Pisa

IL PECCATO VISTO DAI CONFESSORI

di Graziella Teta

Un indebolimento del senso religioso si avverte anche nei confessionali, meno frequentati di un tempo. Che il sacramento della riconciliazione sia in crisi (seppure non manchino gli sforzi per restituirgli rigore e vigore) lo dicono gli stessi dati della Penitenzieria Apostolica: il 40% dei fedeli non ritiene necessari i confessori e li considera un impedimento al dialogo con Dio, il 20% ha difficoltà a parlare dei propri peccati. Le persone si accostano sempre meno al confessionale e, quando lo fanno, talvolta considerano quell’inginocchiarsi una sorta di «tassa da pagare» per mettere a posto la coscienza. Oppure, e sono i sacerdoti a rivelarlo perfino ai giornali che non esitano a darne notizia, sempre più spesso si confessano solo peccati veniali mentre quelli gravi, anche per un sentimento di vergogna, rimangono inespressi.Ma perché l’uomo d’oggi, sempre teso fra il peccato e la grazia, sottoposto a continue lacerazioni, fra il dovere di compiere il bene e la possibilità di attuare il male, attinge sempre meno a questo «patrimonio»? Dio – commenta l’apostolo Paolo (Lettera ai Romani) – interpella continuamente l’uomo e offre un senso positivo e definitivo alla sua esistenza ferita. Ma allora perché l’uomo rifiuta l’aiuto divino? «Perché è sempre tentato – ha detto di recente il cardinal Tarcisio Bertone (alla presentazione del volume «La Penitenzieria Apostolica e il Sacramento della Penitenza») – di costruirsi autonomamente la propria felicità, alla quale però non arriverà mai definitivamente; è allora portato ad accontentarsi di gioie parziali ed effimere, spesso fallaci, capaci di condurlo alla morte spirituale». Così è l’uomo, fatto di carne, abbandonato alle proprie forze. «Occorre aiutare l’umanità a comprendere – e sta qui il cuore della sfida e della proposta pastorale di oggi – che solo nella scelta di Dio (che in Cristo ci ha donato per sempre e gratuitamente il suo amore liberante) essa trova la sua piena realizzazione».Il sacramento del perdono e della gioia, così lo definisce il cardinal Bertone, «manifesta il trionfo costante dell’amore di Dio sulla potenza del male; genera la forza rinnovatrice della misericordia divina che reca pace e gioia al cuore umano. Aiutare i credenti a riscoprire il valore della confessione, è renderli consapevoli della forza loro donata da Cristo per lottare efficacemente contro il peccato e le sue strutture che abbruttiscono il mondo; è offrire loro strumenti spirituali per costruire un’umanità ispirata alla cultura della vita e alla civiltà dell’amore». E qui si coglie anche l’accenno al valore pure «sociale» del sacramento della Riconciliazione.Di fronte alla perdita del senso del peccato e alla crisi del sacramento della penitenza, il Papa esorta ad instaurare con i penitenti il «dialogo della salvezza», sull’esempio del Santo Curato d’Ars (di cui, in quest’anno sacerdotale, ricorre il 150° anniversario della morte). Quel Giovanni Maria Vianney (1859), patrono ed esempio per tutti i preti, umile ministro di Dio ma dall’efficace metodo pastorale, che in confessionale trascorse tutta la sua vita (fino a 18 ore al giorno), con l’acuta e lacerante consapevolezza di ciò che è il peccato e del danno che causa nelle anime. Ripeteva senza posa: «Offendere il buon Dio che non ci ha mai fatto altro che bene, accontentare il demonio che può farci solo del male.che follia!». Tornare al confessionale, esorta ancora il Pontefice, come luogo in cui «abitare» sempre più spesso, dove i fedeli possano trovare misericordia, consiglio e conforto, «imparando dal Signore Gesù a non giudicare e a non condannare il prossimo. Impariamo ad essere intransigenti con il peccato, a partire dal nostro!, e indulgenti con le persone».

