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Farneta, un’abbazia da salvare Via all’operazione di recupero

Coloro che si sono avventurati a definire le fasi storiche del complesso abbaziale di Farneta si sono imposti un compito non facile. E nemmeno per chi visita oggi Farneta è facile farsi un’idea di quella che era l’imponente struttura tra il decimo e il quattordicesimo secolo. Diversi edifici sono scomparsi, ed è rimasta solo la chiesa, questa pure, notevolmente mutilata e ridotta nelle dimensioni. Ma ciò che oggi possiamo ancora ammirare è sufficiente a testimoniare la bellezza e l’interesse architettonico del monumento.L’antica abbazia è situata sulla sommità di un’altura, lungo la strada che da Camucia porta verso Foiano della Chiana. È al centro di un territorio denominato «Chiucio» (cioè «chiuso», forse perché un tempo tutto circondato da acque alluvionali), interessantissimo per i numerosi resti paleontologici e archeologici che sono riemersi in superficie (scheletri e zanne di elefanti, resti di altri animali dell’era Terziaria e Quaternaria, insieme a reperti di epoca etrusca e romana).Fondata tra il 700 e l’800, l’abbazia conobbe il periodo di maggiore splendore tra il 900 e il 1300. Il documento più antico di riferimento risale al 1014 e dà notizia di donazioni e possesso di chiese e castelli per disposizione dell’imperatore Enrico II. Nel 1300 incominciò il periodo della decadenza: i grandiosi edifici subirono trasformazioni che ne deturparono l’iniziale eleganza. Il colpo di grazia lo inflissero, nel 1783, gli editti del granduca di Toscana Pietro Leopoldo di Lorena: i beni furono espropriati, l’antica chiesa venne ulteriormente manomessa. «Il glorioso secolare edificio fu ridotto ad una chiesuola infarcita di elementi baroccheggianti; la cripta fu abbandonata all’invasione delle acque e del fango e, in parte, adibita a cimitero con cadaveri accatastati fino all’inverosimile, prima che entrassero in vigore, nelle campagne, le leggi leopoldine del 1775 e le successive napoleoniche sul divieto di seppellire nelle chiese». La realistica descrizione è di don Sante Felici, per sessantacinque anni parroco di Farneta e infaticabile ricercatore di memorie storiche, che con tanta passione e perizia curò gli ultimi restauri e il recupero dell’abbazia nel 1940. A don Sante Felici si deve riconoscere il merito di aver salvato e riportato alla luce quanto era rimasto della maestosa chiesa abbaziale. Raccolse le memorie e il risultato di vaste ricerche storiche e antropologiche nei volumi L’abbazia di Farneta in Valdichiana, Sapienza popolare in Valdichiana e Vocabolario cortonese, per conservare «parole e cose che scompaiono». In effetti non si può parlare di Farneta senza fare un doveroso riferimento a don Sante Felici che amava autodefinirsi «archeologo dilettante e cultore della storia e delle tradizioni della Valdichiana». Oltre ad aver riportato alla luce, pietra dopo pietra, le strutture romaniche dell’abbazia con le storiche tre absidi e la stupenda cripta trifora, costituì anche un piccolo museo (tuttora esistente ed ampliato) con reperti archeologici e paleontologici del luogo, a parte quelli più importanti trasferiti nei musei fiorentini, rendendone possibile lo studio, da parte degli scienziati, delle caratteristiche fossili delle colline del «Chiucio» della Valdichiana.Trascorsi quasi settant’anni dagli ultimi restauri, l’antica abbazia mostra più che evidenti segni del tempo. Ed allora, di nuovo mano ai lavori di restauro. Non c’è più don Sante che cinque anni fa ha trovato riposo dalle sue fatiche; ora la responsabilità è sulle spalle di don Giorgio Basacca, il nuovo parroco di Farneta. Sono già stati assegnati da parte dello Stato i finanziamenti, direttamente richiesti e ottenuti dal Vescovo, monsignor Gualtiero Bassetti. Per primo verrà effettuata un’attenta osservazione e un accurato monitoraggio elettronico delle fondazioni che dovranno spiegare la ragione delle numerose crepe che si sono aperte sulle pareti. Una volta rilevata la consistenza delle fondazioni, che purtroppo gravano su un terreno argilloso, sarà valutato il tipo di intervento necessario per ridare stabilità e sicurezza all’edificio. Un lavoro lungo e paziente, ma necessario, per la salvaguardia di uno degli edifici sacri più cari alla comunità cortonese.