Pisa

SESTA ASSEMBLEA DELLE CARITAS PARROCCHIALI

 E’ la prima volta che ho la gioia di incontrare gli animatori della carità dopo l’inizio del mio ministero episcopale a Pisa e desidero esprimere a tutti voi qui presenti il mio ringraziamento e quello della nostra Chiesa per tutto ciò che fate al servizio dei poveri e di quanti attendono in qualche modo il segno della fraternità e dell’amore da parte della chiesa diocesana. Ed è anche l’occasione per dare il mio piccolo contributo a quella necessaria formazione permanente che permette di calare nel profondo del nostro essere contenuti sempre più rispondenti alle necessità del tempo presente che ci consentano di agire per una testimonianza maggiormente capace di dare speranza al nostro tempo così difficile.In questa mia riflessione terrò come riferimento l’enciclica di Papa Benedetto XVI “Deus caritas est” specie nella sua seconda parte in cui si parla dell’ “esercizio dell’amore da parte della Chiesa quale comunità d’amore“, in quel quadro di riferimento da non dimenticare mai che è la storia e la ricca esperienza di servizio d’amore che la nostra Diocesi ha vissuto da sempre e che anche oggi sa esprimere attraverso forme preziose di presenza, di sostegno e di accompagnamento a quanti si mettono a disposizione dei fratelli più bisognosi.Ogni impegno ecclesiale, lo sappiamo bene, non può che essere teso all’annuncio di Gesù e del lieto messaggio della salvezza: il suo Vangelo. La carità è una strada attraverso la quale questo messaggio può essere annunciato agli uomini con un linguaggio estremamente concreto e comprensibile: quello delle opere dell’amore; con uno stile inconfondibile che è quello del dono di sé e con una ricchezza interiore che è quella di chi si è lasciato pienamente invadere dall’amore di Dio che rimanda necessariamente all’amore del prossimo. Un lieto annuncio d’amore che scaturisce dal cuore stesso di Cristo squarciato sulla croce dalla lancia del soldato a dire che l’amore non può essere imbrigliato o tenuto gelosamente chiuso nella nostra intimità, ma che bensì, per natura sua, deve potersi allargare fino a raggiungere tutti, senza limiti, senza remore e senza condizionamenti.Questo amore, a cui ciascun credente è chiamato a configurarsi, è nota che contraddistingue la Chiesa come “comunità d’amore” che nella sua “attività è espressione di un amore che cerca il bene integrale dell’uomo: cerca la sua evangelizzazione mediante la Parola e i Sacramenti (…) e cerca la sua promozione nei vari ambiti della vita e dell’attività umana. Amore è pertanto il servizio che la Chiesa svolge per venire costantemente incontro alle sofferenze e ai bisogni, anche materiali, degli uomini” (DCE 19).La nostra riflessione avrà come riferimento proprio la Chiesa che ama e che quindi manifesta e annuncia l’amore di Dio per l’uomo, per ogni uomo, sia nella sua dimensione di Chiesa particolare intorno al vescovo, sia nella dimensione di parrocchia, attraverso l’esperienza concreta di “servizio alla carità”, più ancora che di “servizio di carità” quale è la Caritas sia diocesana che parrocchiale.La carità compito della Chiesa“L’amore del prossimo radicato nell’amore di Dio è anzitutto un compito per ogni singolo fedele, ma è anche un compito per l’intera comunità ecclesiale, e questo a tutti i suoi livelli: dalla comunità locale alla Chiesa particolare fino alla Chiesa universale nella sua globalità. Anche la Chiesa in quanto comunità deve praticare l’amore” (DCE 20). Così scrive il Papa nella sua enciclica sull’amore. Infatti come non può esserci autentico esercizio dell’amore nel servizio al prossimo se questo servizio non nasce dalla carità stessa di Dio; così non può esserci vera testimonianza d’amore se questa oltre a coinvolgere il singolo cristiano non coinvolge tutta intera la comunità dei discepoli di Cristo.Questo servizio, prima ancora di essere servizio di carità è necessariamente servizio alla carità. Non si tratta di una distinzione peregrina, bensì di una attenzione che occorre continuamente stimolare: non basta infatti fare opere di