Rimane ancora diffusa nella mentalità comune l’idea che l’ecumenismo sia una disciplina teologica riservata a poche persone che possono essere considerate «fissate», ma estranea alla quotidianità del lavoro pastorale. Non so se questa sensazione abbia avuto nel passato una sua motivata giustificazione; so invece che oggi non è più così.L’Italia, da Paese quasi soltanto cattolico, sta trasformandosi, in linea con la nuova situazione di grande mobilità dei cittadini nel mondo, in paese multietnico, multiculturale e quindi multireligioso. Gli altri cristiani e gli altri credenti sono in mezzo a noi; li incontriamo quotidianamente: a scuola, nel lavoro, al bar, al mercato, addirittura in parrocchia. Di conseguenza il confronto e il dialogo ecumenico e interreligioso appartengono, in forme più o meno esplicite, alla quotidianità del lavoro pastorale.E però anche questo modo di presentare il problema è in ritardo rispetto alle indicazioni del Concilio Vaticano II, che in tre importanti documenti aveva già, in largo anticipo sui tempi, indicato la via da seguire. Si tratta della dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa (datata 7 dicembre 1965), della dichiarazione Nostra aetate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane (datata 28 ottobre 1965) ed infine del decreto Unitatis redintegratio del 21 novembre 1964 sull’ecumenismo. Questi documenti contengono indicazioni dottrinali e pastorali di grande rilievo alle quali però non è stata data l’attenzione che avrebbero meritato.Molto sinteticamente la Chiesa chiede rispetto per tutte le grandi religioni e ribadisce il diritto di ogni persona di praticare liberamente la propria fede; chiede una reciproca conoscenza come condizione indispensabile per un dialogo sereno e fecondo, chiede di purificare la memoria per superare reciproche scomuniche, contrapposizioni violente, incomprensioni profonde. Queste grandi linee pastorali non possono essere disattese né partendo da una semplice analisi storica, né tantomeno da una riflessione teologica, ancorata alle grandi prospettive aperte dal Concilio vaticano II.Cosa si può fare in concreto per non venir meno ad un compito irrinunciabile che fa parte del Dna della Chiesa? Non si tratta di stravolgere il lavoro pastorale di tutti i giorni; occorre però dare alla quotidianità degli impegni una nuova e più grande attenzione a quanto sta accadendo attorno a noi.Alcuni sono i gesti possibili. Qualche esempio. E’ possibile valorizzare la predicazione domenicale per richiamare l’attenzione dei fedeli alle tematiche ecumeniche tutte le volte che la Sacra Scrittura lo suggerisce o gli eventi della vita lo impongono. Non solo. Si può utilizzare la catechesi battesimale per sottolineare proprio come sia il battesimo il sacramento che unisce tutti i cristiani nella condivisione della stessa fede in Gesù Cristo, morto e risorto per la salvezza di tutti. Inoltre, c’è l’opportunità di dare più spazio nella catechesi sia ai cresimandi che ai giovani e agli adulti alla conoscenza delle altre confessioni cristiane e alle altre religioni invitando anche, quando possibile, i loro responsabili ad un incontro per una migliore conoscenza reciproca. Infine, è bene valorizzare di più e meglio le occasioni liturgiche (Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani) e gli eventi nazionali ed internazionali per sensibilizzare l’opinione pubblica dei cattolici sul tema del dialogo ecumenico ed interreligioso.Perché questa ferialità dell’ecumenismo possa concretamente realizzarsi l’ufficio diocesano per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso si mette a servizio delle parrocchie e dei gruppi operando soprattutto come «centro risorse». Ad esso ci si può rivolgere per avere sostegno e suggerimenti concreti.