Firenze
L’Arcivescovo Betori diventa cardinale:”Un dono e una responsabilità”
di Riccardo Bigi
Un dono e una responsabilità. Così l’arcivescovo Giuseppe Betori definisce il cardinalato: questo sabato, durante il Concistoro, l’arcivescovo di Firenze riceve la «berretta» di colore rosso, simbolo della dignità cardinalizia, e viene creato Cardinale da papa Benedetto XVI. Domenica, in Cattedrale, la Messa durante la quale tutta la Chiesa fiorentina potrà stringersi intorno a lui per gioire insieme. È l’occasione per riflettere su quali nuovi impegni e prospettive si aprono con questo avvenimento, e anche per parlare più in generale della vita della Chiesa fiorentina.
Si appresta a diventare Cardinale: quale significato dà a questa nomina, sia a livello personale che per la Diocesi che le è affidata?
«Anzitutto è un gesto di benevolenza da parte del Santo Padre sia verso la mia persona che verso la città di Firenze. Quindi è un dono che si accetta con gratitudine. Un dono impegnativo, soprattutto in due direzioni: la prima è quella del rafforzamento del mio legame con il Santo Padre e del legame della Diocesi con la Sede di Roma. Dall’altro lato c’è il farmi carico di una responsabilità verso la Chiesa universale come collaboratore del Papa, e quindi anche uno stimolo per la Chiesa fiorentina alla cooperazione missionaria, alla collaborazione con le Chiese che sono nel mondo».
Qual è l’apporto che la Chiesa fiorentina, anche attraverso i suoi cardinali, ha dato e può dare alla Chiesa universale?
«Il contributo della Chiesa fiorentina è sempre stato quello di una città e di un territorio in cui l’impatto della fede con la cultura ha significato tantissimo: un contributo quindi alla dimensione culturale della vita della Chiesa. E credo che questo debba essere ribadito; intendendo bene però che si parla di cultura non come di qualcosa di aggiuntivo alla vita ma come il sapore stesso, la struttura stessa della vita, e della vita della Chiesa».
Ha indicato nel cardinale Dalla Costa, di cui ha da poco celebrato il 50° della morte, un predecessore che considera un modello importante cui ispirarsi. Quali sono i tratti del Servo di Dio Elia Dalla Costa che le sembrano particolarmente significativi, e ancora attuali?
«Direi che è stato un vescovo anzitutto di profonda spiritualità, e questo incontra una delle esigenze odierne della Chiesa che il Santo Padre sta evidenziando con grande forza, che è la questione della centralità della fede: la riproposta della fede come “il” problema della Chiesa e della sua missione lo sta a dimostrare. In Dalla Costa questo è molto evidente: è senz’altro un vescovo che ha avuto una forte presenza sociale, è stato un grande animatore di attività pastorali però nella sua identità più profonda è stato soprattutto un grande uomo di fede. Tutto il resto scaturiva dalla sua fede. Da questo punto di vista credo che la sua lezione sia ancora attuale e che abbiamo molto da imparare».
Sono passati più di tre anni dall’inizio del suo ministero episcopale a Firenze: se dovesse scegliere alcuni momenti che hanno segnato in modo particolare questo periodo, quali le vengono in mente?
«La emblematicità della giornata che ha segnato l’inizio del mio ministero episcopale a Firenze dice molto anche di quello che è accaduto dopo. L’incontro con i bambini e con il mondo della sofferenza all’ospedale Meyer, con Maria e la devozione mariana fiorentina alla Santissima Annunziata, l’incontro con il popolo di Firenze sia durante il cammino che nella celebrazione in Cattedrale stanno a significare quello che è il nocciolo più vero della presenza di un vescovo in mezzo a una comunità. Poi mi vengono in mente alcune iniziative particolari, dall’avvio dell’inventario dei beni culturali, alla recente ostensione delle icone russe in Battistero, al recupero della valenza religiosa del David di Michelangelo. Sul piano più strettamente pastorale, ricordo con piacere, i momenti di formazione permanente del clero, così come i rapporti personali con ognuno dei miei sacerdoti, la partecipazione, insieme a circa 1.500 giovani della diocesi, alla Giornata Mondiale della Gioventù di Madrid. Ricordo anche le iniziative promosse dalla Diocesi per aiutare le persone colpite dalla crisi economica, come il Fondo di garanzia per il microcredito, e più in generale le tante iniziative a favore delle situazioni di fragilità e povertà. La Chiesa è anche partecipe delle vicende di questa città e del territorio, e per questo abbiamo cercato di attualizzare in chiave locale l'”Agenda di speranza” emersa dalla Settimana Sociale nazionale, in ordine a un impegno sempre maggiore dei cattolici per il bene comune. Tutti momenti che fanno parte di un colloquio stretto con la vita della città a cui ho cercato di non sottrarmi mai. Anche richiamando, quando ce n’è stato bisogno, alcuni principi che nascono da una visione cristiana dell’uomo ma che la Chiesa ritiene di poter proporre a tutti, come contributo alla definizione di un’etica condivisa».