Nel confessionale il penitente si trova davanti agli occhi un cartellino: «Distrarsi durante la preghiera non è peccato». A destra, un foglio riassume con efficace sintesi l’atto di dolore in tre frasi: mi pento dei miei peccati…propongo di non commetterne… Signore, misericordia, perdonami. Così ha voluto monsignor Giuseppe Guerri, 82 anni, penitenziere in Duomo da 21, sacerdote da 59. Spiega: «In cattedrale, soprattutto durante le festività, è grande l’affluenza di persone al confessionale, ma spesso non sono preparate e inciampano nel recitare l’atto». L’aiuto è gradito e l’incontro con il confessore procede più spedito. E a quanti s’incamminano su un percorso di conversione sincera, il canonico offre un dono prezioso: «L’imitazione di Cristo» (libretto in formato tascabile), opera attribuita al teologo tedesco del XV secolo Tommaso da Kempis. L’incipit recita: «Chi segue me non cammina nelle tenebre, dice il Signore». Commenta monsignor Guerri: «Negli anni ho visto diminuire le confessioni. E tra quanti s’inginocchiano spesso prevale l’abitudine: avverto la mancanza di quel ‘dolore’ sincero che l’atto dovrebbe suggerire. Mentre quelli che veramente avrebbero bisogno di perdono sono assenti dall’incontro con Dio, indifferenti all’appello del Padre buono e generoso di lasciarsi riconciliare con Lui. È solo la fede che genera la coscienza del male fatto e la necessità di chiedere perdono, per cui riconoscere il peccato è conseguenza di una fede viva, di una prassi consolidata, di una convivenza con l’ideale che il fedele vuole raggiungere. Ma la mentalità odierna rifugge da qualsiasi introspezione, l’uomo tende ad ergersi giudice di ciò che è bene o male. L’evoluzione tecnologica, il progresso scientifico, la libertà personale, la società secolarizzata, la cultura laica dominante (che addirittura arriva a proporre un “rovesciamento dei valori” cristiani – e fa passare fuori moda le virtù – isolando chi non si adegua), peggiorano la possibilità di conoscere e praticare un vero rapporto con Dio». Ma non mancano esempi confortanti, rileva il canonico, di giovani e adulti «raggiunti dalla luce dello spirito, che hanno scoperto il loro rapporto con Dio, sperimentando la sua bontà. È allora che diventano consapevoli della gravità del peccato commesso». Il penitenziere della cattedrale è delegato dal vescovo per l’assoluzione dei peccati «riservati». «Tra questi, l’aborto che – annota Guerri – segna per sempre la coscienza della persona, fa provare il vero dolore, e la volontà di rimedio mediante i metodi suggeriti dal confessore: adozione a distanza, carità, sostegno alla vita in ogni aspetto, materiale e morale e spirituale, per compensare la vita distrutta. Non esiste peccato che non si può assolvere. Tanto grande è la misericordia di Dio».