carità; ma nel fare opere di carità occorre promuovere la carità; cioè occorre far sì che cresca in tutti la coscienza del dovere che compete a ciascuno e alla comunità come tale di promuovere la carità come “cifra” con cui coniugare l’intera esperienza di fede cristiana. E ciò sia nel senso espresso da San Paolo nell’Inno alla carità e cioè che la carità è sempre molto di più di una semplice attività; infatti “se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova” (1Cor. 13,3), ma anche nel senso che l’amore è e deve essere diffusivo di sé attraverso l’impegno ad educare e ad educarsi all’amore, tenendo conto del fatto che “l’amore cresce solo con l’amore”.L’intima natura della ChiesaCome ben sappiamo l’intima natura della Chiesa si esprime in un triplice compito: annuncio della Parola di Dio, celebrazione dei sacramenti e servizio della carità. Sono compiti che si presuppongono a vicenda e non possono essere separati l’uno dall’altro. E questo perché la Parola di Dio, da cui nasce la risposta della fede, non è una teoria o un’idea che possa essere trasmessa solo a livello culturale. Il Verbo fattosi carne è Cristo e il suo mistero non si è esaurito nella vicenda storica di Gesù di Nazareth, bensì si estende a tutti i tempi e a tutte le generazioni attraverso la celebrazione dei sacramenti che permettono ad ogni uomo di ogni tempo, che nella fede ha accolto la Parola che salva, di incontrarsi con la persona stessa del Signore. Un incontro che non avviene esteriormente, ma nel profondo del cuore di ognuno e che stabilisce quella inabitazione reciproca per cui la vita di Cristo diventa la nostra vita e il nostro vivere più vero e più profondo diventa Cristo stesso, secondo l’espressione paolina: “per me, vivere è Cristo“.Ma se il nostro vivere è Cristo, questo significa che diventa parte della nostra vita e quindi del nostro stesso essere, ciò che è proprio di Cristo e cioè il suo essersi fatto servo per amore: “Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti”(Mt 20,28). E’ questo il senso del gesto compiuto da Gesù durante l’ultima cena quando si mette a lavare i piedi dei suoi apostoli: “Sapete ciò che vi ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi”(Gv. 13,12-15). Ciò che è di Cristo è anche necessariamente della sua Chiesa e in essa anche del suo discepolo.Parola, sacramenti, servizio di carità sono così espressioni irrinunciabili dell’essenza stessa della Chiesa, come della identità del discepolo di Gesù e sono connotazioni non accessorie, ma sostanziali del vivere quotidiano del cristiano che debbono sempre più impregnare e informare la vita del credente in una progressione mai conclusa di inserimento personale nel mistero di Cristo.In questo senso, se l’annuncio della Parola è elemento primordiale del percorso di fede, la testimonianza della carità ne è il necessario complemento, così come la celebrazione della liturgia ne è l’anima da cui scaturisce inesauribilmente la grazia necessaria per mantenersi fedeli alla propria specifica vocazione. Parola, liturgia e carità si sorreggono e si verificano a vicenda e insieme, mai separatamente, permettono alla Chiesa di realizzarsi come famiglia di Dio nel mondo.Qualche volta può accadere che si pensi che soltanto uno di questi tre elementi sia indispensabile e quindi insostituibile. In realtà o stanno tutti e tre o tutto cade. Una verifica molto concreta di tutto questo si ha in certe esperienze di vita che si fermano ad uno o a due di questi aspetti senza accoglierli tutti e tre: il riferimento alla Parola che non si apre alla liturgia e alla carità rischia di diventare intellettualismo teologico; una liturgia che non dia spazio alla Parola e alla carità si stempera in forme di estetismo liturgico fine a se stesso; una carità che non attinga una costante alimentazione alle fonti della grazia nella Parola di Dio e nei sacramenti, diventa ben presto assistenza sociale o sociologismo di stampo più o meno religioso; in tutti e tre i casi ci si impedisce di giungere ad una esperienza piena e completa di che cosa sia la Chiesa