«Uscendo dall’angoscia dei mesi di crescente diffusione della pandemia – ha affermato l’arcivescovo – sentiamo il bisogno di ripensarci in modo nuovo, di staccare dal nostro passato, perché proprio il tempo delle limitazioni imposte dal contrasto alla circolazione del virus ha permesso di fare un discernimento – speriamo profondo quanto ce n’è bisogno – tra ciò che è davvero essenziale nella vita umana e ciò che invece l’appesantisce perché non appartiene alla sua autenticità. Troppe cose che sembravano irrinunciabili ci sono apparse vacue, e qui possiamo mettere tutto il mondo del consumismo, mentre di altre abbiamo capito quanto fossero indispensabili, e penso anzitutto alle relazioni tra le persone».E se ciascuno di noi è richiamato, da questa situazione, a ripensare alla propria identità e alla propria missione, lo stesso vale per Firenze. L’identità di Firenze si riassume, per Betori, nelle parole del venerabile Giorgio La Pira: «Firenze ha una propria universale missione nel sistema della civiltà umana e cristiana: essa inserisce, infatti, nel dinamismo così attivo del mondo moderno un elemento equilibratore di riposo, di bellezza, di contemplazione, di pace: essa costituisce per gli uomini di tutti i continenti come una riserva pura, un’oasi delicata, che ha per tutti un dono di elevazione, di proporzione, di misura. Ecco perché Firenze appartiene, in certo modo, a tutti i popoli e a tutte le genti». Una visione, quella lapiriana, che si fa anche concreta: «In una città un posto ci deve essere per tutti: un posto per pregare (la chiesa), un posto per amare (la casa), un posto per lavorare (l’officina), un posto per pensare (la scuola), un posto per guarire (l’ospedale)».In queste parole quindi l’arcivescovo ha voluto indicare un «progetto di rinascita della città» che può orientare «le scelte urbanistiche, economiche, imprenditoriali, sociali che si dovranno fare nei prossimi mesi».Nell’omelia del cardinale Betori, anche un pensiero al suo predecessore, il vescovo Sant’Antonino Pierozzi, e a Filippo Brunelleschi: avere come punto di riferimento l’infinito fu «ciò che gli permise di osare, giusto seicento anni fa, il progetto di questa cupola, misurandola di braccio in braccio fino al cielo».