Quando, nel 1790, Pietro Leopoldo lasciò la Toscana la regione era fra i più moderni stati d’Europa. Tuttavia la politica agraria da lui adottata si era rilevata un mezzo fiasco. Le molte terre sottratte ad enti ecclesiastici e ai Corpi Morali soppressi furono in larga parte acquisite dai nobili e da un nuovo ceto borghese che divenne anche proprietario terriero. Al contrario i contadini – specie nella campagna aretina – divennero sempre più poveri. Molti mezzadri caddero nelle condizione di «pigionali», costretti cioè a cercare occasionalmente lavoro, a riversarsi nelle città e spesso a chiedere l’elemosina. A rendere davvero difficile la condizione della popolazione di Arezzo si aggiunsero la crisi dei raccolti e l’aumento dei prezzi che oggi chiameremmo di prima necessità. Il prezzo di uno staio di grano, che nel 1790 era di 6 lire era arrivato nel 1795 a 12 lire. Il 1795 fu l’anno dei primi moti di protesta popolare che videro per la prima volta uniti i lavoratori di città e della campagna. Lo stato di miseria e tensione si stava manifestando da tempo. Nel Catalogo dei poveri erano registrate il 60% delle famiglie aretine; i rapporti delle autorità locali parlavano di aumenti di furti campestri, risse, omicidi, infanticidi; veniva denunciato il fatto che ormai «ognuno viaggia armato per difendersi e offendere», e che spesso la popolazione protesta contro le autorità sia laiche quanto ecclesiastiche.Come sappiamo nei primi mesi del 1796 alla “carestia” si aggiunsero anche numerose scosse di terremoto. Il popolo aretino disorientato ebbe però la forza di ritrovarsi unito nella supplica al provvidenza divina, che non fece mancare i suoi frutti con il «miracolo» della Madonna del Conforto. Il «prodigio» segnò un mutamento profondo nell’animo degli aretini: diede loro un’identità e una speranza. Cessò il terremoto ma purtroppo non finì il tempo della “miseria”. Anzi. Nei due anni successiva a quello del miracolo si registrò una sensibile diminuzione nelle raccolte di grano, segale e fagioli.Intanto l’Europa era in fermento dopo lo scoppio della Rivoluzione francese del 1789. In Italia iniziò a diffondersi l’idea di una riunificazione nazionale repubblicana e popolare. Con l’avvio della fase imperialista post-rivoluzionaria, la Francia non mancò di aiutare i gruppi “giacobini” italiani che si stavano formando fra la piccola borghesia patrizia e notarile. All’arrivo di Napoleone in Italia «i patrioti» (come la storiografia ufficiale li ha chiamati) uscirono allo scoperto, ma furono costretti ad agire in regime di occupazione militare e di buon grado accolsero il “nuovo straniero”. Nello stesso anno del «prodigio», Napoleone partì alla conquista dell’Italia dicendo ai suoi soldati: «Voi siete nudi e affamati. Io voglio condurvi in fertili pianure. Vi troverete gloria e preda..». E arrivati in Toscana non rinunciarono alla preda. La stessa moglie del commissario francese a Firenze arrivò a dire: «Vediamo il palazzo granducale svuotarsi rapida- mente dacché le sue chiavi sono nelle mani di questi barbari». I fiorentini chiamavano sarcasticamente i francesi “nuvoloni” per i loro Nous voulons con i quali aprivano i loro proclami e per la loro prepotenza.Gli alberi della libertà piantati in ogni piazza, comprese quelle dell’aretino, divennero il simbolo dell’oppressione anziché della libertà. I patrioti filo-francesi venivano considerati dalla cittadinanza complici della rapina. L’obbligo di montare la guardia agli ecclesiastici, la proibizione di alcune funzioni religiose, l’arresto di chi non portava la coccarda francese, la spoliazione di chiese, le continue richieste di denaro, fecero maturare in varie classi sociali una profonda ostilità verso il nuovo governo. Fu in questo insieme di eventi che nacquero i moti antifrancesi del 1799 noti come il «Viva Maria». Certo il popolo minuto non sarebbe stato capace da solo – come sempre è accaduto in Italia – di guidare una rivolta di tale portata senza l’apporto di altri strati sociali, ma senza dubbio fu un moto “collettivo”, maturato nella diffusa speranza di uscire dalla miseria e talora imbarbarito dagli eccessi di una massa rusticana. E se è doveroso non cessare di studiarlo senza convinzioni precostituite, anche se raramente in uso nel nostro Paese, altrettanto è impossibile disconoscere che quel «Viva Maria» gridato per la prima volta il 15 febbraio 1796 in una taverna aretina, ripreso negli stendardi del 1799 e riproposto oggi nell’intimità della Cappella della Madonna del Conforto, continua a rappresentare, come nessun altro motto, Arezzo e gli aretini dell’età moderna e contemporanea.di Alessandro Gambassi