nella sua più vera identità. E di conseguenza non solo si perde il senso più vero dell’essere Chiesa; ma anche di che cosa sia la Chiesa particolare e la stessa parrocchia. Infatti se si smarrisce il senso della Chiesa, si smarrisce pure la coscienza della realtà misterica della Chiesa particolare e di quella sua cellula “locale”che è la parrocchia.Non è raro registrare situazioni di vera e propria ignoranza circa il mistero della Chiesa Sottolineo fortemente il termine “mistero”. In un tempo in cui tutto sembra essere condizionato dall’efficienza organizzativa e da strutture che rispondono a canoni esclusivamente sociologici, parlare di “mistero”, significa affermare la specifica realtà della Chiesa che non è mai riducibile a dimensioni puramente umane. La Chiesa, lo sappiamo, è realtà sacramentale; cioè, “in Cristo è come un sacramento o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (LG 1). Affermando ciò il Concilio ha proclamato in maniera solenne questo carattere misterico che appartiene alla Chiesa e che le è proprio in tutte le sue articolazioni nella concretezza della storia; un carattere che le impedisce di appiattirsi sulle sue connotazioni terrene e umane e che la preserva dal ridursi a organizzazione ed a struttura operativa tesa ad adeguare le sue modalità espressive alla cultura o alle mode del giorno. Se così non avvenisse non avremmo più la Chiesa di Cristo, così come Lui, il Signore, l’ha voluta.Chiesa particolare e parrocchiaQualche volta si ha l’impressione che anche in campo ecclesiale, dove tutto è comunione ad immagine della Trinità, ci si fermi o ci si specializzi sulle singole individualità proprio a scapito di quella unità che, insieme alla santità, alla cattolicità e alla apostolicità, è segno distintivo della Chiesa. Ciò vale anche per quanto riguarda il modo di concepire il rapporto tra Chiesa particolare o Diocesi e parrocchia. E’ nella Chiesa particolare stretta intorno al suo Vescovo in comunione con il Papa che si ha la concreta esperienza della Chiesa nella sua realtà storica: la parrocchia non è una alternativa rispetto alla Diocesi, ma il modo concreto attraverso il quale la Diocesi si radica in un territorio.Afferma infatti il Concilio: “Poiché nella sua Chiesa il Vescovo non può presiedere personalmente sempre e dovunque l’intero suo gregge, deve costituire perciò delle assemblee di fedeli, tra cui hanno un posto preminente le parrocchie organizzate localmente sotto la guida di un pastore che fa le veci del Vescovo: esse infatti rappresentano in certo modo la Chiesa visibile stabilita su tutta la terra” (SC 42). Cellula della Diocesi, la Parrocchia non può vivere in maniera indipendente e autonoma rispetto alla Chiesa particolare. Se essa si rinchiudesse su se stessa non potrebbe che isterilirsi, divenendo così incapace di una vera opera di crescita della intera compagine ecclesiale. E lo ripeto, non tanto per motivi di ordine metodologico o organizzativo, ma proprio perché essa verrebbe a smarrire il suo carattere e la sua più vera identità teologica.Per questo diventa quanto mai necessario favorire una seria formazione che faccia comprendere ad ogni cristiano che cosa è la Chiesa, quali sono le sue caratteristiche peculiari e come si vive, si lavora e si cresce in essa e come essa stessa, affidata alla responsabilità di ogni suo membro, può crescere e manifestarsi di fronte al mondo come segno splendente di Cristo e del suo regno che viene.E quanto più si cresce in questa consapevolezza, tanto più si è in grado di superare i sempre possibili campanilismi tra parrocchia e parrocchia e tra parrocchia e diocesi. Può esserci una serena e armoniosa vita di famiglia quando al suo interno c’è contrapposizione tra padre e madre o tra genitori e figli? Se “la Chiesa è la famiglia di Dio nel mondo”, come ha detto Papa Benedetto, potrà esserci vera vita di Chiesa quando ci fosse estraneità o contrapposizione o ignoranza reciproca tra parrocchia e parrocchia e tra parrocchie e diocesi?E’ nella comunione che si crea uno stile comune, frutto di una ricerca comune