Firenze come città della carità, del volontariato, della pace, città aperta e solidale: fin dal suo arrivo ha sottolineato questa immagine. L’ha trovata veritiera? E’ un’immagine ancora valida? In che cosa può essere rinforzata?
«Secondo me quella della carità è una delle anime più profonde di Firenze, forse meno conosciuta all’esterno ma che si impone con evidenza a chi vive in questa città e soprattutto a chi esercita una responsabilità nei suoi confronti. Una storia antichissima e allo stesso tempo una storia che si rinnova continuamente, che genera continuamente novità. Possiamo pensare alla Misericordia, alla Madonnina del Grappa ma anche a storie più recenti come il Progetto Villa Lorenzi o le opere della Caritas… Queste e tante altre realtà continuano a dire che c’è una inventività della carità in questa città che non si ferma mai, e questo è molto bello. Se qualcosa c’è da fare di più, secondo me, è coniugare meglio la strada della carità con quella della cultura perché non camminino parallelamente ma si intersechino di più tra di loro. Se riuscissimo a fare un passo ulteriore per coniugare insieme queste due anime di Firenze credo che faremmo un passo importante».
Il modo in cui la città ha reagito all’assassinio, per motivi razziali, di Samb Modou e Diop Mor le è sembrato coerente con la storia di questa città?
«Non mi sarei aspettato niente di diverso perché sarebbe stato davvero una rottura con la tradizione, ma anche con l’anima attuale della città, se ci fosse stata indifferenza di fronte a questa tragedia. Mi è sembrato normale per Firenze che la gente si sia stretta intorno alle famiglie delle vittime e alla comunità senegalese, e abbia espresso un rifiuto netto della violenza in sé e di questa violenza macchiata di razzismo in modo particolare».
Lei ha insistito molto anche sulla necessità di rilanciare la dimensione culturale sia nella vita della Chiesa fiorentina che in quella della città. L’impegno in questo ambito fa parte della sua storia personale, che lo ha visto in passato tra i promotori del Progetto culturale della Chiesa italiana ed oggi membro del Pontificio Consiglio per la Cultura. Ha visto dei cambiamenti in questi anni nel panorama fiorentino, sia a livello ecclesiale che civile? E cosa c’è ancora da fare?
«Il periodo della mia presenza a Firenze è troppo breve per poter dare giudizi. Voglio però ribadire l’importanza di questo ambito, e al tempo stesso la sua estrema difficoltà oggi, perché rispetto a un passato in cui il dialogo tra fede e cultura era più semplice, la frammentarietà delle culture in cui viviamo fa sì che sia difficile individuare gli interlocutori e quindi anche poter fare dei progetti che siano proponibile a tutti. Proprio perché questo “tutti”, questo soggetto globale, è oggi qualcosa di estremamente labile».
Firenze si è fatta promotrice, pochi mesi fa, di un incontro nell’ambito del «Cortile dei Gentili», il percorso ideato dal Pontificio Consiglio per la Cultura secondo una intuizione del Papa. Può essere lo stile su cui impostare in futuro altre occasioni di incontro tra fede, arte, cultura, letteratura?
«Direi di sì. Qualcosa già facciamo, per esempio con la proposta dei “tesori della letteratura cristiana”, altre cose le stiamo programmando proprio con il piccolo gruppo di credenti e non credenti che organizzò quell’evento. C’è però da considerare che non è soltanto questo il modo in cui dobbiamo impegnarci in questo ambito: oltre al dialogo, che è essenziale e doveroso, è altrettanto essenziale per noi come Chiesa l’azione di annuncio in senso stretto».
La sua prima Lettera pastorale, «Nel silenzio la Parola» tocca temi essenziali come la verità, il dialogo, la necessità di ascolto, di meditazione, di preghiera. Come le sembra che sia stato accolto questo messaggio?
«L’accoglienza è stata molto positiva, la gente me ne parla, ne sono scaturite delle iniziative di approfondimento molto interessanti e qualificate, e altre sono in cantiere. Non nascondo che c’è anche stata l’indicazione da parte di molti di una certa difficoltà del linguaggio e dell’argomentazione che io propongo. Per questo peraltro ho voluto dedicare allo stesso tema la lettera alle famiglie, in cui gli stessi contenuti sono proposti in termini più accessibili. E poi posso annunciare che sto pensando a una traduzione della lettera ai ragazzi. Penso di riscrivere alcuni contenuti della lettera rivolgendomi direttamente a loro: vediamo cosa verrà fuori. Non mi dispiace comunque di aver fatto un testo un po’ arduo, che costringe a pensare un po’. Nella comunicazione di oggi in cui siamo abituati a sentire di tutto e poi non resta nulla, se il doverci pensare sopra può servire a far restare qualcosa sono contento».
