Firenze

Uno stimolo al dialogo tra le diverse sensibilità

di Renzo BonaiutiGli interventi di Pietro De Marco, la cui conoscenza e amicizia risale per me ormai agli anni 60, sono sempre stimolanti e fanno riflettere. Vorrei comunque esporre qualche osservazione, in “concordia discors”, su alcuni punti del suo scritto, uscito su Toscana oggi /l’Osservatore toscano del 10 giugno 2007, con una sua valutazione della Lettera alla Chiesa fiorentina, (della quale sono stato uno fra i molti firmatari).Faccio questo nella certezza che il dialogo possa continuare a vari livelli, non solo tra i christifideles laici, ma anche con i Pastori. In fondo la Lettera ha avuto almeno il pregio di aver suscitato una riflessione comune attraverso vari incontri, tra i quali quello con l’Arcivescovo, e sulle colonne del giornale diocesano e non solo.Comincerei dal tema della “modernità”, tema che comunque può rimandare, in qualche modo, al concetto di “segni dei tempi”: d’altra parte mi pare che tutti i segni si possano considerare come sintomi, provocazioni, non come imperativi: hanno carattere ambivalente, senza voler dare a questo termine preventivamente un significato positivo o negativo. Su di essi il cristiano (e la comunità cristiana, la Chiesa) ha il compito di esercitare il discernimento. Mi pare allora che tra i segni della modernità come la libertà di coscienza, la libertà religiosa, la l’autonomia delle realtà temporali e della ricerca culturale e scientifica sono stati pienamente riconosciuti come tali da chi ha autorità nella Chiesa (salvo varie eccezioni) solo col concilio Vaticano II.Forse, in molti casi, chi deteneva l’ufficio nella chiesa era probabilmente troppo affezionato ad altri segni, quelli vissuti in passato dalla cristianità (in cui c’era un legame tra vita ecclesiale e ruolo del politico…) e mantenuti autoritativamente, senza un adeguato discernimento di vari segni, compresi anche quelli che riguardavano aspetti religiosi e teologici, che stavano manifestandosi dal 1500 in poi… Potrei tornare a citare, tra l’altro, il caso Galileo, e nel secolo XIX, il Sillabo ( e prima la Mirari vos…), la condanna delle Cinque piaghe della Chiesa di Antonio Rosmini, la nostalgia dell’alleanza tra “trono e altare”, la lunga rivendicazione di forme di potere temporale, le diffidenze verso l’ecumenismo e verso la lettura scientifica della Bibbia (almeno fino al 1943)…Per grazia di Dio c’è stato chi ha indicato la via “per un dialogo con i tempi moderni, il nuovo stato di cose, le nuove forme di vita, i nuovi orizzonti dischiusi all’apostolato cattolico” , secondo l’”indole pastorale del Magistero” utilizzando “la medicina della misericordia” piuttosto che le armi delle condanne (Cf. Giovanni XXIII, Discorso iniziale del Concilio, 11 Ottobre 1962). Mi pare inoltre necessario segno di discernimento tener conto che anche in rapporto alla dimensione antropologica, “il progresso delle scienze, i tesori nascosti nelle varie forme di cultura umana attraverso cui si svela più appieno la natura stessa dell’uomo… aprono nuove vie verso la Verità e tutto ciò è di vantaggio anche per la Chiesa” (Cf Gaudium et spes 44).Penso che la fede cristiana, senza perdere di vista la signoria del Cristo risorto sul mondo può affermare più pienamente la propria libertà riconoscendo quella degli altri campi e orientarsi verso la sua vocazione profetica, “alleggerendosi delle accentuazioni dovute al regime di cristianità ormai svanito” (cf. Duquoc). Penso quindi che in questa prospettiva, i rimproveri di Pietro De Marco sui “cristiani che non sanno affrontare la disapprovazione dell’uomo contemporaneo” o il “dispregio cattolico critico” per il magistero, o addirittura l’accusa sulle informazioni tramite il canale preferito di certi giornali siano fuori luogo… Chi detiene l’autorità nella Chiesa ha il pieno diritto di segnalare i rischi insiti in vari aspetti della cultura, dell’antropologia, della prassi contemporanee. Comunque c’è anche un problema di metodo,che riguarda prima dell’intervento autorevole, le modalità di rapporto con la comunità cristiana, e un problema di “stile”, che a indicazioni calate dall’alto con precise consegne, può preferire proposte di valori, affidando alla responsabilità dei laici l’autonomia delle mediazioni per le scelte politiche e legislative. E’ un modo anche per evitare al contempo possibili strumentalizzazioni provenienti da qualsiasi parte. Proprio per tali motivi è sorta l’occasione che ha sollecitato la Lettera. Il mio auspicio, quindi è che si torni a sottolineare la necessità del dialogo tra le varie sensibilità ed esperienze presenti nella Chiesa e tra laici e pastori, a cui comunque spetta il dovere dell’ascolto per giungere con autorevolezza al ministero della sintesi, (l’espressione “ministero della sintesi” non è mia ma del teologo Bruno Forte, oggi arcivescovo…).Credo quindi che la “sinodalità diffusa” (che pare sospetta a Pietro De Marco) potrebbe offrire maggiore forza e capacità di convinzione alla stessa sacra potestas anche perché la presenza dello Spirito Santo anima non solo i Pastori, prima durante e dopo i Concili, ma anche tutti coloro che in virtù del battesimo sono insigniti del sacerdozio comune e del potere profetico e regale (cf Lumen Gentium 10 e 12). Alcune ultime osservazioni.1. L’espressione “genuinamente umano” rimproverata alla Lettera da De Marco non è detta nonostante o contro la norma ecclesiale, ma è espressione pienamente ecclesiale, tratta da Gaudium et spes,1.2. Se non sbaglio mi pare che sia proprio S. Agostino, scrivendo delle due città (quella di Dio e quella dell’”amore di sé fino al disprezzo di Dio”) a disegnare la Civitas Dei, come “disseminata”, e anche mescolata, fin dall’inizio della storia, con l’altra città, nelle persone, nelle situazioni, nei gruppi, nelle aggregazioni sociali e religiose, nella chiesa stessa …3. Pietro De Marco dice che la Lettera potrebbe essere stata scritta indifferentemente 30, 20 anni fa quindi in un clima culturale e religioso ormai lontano.

Si parva licet… anche il testo da lui citato del teologo Ratzinger, oggi papa Benedetto XVI, Introduzione al cristianesimo (che giustamente conserva tutto il suo valore e sia io che Pietro De Marco fummo consigliati di leggerlo in quegli anni da padre Balducci) è del 1968; e del 1972 è Introduzione alla fede dell’allora teologo Walter Kasper (oggi cardinale e presidente del Pontificio consiglio per l’unità dei cristiani) , di cui consiglierei di rileggere il capitolo ottavo sulla Chiesa e la sua riflessione sull’ufficio dei Pastori che “non è un super-criterio, che solitario domina da una altezza olimpica sulla chiesa e sulla sua ricerca comune della verità per distribuire censure. L’ufficio è piuttosto responsabile del realizzarsi della giusta comunicazione all’interno della chiesa. L’ufficio è servizio sotto un duplice aspetto: servizio alla parola e servizio alla comunità”.