Lucca

Elisa, volontaria in Africa per un mese: «Alla fine non volevo più venire via»

Cosa ti ha spinta a partire come infermiera volontaria in Madagascar? «Volevo realizzare il sogno di andare in Africa. A novembre 2021 ho iniziato il corso di laurea magistrale in Scienze Infermieristiche e ostetriche e, avendo lasciato il lavoro in ospedale, ho colto l’occasione di più tempo a disposizione. Volevo vedere una realtà totalmente diversa, conoscere il popolo e il suo modo di vivere. Ho trovato l’Associazione Amici di Ampasilava di Bologna, che ha costruito l’ospedale in cui sono andata e ho deciso di partire». Com’è stato il tuo viaggio? «Sono partita dalla Toscana insieme ad un’altra infermiera, ci sono voluti tre giorni per arrivare e questo fa capire la difficoltà di raggiungere e vivere laggiù. Abbiamo sorvolato il Madagascar vedendo sotto di noi il niente, abbiamo fatto anche otto ore su una jeep per una strada sterrata e alla fine siamo arrivate al villaggio di circa 3000 abitanti, in maggioranza pescatori, che vivono in capanne senza letti e senza bagno». E l’ospedale invece com’era? «L’esperienza lì è stata molto forte, i reparti sono al chiuso ma accanto a stanze aperte, quindi alla portata di pipistrelli e simili. Lì vengono portati strumenti e materiali dall’Italia, di scarto; ci sono operatori fissi del posto che hanno imparato con l’esperienza a stare in ospedale e poi volontari italiani che arrivano, le prime due settimane eravamo tutti giovani». Di cosa ti occupavi con gli altri volontari? «Facevamo triage, visite delle A urgenze e attività in ambulatorio, tipo analisi e medicazioni o nei reparti, come terapie e esami. Io mi sono buttata un po’ in tutto: un giorno nel reparto della dentista, un altro, emozionantissimo, in quello dell’ostetrica, un altro ancora in sala operatoria. Abbiamo curato persone che hanno camminato anche quattro giorni per venire in ospedale». Come vi siete rapportati al popolo locale dentro e fuori dall’ospedale? «Benissimo, ci hanno proprio accolti ed integrati, invitandoci anche alle loro feste, grazie anche all’antropologa che era con noi. Sono molto grati del fatto che ci sia l’ospedale. In Occidente diremmo che loro sopravvivono, invece hanno sempre il sorriso, niente stress e un senso di comunità fortissimo rispetto a noi, che ci lamentiamo sempre». Guardandola ora, cosa ha significato per te questa esperienza a livello personale e professionale? «Professionalmente ovviamente ho imparato di più negli ospedali italiani dove, però, rispetto a lì si sta nel lusso. In Africa impari veramente ad andare avanti con il niente, non ci sono strumenti e nessuno a cui rivolgersi. A livello personale ti riempie davvero tantissimo, all’inizio non è semplice adattarsi ma alla fine non volevo più venire via. Mi porto dietro le cose ho imparato dai professionisti con cui ho collaborato, l’incontro con il popolo e i colori di questa terra». Nel tuo futuro ci sarà un’altra esperienza così? «Ovviamente sì, ho sofferto molto il mal d’Africa. Mi sono già informata anche per altri posti. Economicamente è impegnativo, però è un’esperienza che consiglio a tutti: vedere le persone che vivono di niente fa essere più consapevoli di quello che si ha e fa essere grati alla vita. Qui è difficile sviluppare questa consapevolezza».