Negano il pensiero della morte perfino varcando la soglia dell’hospice, ultima frontiera del malato terminale. «I familiari sono impreparati ad accettare l’esito inevitabile, ancora sperando nella medicina che cura tutto, mentre il paziente vive il processo emotivo sulla fine della sua esistenza nella carne». Parola del medico Angela Gioia, che dirige il centro pisano per le cure palliative. È l’ennesima conferma della diffusa censura intorno alla morte, che pervade la cultura e la società, ansiose di esorcizzare il comune destino di tutti gli esseri. Se nel medioevo, al momento della morte di un monaco, tutto il monastero si riuniva per accompagnare la sua «nascita al cielo», oggi all’anelito alla vita eterna si sostituisce spesso il desiderio di una «vita interminabile». Conferma don Maurizio Gronchi, teologo, sacerdote pisano, docente alla Pontificia Università Urbaniana: «Si assiste ad una poderosa esclusione della morte in Occidente, in modo paradossale e contraddittorio: oggi è molto più immaginata e rappresentata, anche nella sua spettacolarità massmediatica, piuttosto che nella sua normalità, sempre più negata ed emarginata dalla percezione sociale». Un fenomeno emergente, secondo Gronchi: basti pensare ai recenti blog imperversanti in internet dedicati ad «immaginare» l’eliminazione di politici e personaggi famosi, o ai funerali-evento trasmessi in tv come fossero spettacoli. «È una nuova forma di esorcismo – rileva Gronchi – che nega ciò di cui si ha paura: allora, se la morte è specchio del senso che diamo alla nostra vita, significa che ci inquieta il modo in cui viviamo. Occorre tornare all’equilibrio della normalità».Magari cominciando a riflettere su come oggi il corpo sia diventato «assoluto», concetto fallace che, anche tra i credenti, ha relegato in soffitta quello millenario di «salus animarum»: il valore dell’anima, la sua integrità per la salvezza, ben più importante rispetto al corpo, un tempo considerato relativo («fratello asino», lo chiamava San Francesco). Partendo dall’assunto di fondo, valido per la concezione cristiana, che la vita è sacra e indisponibile, dal concepimento alla sua fine naturale, il teologo va oltre, suggerendo una considerazione che trova radici nella tradizione propria della nostra fede. «Il corpo è segnato dalla fragilità in attesa della risurrezione, non rappresenta tutta la vita fisica; vita – atto creativo di Dio – che è destinata a trasformarsi nell’eternità. Pensiamo dunque ai martiri, di ieri e di oggi, unendoli in linea immaginaria da Gesù a Massimiliano Kolbe: per dire che la vita fisica non è valore assoluto in sé, ma è ben spendibile per un fine superiore, la carità, che è sì, l’unico valore assoluto». Siamo invitati, quindi, a «tornare a riflettere sul mistero integrale della vita umana nell’antropologia cristiana: anima, corpo, psiche, e carità – imprescindibile per la fede – per non rischiare di chiamare sacro ciò che è materia».Proseguiamo la riflessione con un altro sacerdote pisano, monsignor Gino Biagini (vicario giudiziale del Tribunale Ecclesiastico Regionale Etrusco a Firenze), che rileva: «Morte è il fine della vita connaturato alla vita stessa: nasciamo per morire, già dopo essere nati cominciamo a morire. Oggi la morte è temuta e inaccettata (in misura maggiore rispetto al passato) perché è dominante l’ideologia del ‘vitalismo’: un’ansia di vivere a tutti i costi, alla ricerca frenetica del piacere, di realizzazioni e soddisfazioni. Espressioni tipiche, per esempio, ne sono l’eccessiva cura esteriore del corpo e il rifiuto della vecchiaia. Questa è censurata fin nel linguaggio comune: non si parla più di vecchi, ma di anziani. Siamo alla rimozione dell’ultima età che introduce alla morte: la vecchiaia, un tempo circondata di rispetto, onore e pietà».Approfondendo l’analisi, don Biagini, sottolinea che «l’ideologia del vitalismo è collegata ad almeno due aspetti principali: il soggettivismo dominante, che vede l’uomo farsi centro di se stesso, desideroso di vivere senza limiti, quindi portato a relativizzare i valori e ad escludere ogni ostacolo che freni l’espansione del suo essere; e, insieme, i progressi della tecnica e della medicina che hanno allungato la vita, migliorandone le condizioni. Un lavoratore dell’800 a 40 anni poteva apparire già vecchio, abbrutito dalla fatica; allora si moriva per malattie oggi curabili, la prospettiva di vita era breve. Oggi a 40 si è nel fiore degli anni, e con le cure si può vivere a lungo, fin quasi