di proposte chiare, anche quando non adagiate su relativismo o sincretismo che paiono essere ‘dominanti’ nella cultura di oggi, rischia di perdere o di guadagnare fedeli?

«La Chiesa non è una agenzia pubblicitaria che deve cercare la formula vincente per vendere un prodotto. La Chiesa non deve smerciare alcun prodotto: essa deve annunciare Cristo e il suo Vangelo, senza nulla aggiungere e senza nulla togliere. Il problema non è quello di guadagnare o di perdere fedeli, bensì quello di formare autentici credenti che cercano di tradurre nella vita di tutti i giorni e nel loro impegno professionale e sociale la verità e l’amore di Cristo. Chi salva infatti è Cristo e chi converte è sempre e soltanto Lui. Quanto più siamo strumenti docili e fedeli nelle mani del Signore, tanto più collaboriamo alla gioia degli uomini nostri fratelli».

Nei primi mesi di servizio episcopale a Pisa, ha voluto rilanciare alcune tradizioni della nostra diocesi che, nel tempo, si erano un po’ perse. Tutti abbiamo apprezzato la buona partecipazione di popolo alla recente festa della dedicazione della Cattedrale, mentre attendiamo la festa della Madonna di sotto gli Organi. Nel 2010 ricorrono gli 850 anni dalla morte di San Ranieri. Ha già in mente qualche iniziativa per valorizzare questo anniversario?

«Le tradizioni religiose sono state gli strumenti grazie ai quali si è tramandata l’esperienza di fede vissuta nelle comunità cristiane. In diversi casi si sono ridotte a forme esterne perdendo il loro contenuto più intimo e profondo. Si tratta di rivitalizzarle cercando anche il modo migliore per renderle contemporanee per la gente del nostro tempo. Non è impresa impossibile. Fondamentale è far cogliere la ricchezza che esse portano con sé e farla nuovamente assaporare ai tanti che cercano riferimenti solidi e certi; valori senza i quali è impossibile quella fecondità interiore che ognuno cerca».

In quale stato di salute ha trovato le associazioni, i gruppi ed i movimenti ecclesiali presenti in diocesi?

«Come un po’ ovunque anche nella nostra diocesi il panorama associativo è molto mutato in questi ultimi tempi: mentre sono nate nuove aggregazioni laicali, alcune associazioni “storiche” che hanno segnato in maniera splendida passate stagioni di vita ecclesiale, oggi si trovano in difficoltà. Ciò non deve creare paure. In ogni tempo, infatti, lo Spirito Santo suscita carismi e doni in rapporto ai bisogni che via via si manifestano. L’importante è che nessun dono di Dio, antico o nuovo, vada perduto per incuria o superficialità nostra. Sono convinto che ogni associazione può dare molto al bene comune e alla crescita della vita ecclesiale nella misura in cui è consapevole che nessuno ha la pienezza e la totalità dei doni di Dio e che ogni dono ha sempre bisogno di crescere in comunione con tutti gli altri. E nella nostra Diocesi, questa possibilità è ben presente».

Le è cambiata la vita – anche solo nei ritmi di lavoro – negli ultimi sei mesi?

«Ogni esperienza nuova chiede sempre un grande impegno di applicazione. Ciò vale anche per un vescovo che inizia il proprio ministero in un’altra diocesi. Il fatto che nel mio caso, la nuova diocesi, sia la mia diocesi di origine, se da una parte facilita l’impegno, perché molte sono le realtà e le persone che si conoscono, dall’altra lo rende ancora più pressante e faticoso perché gli appuntamenti si moltiplicano a dismisura, e proprio perché si conosce diventa assai più difficile dire di no alle richieste di presenza. E poi, a Pisa, i numeri sono raddoppiati rispetto alla realtà tiburtina, per cui anche gli impegni e la fatica non sono certo diminuiti. Ma, quando si lavora con Dio e per Dio, anche la fatica diventa un peso leggero».