e di un impegno di collaborazione a tutti i livelli. Nella Chiesa non si agisce mai contro qualcuno e nemmeno senza qualcuno; l’impegno è quello di cercare, pensare, programmare, realizzare e lavorare tutti insieme. L’impegno che si esplicita in un settore del vivere ecclesiale è sempre dono per tutti gli altri settori e ricchezza condivisa per tutti, a condizione però che ci si ascolti reciprocamente; che ci si accolga nelle varie proposte che possono nascere; che siamo davvero disponibili gli uni nei confronti degli altri.Questo vale per quanto riguarda la vita della singola comunità parrocchiale, così come vale per la vita della Diocesi, nella consapevolezza che il nostro agire nei vari ambiti non è e non può essere una specie di concorrenza tra gente che deve collocare il proprio prodotto sul mercato. Nessuno infatti è “libero professionista” del Vangelo, bensì è “servitore della gioia comune” nella realizzazione dell’unico disegno di salvezza che il Signore Gesù ha affidato alla sua Chiesa e di cui sono garanti e responsabili i vescovi insieme con il papa.Credo che ci sia ancora molto da lavorare per acquisire questa mentalità di vera e autentica comunione ecclesiale, non tanto nella sua formulazione teorica, bensì nella concretezza di una prassi che ha bisogno di aprirsi sempre di più al vero senso della condivisione e della corresponsabilità ecclesiale a tutti i livelli. E tutto questo anche per quanto riguarda l’esercizio della carità.Il Papa, nella sua enciclica sulla carità ha riaffermato che “l’esercizio della carità è un atto della Chiesa in quanto tale e che, così come il servizio della Parola e dei Sacramenti, fa parte anch’essa dell’essenza della sua missione originaria” (DCE 32). Per questo quanti si impegnano nell’esercizio di questo dovere all’interno della Chiesa “non devono ispirarsi alle ideologie del miglioramento del mondo, ma farsi guidare dalla fede che nell’amore diventa operante”. Cioè “devono essere persone mosse innanzitutto dall’amore di Cristo, persone il cui cuore Cristo ha conquistato con il suo amore, risvegliandovi l’amore per il prossimo. Il criterio ispiratore del loro agire dovrebbe essere l’affermazione presente in 2 Corinzi: L’amore di Cristo ci spinge” (DCE 33).In altre parole, chi ama Cristo non può che amare anche la Chiesa. “Il collaboratore di ogni organizzazione caritativa cattolica vuole lavorare con la Chiesa e quindi col Vescovo, affinché l’amore di Dio si diffonda nel mondo. Attraverso la sua partecipazione all’esercizio dell’amore della Chiesa, egli vuole essere testimone di Dio e di Cristo e proprio per questo vuole fare del bene agli uomini gratuitamente” (DCE 33).La Caritas come “opus proprium” della ChiesaNon sono mancate anche in tempi recenti, soprattutto in Italia, prese di posizione assai critiche nei confronti della Chiesa a causa di una sua presunta ingerenza nella vita sociale e politica; così come non sono mancate repliche assai significative da parte di non pochi esponenti dell’episcopato. Nella lettera Deus Caritas est, il Papa ha ribadito chiaramente alcuni concetti che non possiamo assolutamente dimenticare. Prima di tutto che “il giusto ordine della società e dello Stato è compito centrale della politica. Uno Stato che non fosse retto secondo giustizia si ridurrebbe ad una grande banda di ladri come disse S. Agostino: “remota itaque iustitia quid sunt regna nisi magna latrocinio?” (…) La giustizia è lo scopo e quindi anche la misura intrinseca di ogni politica. La giustizia è più che una semplice tecnica per la definizione dei pubblici ordinamenti: la sua origine e il suo scopo si trovano appunto nella giustizia, e questa è di natura etica. (…) In questo contesto si colloca la dottrina sociale cattolica: essa non vuole conferire alla Chiesa un potere sullo Stato. Neppure vuole imporre a coloro che non condividono la fede prospettive e modi di comportamento che appartengono a questa. Vuole semplicemente contribuire alla purificazione della ragione e recare il proprio aiuto per far sì che ciò che è giusto possa, qui e ora, essere