Sette confessori, frati carmelitani scalzi, accolgono ogni giorno i penitenti nella chiesa di S. Torpé a Pisa, a due passi dal centro cittadino. Fra loro, padre Enrico Bianucci, 83 anni, sacerdote da 54, che ha conosciuto una moltitudine di vite segnate dal dolore. «Qui in tanti trovano conforto e ricevono la grazia dalla confessione, che esprime maturità della fede. La coscienza del peccato infatti nasce dall’essere figli di Dio, il cristiano è legato a Cristo, fonte di vita: il peccato lo separa da lui, come un tralcio che separato dalla vite si secca. La Chiesa, non solo maestra, è madre che risveglia a vita divina la fede, ricevuta nel battesimo, soffocata dalla cultura terrena, profana, che fa perdere agli uomini la prospettiva cristiana».Padre Enrico quasi si commuove quando dice: «Avverto fermenti di grazia e di speranza più preziosi degli scandali. Ma sono perle nascoste: Cristo non fa propaganda di misericordia». Si riferisce ai tanti cuori di pietra che ha visto tramutarsi in cuori di carne. Racconta: «Negli anni ’90, quand’ero a Firenze, ricevetti l’incarico dal superiore del mio ordine di effettuare esorcismi nei casi in cui ne ravvedessi la necessità: quante sofferenze ho incontrato! Un’esperienza difficile che mi ha arricchito, portata poi qui a Pisa, dove vivo quasi un “nuovo ministero”, quello dell’amicizia e della condivisione della sofferenza con i peccatori». Per padre Enrico ogni confessione è un’esperienza di intensa, che spesso diventa legame: «In tanti si affidano a me, molti tornano, li accompagno con la preghiera, sostenendo i percorsi di conversione. Il peccatore deve sentirsi amato non giudicato, deve sapere che la Chiesa condanna il peccato non chi lo commette: quando comprende che Cristo soffre per lui, si sciolgono le resistenze. La sofferenza del crocifisso converte, annuncia misericordia, spezza il cuore di pietra. Qualunque egoista di fronte all’amore (che è potente) china il capo. Ci aiuta la santa Madre di Dio che, esente da ogni colpa, è mediatrice di grazia per ogni peccatore pentito».Questo anziano frate, piegato dall’età, ma alto e diritto nello spirito e nell’amore per il prossimo, confida: «Quante grazie, gioie e dolori condivido nel mio ministero! Ogni ‘salvezza’ mi porta beneficio: come pastore dono l’assoluzione, come cristiano ne sono arricchito».È ora di liberare il suo tempo prezioso. Un uomo dallo sguardo indurito incrocia il cronista sulla porta della chiesa, lo accusa di essergli passato davanti all’incontro con il frate. Non raccoglie neppure le scuse, si precipita dentro questo «pronto soccorso dell’anima». Deve essere un caso urgente. PERCHE’ ESISTE ANCORA IL PECCATO?Intervista a don Maurizio GronchiSe è vero che Gesù toglie il peccato dal mondo, perché il peccato c’è ancora, e così forte? Lo abbiamo chiesto al teologo don Maurizio Gronchi, sacerdote pontederese, docente di cristologia alla Pontificia università urbaniana a Roma: «Il carattere universale del disegno salvifico di Dio compiuto in Gesù – già intuito da Isaia e annunciato dall’apostolo Paolo – ci suggerisce di volgere lo sguardo al “mondo”, ovvero a quello spazio vitale in cui le relazioni tra gli uomini assumono una connotazione peccaminosa, che è rifiuto e opposizione al dono offerto dal Padre all’umanità, che è il suo amato Figlio. Prima di pensare ai singoli peccati – rileva Gronchi – occorre comprendere che il “peccato” consiste nel non credere a Gesù quale Figlio inviato e rivelatore del Padre. Questo è il reale disorientamento a cui vanno incontro coloro che non sono più in grado di riconoscersi figli amati da Dio, e dunque fratelli capaci di amare. Il peccato, allora, è sempre da definire in base a questo criterio cristologico fondamentale: proprio in quanto è Gesù che lo “toglie”, in certo modo possiamo pensare che sempre contro di Lui è rivolto. E, riflettendo sul senso del suo “togliere” il peccato del mondo, è da intendersi non tanto come un rimedio posto da Dio all’imprevista “caduta originaria”, ma come unico piano divino che viene dall’eternità e ad essa ritorna attraverso la storia di salvezza, che ha in Cristo la sua origine, il centro e il compimento. Da questo punto di vista, Dio, in Cristo, non solo “toglie” il peccato, ma anche “dona” la vita eterna. Infatti, quando Dio toglie non lascia il vuoto, ma colma di sommo bene. Perciò Paolo esclamerà: “dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia””.Nonostante il peccato sopravviva con insistenza nel mondo, annota ancora Gronchi, “la sua irresistibilità è esclusa dalla presenza irreversibile di Cristo, proprio grazie all’esperienza della Chiesa – quella parte di mondo che ha accolto il Figlio – che permette ai credenti di testimoniare la fede nel Signore e di offrire speranza al mondo, mediante l’amore verso i fratelli. Quindi, è l’esistenza cristiana (fede, speranza, carità), sostenuta dalla grazia dei sacramenti a custodire la paradossale condizione in cui convivono la santità della Chiesa insieme al peccato dei suoi figli, così come nel mondo continuano a crescere il buon grano e la zizzania. Per tornare alla domanda iniziale – conclude – possiamo nutrire la speranza che nonostante il peccato sia già stato tolto, eppure ancora sopravvive, la salvezza di Dio (in Cristo, per lo Spirito, accolta dalla Chiesa) com’è stata la prima parola sul mondo, così sarà anche l’ultima». Nel frattempo, ci sostiene la fiducia nell’instancabile ed universale amore di Dio che perdona e salva.