a illudersi addirittura di ‘debellare’ la morte».E mentre si afferma il «vitalismo», Biagini annota che va scemando il «senso religioso, che dava senso alla vita, anzi la sua misura in rapporto all’eternità. Rileggiamo San Paolo che esortava a non preoccuparsi di patire qui in terra, ciò è nulla in vista della felicità eterna; la vita è un breve lasso di tempo. Nessuno di noi vive e muore per se stesso, ma viviamo e moriamo per il Signore (Rm, 14-7-12). E la vita è un dono che deve essere bene accolto e ben vissuto, portando frutti. Ciascuno di noi dovrà renderne conto». Un tema, quello del giudizio, anch’esso molto affievolito, secondo monsignor Biagini: «È una verità della rivelazione (Matteo 25, 31-46), di cui si parla poco, anche in confessionale. In generale si parla poco delle cose ultime: i quattro Novissimi del Catechismo – Morte, Giudizio, Inferno, Paradiso – sono invece da riportare al centro della predicazione e della catechesi».Anche per restituirne il senso profondo, soprattutto quando il dolore per la scomparsa di una persona cara ci richiama alla realtà della morte, seppure in modo fugace. In base alla sua esperienza di parroco, monsignor Biagini annota che «l’evento morte è ancora vissuto facendo ricorso alla religione, sebbene – da parte dei più – come esteriorità o persistente costume: soprattutto nei piccoli centri, si chiedono funerali in chiesa, si vuole il sacerdote che accompagni la salma al cimitero; anche nelle case di non credenti, è accolto il sacerdote che si presenta al capezzale del parente che si sta spegnendo, per amministrare il sacramento dell’unzione degli infermi. Nei paesi più che nelle città, si espone ancora la salma, in casa (sempre meno) o nelle stanze mortuarie (i più ormai muoiono in ospedale e nelle case di riposo), affinché si preghi per lo scomparso e gli si renda l’ultimo omaggio. Forme di pietà, dalle antiche radici, ancora sentite, al di là della fede e della pratica religiosa».Nelle camere dell’hospice, al confine della vitaL’uomo in ascensore è triste, tiene lo sguardo basso, poi confida al cronista: «Mio padre è malato terminale, ma quando è entrato qui stamani ha esclamato: Ma questo è un Paradiso! Solo allora mi sono rincuorato». Varcata la soglia, in effetti, l’ambiente è avvolgente e sorprendente: ordine, fiori, tanti colori, arredi scelti con gusto, personale sorridente e inappuntabile. Siamo all’Hospice per le cure palliative dell’Azienda USL 5, nel grande centro polifunzionale di Via Garibaldi a Pisa. «Ma non chiamatelo ospizio – tiene a sottolineare la direttrice, la dottoressa Angela Gioia – questo è un luogo dove, oltre ad affrontare la morte ed il lutto, si offre cura, supporto e protezione ai malati e alle famiglie. Qui i pazienti entrano anche per un trattamento breve, di pochi giorni o di qualche settimana, secondo i casi, in un momento acuto della malattia: ripristiniamo la terapia più adatta, che sarà seguita poi in assistenza domiciliare». Un supporto prezioso per i familiari, che nel frattempo possono organizzare l’accoglienza del congiunto a casa.Inaugurato nel marzo di quest’anno, è l’unico hospice per Pisa e provincia, e tra i più importanti a livello regionale. Le dieci stanze di degenza (belle e complete di tutti i servizi, grazie alla cura della caposala Cristina Leoni cui si deve la gradevolezza degli ambienti), sono occupate da malati oncologici in stato avanzato. Un luogo di dolore, certo, ma c’è di più. La dottoressa Gioia e il suo staff sono «speciali»: chi lavora qui lo fa per scelta, e oltre alle competenze professionali ci mette il cuore. Tanto che hanno ideato un «percorso di normalizzazione» che coinvolge in particolare i bambini, «per far sì che comprendano il senso della fine della vita, il processo del fluire del tempo». Ecco che in una sala luminosa e colorata, i piccoli, insieme con i genitori e con il supporto della psicologa, hanno a disposizione film e libri adatti, giocattoli. È un luogo di incontro e di riflessione, dove i bimbi scelgono un gioco da portare poi al nonno, trascorrendo del tempo con lui, preparandosi al commiato insieme con gli adulti. «Così, pur nella sofferenza, si costruiscono ricordi, si recuperano quelli familiari, in vista del saluto finale. Il nostro impegno è far sì che i malati affrontino la fine della vita con dignità, limitando il dolore, offrendo alla famiglia un tempo prezioso in cui possa essere reciprocamente ricordato e stretto nel cuore tutto l’amore dato e ricevuto».Graziella Teta