riconosciuto e poi anche realizzato (…) Ciò che è compito politico non può essere incarico immediato della Chiesa. Ma siccome è allo stesso tempo un compito umano primario, la Chiesa ha il dovere di offrire attraverso la purificazione della ragione e attraverso la formazione etica il suo contributo specifico, affinché le esigenze della giustizia diventino comprensibili e politicamente realizzabili. (…) La Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al posto dello Stato. Ma non può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia. Deve inserirsi in essa per la via dell’argomentazione razionale e deve risvegliare le forze spirituali, senza le quali la giustizia, che sempre richiede anche rinunce, non può affermarsi e prosperare” (28).Un secondo elemento da tenere presente è che “l’amore – caritas – sarà sempre necessario anche nella società più giusta. Non e ‘è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore. Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo”(…) Occorre perciò “uno Stato che generosamente riconosca e sostenga, nella linea del principio della sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali e uniscono spontaneità e vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto. La Chiesa è una di queste forze vive: in essa pulsa la dinamica dell’amore suscitato dallo Spirito di Cristo” (29).Di conseguenza a questi riferimenti è ovvio che se da una parte “il compito immediato di operare per un giusto ordine nella società è proprio dei fedeli laici che come cittadini dello Stato sono chiamati a partecipare in prima persona alla vita pubblica, (…) le organizzazioni caritative della Chiesa costituiscono invece un suo opus proprium, un compito a lei congeniale, nel quale essa non collabora collateralmente, ma agisce come soggetto direttamente responsabile, facendo quello che corrisponde alla sua natura. La Chiesa non può mai essere dispensata dall’esercizio della carità come attività organizzata dei credenti e, d’altra parte, non ci sarà mai una situazione nella quale non occorra la carità di ciascun singolo cristiano, perché l’uomo, al di là della giustizia, ha e avrà sempre bisogno dell’amore” (29)E questo “opus proprium” della Chiesa deve mantenere tutto il suo splendore senza dissolversi nella comune organizzazione assistenziale, diventandone una semplice variante. Proprio il Papa ci indica quelli che sono gli elementi costitutivi che formano l’essenza della carità cristiana ed ecclesiale.Elementi costitutivi della carità cristiana ed ecclesiale“Secondo il modello offerto dalla parabola del buon Samaritano, la carità cristiana è prima di tutto semplicemente la risposta a ciò che, in una determinata situazione, costituisce la necessità immediata” (31). Il Samaritano, vede, si ferma, presta le prime cure, organizza poi una cura più articolata nella locanda, preoccupandosi che il malcapitato non rimanga abbandonato a se stesso. La Chiesa è sempre stata in prima linea nell’aiuto ai bisognosi, creando via via che se ne presentava il bisogno, risposte sempre nuove alle emergenze che si prospettavano. Risposte che si sono estese, che poi sono state anche istituzionalizzate e che alla fine sono diventate risposte espresse dalla società civile e politica che le ha assunte come proprio impegno e dovere.Ma per dare risposta ai bisogni, occorre essere capaci di cogliere questi bisogni con immediatezza e occorre mettere in gioco le possibili risposte suscitando la collaborazione e l’apporto dell’intera comunità cristiana; e questo non in maniera generica ma reperendo vere e proprie competenze professionali per “saper fare la cosa giusta nel modo giusto” e accompagnando la pur necessaria competenza professionale con l’attenzione del cuore.Una preoccupazione che non ci deve mai abbandonare è che oltre alla preparazione professionale gli operatori cristiani della carità abbiano una vera e propria “formazione del cuore: occorre condurli a quell’incontro con Dio in Cristo che susciti in loro l’amore e apra il loro animo all’altro, così che per loro l’amore del prossimo