In ottobre sarà uno dei quattro vescovi italiani che parteciperanno all’assemblea del Sinodo dei Vescovi sulla Nuova Evangelizzazione. Si parlerà della ricerca di “nuovi modi di essere Chiesa” e del “coraggio di osare sentieri nuovi” per l’annuncio del Vangelo. Ha già in mente quali idee porterà all’assemblea?
«No, perché mi sono ripromesso di mettermi prima all’ascolto del nostro Consiglio pastorale diocesano e dei nostri preti per raccogliere le istanze che dalla vita della nostra Chiesa vengono al riguardo. Certo, la dimensione culturale non potrà non esserci dentro a quel che dirò. Però preferisco completare questa fase di ascolto prima di poter dire che cosa portare all’assemblea del Sinodo. Vorrei che la mia presenza lì fosse una presenza della Chiesa fiorentina e non solo delle idee e delle esperienze di un vescovo».
Compirà da Cardinale anche la visita pastorale, che dal prossimo autunno la porterà a girare le parrocchie e più in generale il territorio diocesano: incontrerà anche scuole, fabbriche, ospedali, consigli comunali e tutti gli ambienti in cui sarà invitato. Con che animo si prepara a questo lungo viaggio?
«La visita pastorale un tempo era il centro della vita di un vescovo nel contatto con la sua gente. Oggi ha meno il carattere della eccezionalità perché i modi di comunicazione si sono ampliati, e anche la stessa presenza del vescovo è un fatto più comune: io stesso ormai credo di aver girato quasi tutte le parrocchie. Questo toglie alla visita pastorale la veste della eccezionalità; resta però il fatto che è una forma coordinata, articolata, organica di rapporto con i preti e con la gente, e questo credo che debba portare a far conoscere il vescovo alla gente e la gente al vescovo, cercando di coniugare insieme la dimensione evangelizzatrice che è propria di ogni azione della Chiesa e la dimensione comunionale che è propria della presenza del vescovo nei legami che egli ha con il clero e con i fedeli. Unire evangelizzazione e comunione, questa è la grande sfida che io mi pongo circa i modi in cui si articolerà la visita pastorale. Restando bene inteso che poi, come lei ha ben detto, io andrò dovunque sarò invitato. Andando nelle parrocchie vado in casa mia e quindi non ho bisogno di inviti, ma per tutto il resto, sarò ben lieto di andare a trovare chi mi vorrà, consigli comunali, scuole, fabbriche ospedali Ma non voglio essere io a invadere alcun territorio: che tutti si sentano liberi di invitarmi. Io spero che siano in molti a farlo perché questo significa che vedono non in me, ma nella Chiesa un soggetto significativo della vita del territorio».
Guardando più lontano, al 2015, Firenze ospiterà il quinto Convegno Ecclesiale Nazionale. Come si preparerà la Chiesa fiorentina in questi tre anni?
«Sono molto lieto di questa scelta che il Consiglio permanente della Cei ha voluto fare. Io ho vissuto tre Convegni Ecclesiali Nazionali, il primo come delegato della diocesi, il secondo come organizzatore, il terzo come Segretario Generale della Cei. Quindi so l’importanza di questi eventi per la vita della Chiesa. Dobbiamo ricordare che il soggetto promotore dell’evento non è la Chiesa fiorentina ma è la Conferenza episcopale italiana, quindi dovremo avere l’umiltà di lasciarci guidare ed essere pronti ad accogliere le indicazioni che ci verranno date. A noi è chiesto invece un grande sforzo sull’accoglienza e sull’organizzazione. Sul piano organizzativo sarà necessaria la disponibilità di mezzi, di persone, di strutture, e su questo mi è stato assicurato ogni tipo di aiuto sia a livello di istituzioni cittadine che di realtà sociali della città. Sul piano dell’accoglienza, è molto importante che chi viene da tutta Italia (saranno circa quattromila persone tra membri dell’assemblea, organizzatori, giornalisti, invitati e così via) possa sentirsi a casa propria, in una Chiesa e in una città che esprimono il meglio del proprio volto e lo propongono come una cornice di fede e di cultura che permetterà ai contenuti che ci verranno proposti di svilupparsi nelle condizioni più favorevoli».