Firenze

La Messa per i dieci anni del cardinale Betori a Firenze: «sento che ci vogliamo bene»

«Sento che ci vogliamo bene. I giorni che passano non fanno che accrescere questo legame di affetto e non solo di funzione. Lo sento in modo particolare in questi giorni. Lo sento giorno dopo giorno nella Visita pastorale. Ve ne sono profondamente grato, perché magari la mia riservatezza, da umbro che fatica a diventare fiorentino – ma non ho faticato ad essere schietto! –, non lo lascia trasparire, ma anche il vostro vescovo ha un cuore».

Sono le parole pronunciate dal card. Giuseppe Betori nel saluto al termine della celebrazione che ha riunito in duomo il clero fiorentino al completo. La Messa si era aperta con le parole del vicario generale mons. Andrea Bellandi, che ha espresso la gratitudine della diocesi al vescovo. A concelebrare anche il cardinale albanese Ernest Simoni, che Betori ha calorosamente ringraziato. Tra le autorità presenti in cattedrale anche i rappresentanti di varie  chiese cristiane presenti a Firenze e l’assessore Massimo Fratini, che ha la delega del comune di Firenze ai rapporti con le comunità religiose. 

«Come feci dieci anni fa, all’ingresso in diocesi, rinnovo l’invito a metterci sotto la parola di Dio, perché essa illumini la nostra esperienza di fede e il nostro cammino pastorale»: così ha iniziato Betori la sua omelia, proseguendo: «Nell’annunciare e servire Gesù sta la sostanza del nostro essere Chiesa, del nostro edificarci come popolo di Dio, da lui convocato, da lui ogni giorno rigenerato dalla Parola e dai sacramenti, da lui inviato a mostrare nell’esperienza della comunione la potenza del suo amore che fa nuove tutte le cose. È una Chiesa, la nostra, che vive la ricchezza e la fatica di comporre insieme una varietà molteplice di esperienze di fede, di espressioni di vita cristiana, di doni dello Spirito, come pure di caratteri umani e culturali i più diversi. Sono orgoglioso di essere il pastore di una Chiesa che non appiattisce, ma lascia vivere la feconda varietà umana e spirituale dei suoi figli. So anche di avere il compito di ricondurre tutto a unità. In questo so di poter contare sull’operoso ministero di presbiteri e diaconi, sulla testimonianza della trascendenza che ci offrono fratelli e sorelle della vita consacrata, sulla testimonianza di Vangelo vissuto dei nostri fedeli laici, uomini e donne, nelle famiglie, nel lavoro, nelle relazioni sociali, nel servizio della carità».

Parlando della Chiesa fiorentina, ha affermato: «L’unico progetto pastorale in cui possiamo riconoscerci è il Vangelo; e nell’orizzonte tracciato dal Vangelo si pone la strada della comunione tra noi e il contributo da offrire all’edificazione della città degli uomini. È questa peraltro la grande lezione dei nostri testimoni, antichi, da Zanobi e Antonino fino a Maria Maddalena de’ Pazzi e Filippo Neri, e recenti, come i venerabili Elia Dalla Costa e Giorgio La Pira, i servi di Dio Giulio Facibeni ed Enrico Bartoletti, uomini esemplari nel servire il Vangelo come Lorenzo Milani e Divo Barsotti. Tutti costoro ci dicono di avere a cuore Gesù Cristo, e solo lui! Noi, che ne dovremmo essere un riflesso, il vostro vescovo in particolare, possiamo solo nutrire la speranza di non aver offuscato troppo con le nostre povertà e debolezze la potenza della sua luce».

L’arcivescovo di Firenze ha quindi ricordato l’invito di papa Francesco proprio a Firenze, a costruire un nuovo umanesimo che, come quello che appartiene alla storia fiorentina, abbia il volto della carità e ha ricordato il Cammino sinodale, che vede impegnata la diocesi, e la visita pastorale «i cui momenti qualificanti per me sono gli incontri con i malati e gli anziani ma anche i dialoghi con i bambini e i ragazzi, soprattutto lo stare vicino ai preti e, attraverso di loro, a tutti voi».

Betori ha ricordato anche «le tante occasioni in cui questa città, accogliendomi nei momenti gioiosi e tristi della sua storia, mi permette di stare vicino a tutti, credenti e non credenti, per essere segno di un Dio vicino e mai dimentico dell’umanità».

Nel saluto finale, ha infine ricordato il legame particolare «per i miei preti. Questo “miei” non vuole indicare un possesso, ma una comunione e una responsabilità. Un legame che è anche di compassione, sì di compassione per i miei preti, perché sono sempre meno, sono gettati in un mondo che cambia a cui nessuno è stato capace di prepararli, sono però fedeli e generosi; ve li affido come padri e fratelli».