non sia più un comandamento imposto per così dire dall’esterno, ma una conseguenza della loro fede che diventa operante nell’amore” (31).Un secondo elemento costitutivo è che “l’attività caritativa cristiana deve essere indipendente da partiti e ideologie. Non è un mezzo per cambiare il mondo in modo ideologico e non sta nel servizio di strategie mondane, ma è attualizzazione qui e ora dell’amore di cui l’uomo ha sempre bisogno”. E continua il Papa: “Ad un mondo migliore si contribuisce soltanto facendo del bene adesso e in prima persona, con passione e ovunque ce ne sia la possibilità, indipendentemente da strategie e programmi di partito. Il programma del cristiano – il programma del buon Samaritano, il programma di Gesù – è un cuore che vede. Questo cuore vede dove c’è bisogno di amore e agisce in modo conseguente. Ovviamente alla spontaneità del singolo deve aggiungersi, quando l’attività caritativa è assunta dalla Chiesa come iniziativa comunitaria, anche la programmazione, la previdenza, la collaborazione con altre istituzioni simili” (31).E infine “la carità non può essere in funzione del proselitismo. L’amore è gratuito; non viene esercitato per raggiungere altri scopi. Ma questo non significa che l’azione caritativa debba, per così dire, lasciare Dio e Cristo da parte. È in gioco sempre tutto l’uomo. Spesso è proprio l’assenza di Dio la radice più profonda della sofferenza. Chi esercita la carità in nome della Chiesa non cercherà mai di imporre agli altri la fede della Chiesa. Egli sa che l’amore nella sua purezza e nella sua gratuità è la migliore testimonianza del Dio nel quale crediamo e dal quale siamo spinti ad amare. Il cristiano sa quando è tempo di parlare di Dio e quando è giusto tacere di Lui e lasciar parlare solamente l’amore. Egli sa che Dio è amore e si rende presente proprio nei momenti in cui nient’altro viene fatto fuorché amare” (31).Si tratta di riferimenti che il Papa ha offerto a tutta la Chiesa e che possono essere anche per noi, nella nostra Chiesa particolare e nelle nostre parrocchie, principi sui quali meditare e da assumere come regola per il nostro comportamento.È ovvio che tutto questo ha bisogno di essere interiorizzato e calato nella nostra vita di ogni giorno così che possa diventare il nostro stile di vita, vero e proprio contenuto per la nostra spiritualità. Afferma il Papa: “L’azione pratica resta insufficiente se in essa non si rende percepibile l’amore per l’uomo, un amore che si nutre dell’incontro con Cristo. L’intima partecipazione personale al bisogno e alla sofferenza dell’altro diventa così un partecipargli me stesso: perché il dono non umilii l’altro, devo dargli non soltanto qualcosa di mio ma me stesso; devo essere presente nel dono come persona” (34).“Il contatto vivo con Cristo è l’aiuto decisivo per restare sulla retta via: né cadere in una superbia che disprezza l’uomo e non costruisce in realtà nulla, ma piuttosto distrugge, né abbandonarsi alla rassegnazione che impedirebbe di lasciarsi guidare dall’amore e così servire l’uomo. La preghiera come mezzo per attingere sempre di nuovo forza da Cristo, diventa qui un’urgenza del tutto concreta. Chi prega non spreca il suo tempo, anche se la situazione ha tutte le caratteristiche dell’emergenza e sembra spingere unicamente all’azione. (…) Il tempo dedicato a Dio nella preghiera non solo non nuoce all’efficacia e all’operosità dell’amore verso il prossimo, ma ne è in realtà l’inesauribile sorgente” (36).Una sorgente alla quale anche noi siamo invitati a dissetarci, per poter essere sempre più in grado di porgere ai fratelli che sono nel bisogno il pane che sazia ogni fame e l’acqua che zampilla come sorgente di vita eterna, proprio nel cibo, nelle medicine, nel sostegno, nell’aiuto che porgiamo loro nel nome del Signore, e che così diventano il segno dell’amore e dello stesso donarsi di Dio all’umanità nel dono e nel servizio fraterno di chi crede in Gesù e per amore suo si mette al servizio dell’uomo che attende sostegno, aiuto e amicizia fraterna.+ Giovanni Paolo BenottoArcivescovo di Pisa